MARX: Manoscritti economico-filosofici del '44

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


Manoscritti economico-filosofici del '44

Nei Manoscritti economico-filosofici del '44 (ed. Einaudi) Marx non vede mai le lotte politiche condotte dai contadini contro i feudatari, ma solo il servo della gleba docilmente sottomesso al latifondista.

Marx dà per scontato che se il contadino feudale non è riuscito a costituire un'alternativa al servaggio, non potrà farlo neppure nei confronti del capitalismo, tant'è che, a suo avviso, i piccoli agricoltori sono destinati a essere "divorati" dai più grandi e quest'ultimi o vengano rovinati dalla concorrenza dei capitalisti o si trasformano essi stessi in capitalisti.

Non c'è nel marxismo classico la cultura storica dell'alternativa. Marx è un determinista, anche se a differenza degli economisti borghesi- vede il capitalismo come una formazione sociale transitoria.

Per Marx lo scontro è tra "la volgarità aperta, cosciente di sé" del capitalista e quella "nascosta e incosciente" del nobile feudale (p. 96). I contadini sono soltanto, in questo dramma storico, delle comparse poco significative.

E comunque Marx afferma chiaramente di preferire "la brama [borghese] del possesso" a quella feudale del "godimento"; anche perché il borghese è di natura "ateo" (con la sua "ragione rischiaratrice"), mentre il nobile resta "credente" (con la sua "superstizione").

Si legga ora questo pensiero, che il Marx economista maturo avrebbe dovuto sviluppare e che invece fu abbandonato: "In quanto [l'industria] è un genere particolare di lavoro [rispetto al servaggio], in quanto è una distinzione essenziale, importante, vitale, questa distinzione rimane sino a che l'industria (la vita cittadina) si costituisce avendo di fronte il possesso fondiario (la vita aristocratica del feudo) e reca ancora in se stessa il carattere feudale di questo contrasto sotto forma di monopoli, consorterie, gilde, corporazioni ecc. [da notare che per Marx i "monopoli" sono più una caratteristica del feudalesimo che del capitalismo], situazioni storiche determinate entro le quali il lavoro ha ancora un significato apparentemente sociale, ha ancora il significato della comunità reale, non è ancora arrivato sino all'indifferenza rispetto al proprio contenuto, cioè non è arrivato ancora a essere completamente indipendente, cioè ad essere astratto ad ogni altro essere e quindi anche a essere un capitale emancipato"(2^ Manoscritto).

Il giovane Marx aveva in sostanza intuito che il capitalismo aveva portato alle estreme conseguenze negative l'apparente socialità della vita feudale (apparente appunto perché soggetta al servaggio). dando al lavoro un contenuto astratto (a motivo del primato del valore di scambio), rendendo così il lavoro un'attività completamente separata dalla comunità d'origine, ovvero subordinando tutto il lavoro all'interesse particolare dei singoli capitalisti.

Tuttavia, invece di guardare indietro, cercando di recuperare quanto ancora di "sociale" esisteva nel Medioevo, Marx ha preferito guardare soltanto avanti, dando per scontato che nulla poteva essere salvato del passato. Probabilmente a ciò si era risolto perché aveva visto che tanti proprietari fondiari s'erano trasformati in capitalisti agrari.

Marx in sostanza aveva intravisto un preciso legame tra economia borghese e religione cristiana, cioè aveva capito che le radici culturali della nascita del capitalismo andavano cercate in una negazione teorica e non solo pratica dei principi del cristianesimo (a differenza del feudalesimo, che invece pretese di affermare in sede teorica ciò che non riuscì mai a realizzare in sede pratica).

Tuttavia Marx non volle mai ammettere sino in fondo che tale negazione teorica non servì affatto a recuperare l'uomo naturale e razionale. L'emancipazione teorica dalla superstizione cristiana non comportò affatto, in maniera automatica, una umanizzazione dei rapporti sociali, anzi, il capitalismo, che pur ebbe bisogno di quella emancipazione per imporsi, non fece che accentuare ulteriormente l'alienazione nella vita sociale.

Quando, nel 3^ Manoscritto, Marx afferma che all'economia politica borghese "appaiono come feticisti, come cattolici, i seguaci del sistema monetario e mercantilista che considerano la proprietà privata per l'uomo come un'essenza soltanto oggettiva"(p. 101), egli aveva in sostanza capito che il capitalismo, se poteva nascere in un paese cattolico, nella forma del capitale usuraio o commerciale, di certo non avrebbe potuto svilupparsi autonomamente nella forma del capitale industriale se non in un paese protestante. Purtroppo queste acute osservazioni del giovane Marx sono rimaste lettera morta, anche nel marxismo contemporaneo.

Dice ancora a p. 102: "l'uomo viene posto nella determinazione della proprietà privata, come da Lutero viene posto nella determinazione della religione". Cioè è l'uomo che deve acquistare "proprietà privata" col suo lavoro o con lo sfruttamento del lavoro altrui, per potersi definire "uomo", non è più la terra che gli conferisce onore e rispettabilità. Così è il credente con la sua fede astratta, che può dimostrare d'essere "vero cristiano", rinunciando o dimenticando tradizioni, sacramenti, gerarchia ecc. L'individualismo borghese coincide con l'individualismo protestante.

Marx, tuttavia, non si lascia qui ingannare dalla rivoluzione cristiano-borghese, in quanto egli sa bene che dietro detta rivoluzione si nascondono altre forme di ipocrisia, diverse ma non meno grandi di quelle del mondo feudale.

"Così, sotto l'apparenza di un riconoscimento dell'uomo, l'economia politica... non è... altro che la messa in atto conseguente della negazione dell'uomo...(p. 102), poiché se prima era la proprietà della terra che dava senso all'identità dell'uomo, ora è il profitto estorto con lo sfruttamento del lavoro salariato.

Marx infatti dice che l'economia politica borghese è ipocrita in quanto pone il lavoro (e non il lavoro non pagato, cioè -come dirà il Marx maturo- il plusvalore) in antitesi alla rendita, facendo passare il capitalista per un lavoratore e il feudatario per un ozioso gaudente.

Nei Manoscritti (p. 112) Marx nega che il futuro comunismo abbia qualcosa da spartire col passato comunismo (netto il suo distacco da Cabet e dagli altri socialisti utopisti franco-tedeschi). "Se mai esso [comunismo primitivo] sia qualche volta esistito -sostiene Marx-, proprio il fatto di essere esistito nel passato è in contraddizione con la pretesa di valere come essenza".

Qui Marx nega un qualunque valore ontologico al comunismo primitivo, semplicemente perché non ne vede alcuna traccia nel suo presente. Se esso è scomparso significa che doveva scomparire. "Si vede facilmente la necessità che l'intero movimento rivoluzionario trovi la propria base tanto empirica che teoretica nel movimento della proprietà privata..."(p. 112). Cioè il comunismo moderno deve svilupparsi negando la moderna proprietà privata. e non tanto ripristinando quella collettiva del comunismo primitivo.

La proprietà privata -secondo la concezione deterministica di Marx, che è tutta di derivazione hegeliana- è una "necessità storica"(p. 113). Marx esclude che sia il frutto di una libertà negativa: di qui il suo scarsissimo interesse a rivalutare le formazioni economiche pre-capitalistiche.

Pertanto egli vuole che anche il comunismo venga considerato come una "necessità storica". "L'essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore"(pp. 116-7).

La scienza naturale, in senso lato, "ha preparato l'emancipazione dell'uomo, pur avendo dovuto immediatamente condurre a compimento la sua disumanizzazione"(p. 121).

Da notare che nei Manoscritti Marx intuisce perfettamente la necessità di una rivoluzione pratica o politica, che elimini la proprietà privata, ma poi, al momento di proporla, si trova nuovamente a dissertare di filosofia, o comunque, considerando che la critica dell'idealismo hegeliano è precedente agli studi di economia politica, Marx -esattamente come farà qualche anno dopo, concludendo il Manifesto con la critica dell'ideologia politica socialista (utopistica e riformistica)- sul piano organizzativo non è in grado di proporre alcunché.

I Manoscritti sono comunque un libro molto importante, perché mostrano un Marx assai più risoluto di quello del Capitale. Il fatto stesso d'aver esordito parlando del salario e non della merce, è indicativo della volontà di non voler fare un trattato di economia politica ma semplicemente la denuncia di un insopportabile antagonismo sociale.

ATEISMO E SOCIALISMO NEL GIOVANE MARX

Se c'è una cosa che Marx intuì sin dai Manoscritti parigini del 1844 fu il nesso inscindibile di ateismo e socialismo. Egli infatti aveva capito che nell'economia capitalistica (come d'altra parte in ogni società basata sul conflitto di classe) si verifica un processo analogo a quanto avviene in campo religioso: "quanto più l'operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene"(Manoscritti economico-filosofici del 1844, ed. Einaudi, 1970, p. 72).

Cioè quanto più aumenta l'alienazione tra ciò che si produce e la proprietà di quel che si è prodotto, tanto più ci si illude di poter recuperare il proprio prodotto attraverso l'illusione religiosa, cui oggi potremmo aggiungere (essendo passato un secondo e mezzo da quei Manoscritti) tante altre illusioni di tipo materiale e simbolico, tipiche delle società consumistiche, quali si sono venute affermando a partire dal secondo dopoguerra: tutta una serie di oggettistica che ha per così dire volgarizzato l'istanza religiosa, a dimostrazione di una progressiva laicizzazione degli interessi e dei costumi.

D'altra parte il socialismo, già al tempo di Marx, aveva capito che "non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell'uomo"(p. 81). Se questa consapevolezza fosse stata svolta in maniera conseguente, oggi, in Europa occidentale, avremmo il socialismo democratico e non un capitalismo decadente.

Invece, per evitare che si compisse questo, i circoli dirigenti borghesi han fatto in modo, nella seconda metà dell'Ottocento, di scaricare sulle colonie tutto il peso delle contraddizioni del loro sistema, assicurando alle madrepatrie un relativo e diffuso benessere e corrompendo il socialismo, che da teoricamente rivoluzionario divenne praticamente riformista, sino a scomparire quasi del tutto. Oggi, anche il miglior partito democratico non mette mai in discussione le fondamenta del capitalismo e al massimo si preoccupa di razionalizzarne le antinomie, facendo in modo che nel rapporto Stato/Mercato il piatto della bilancia non pesi eccessivamente a favore del mercato.

Le due guerre mondiali sono state fatte per ripartirsi le colonie tra i paesi occidentali più avanzati; la seconda, oltre a questo motivo, venne fatta anche per affossare l'esperimento del cosiddetto "socialismo reale", quell'insopportabile anomalia dell'Europa orientale, di estrazione contadina e di religione ortodossa, che pur aveva già subìto un'involuzione dal leninismo allo stalinismo. Tale socialismo però non solo riuscì a resistere agli attacchi del capitale, ma finì anche coll'espandersi notevolmente, acquisendo, tra i vari paesi, una vasta e potente nazione come la Cina (nel 1949).

Poi, vent'anni fa, nella ex-Urss si comprese che un socialismo di stato era una contraddizione in termini, il cui mancato superamento aveva favorito processi del tutto antidemocratici, come l'autoritarismo politico e ideologico, l'abnorme militarismo, la distruzione dell'ambiente naturale ecc. Nei paesi est-europei il socialismo amministrato dall'alto è per così dire "imploso" e, tutto sommato, in maniera relativamente pacifica; solo che, invece di cercare strade alternative, democratiche, nell'ambito del socialismo, s'è preferito ricominciare su basi del tutto borghesi, aprendosi alle influenze dell'occidente e cercando di recuperare in fretta il tempo perduto.

La differenza principale tra la Cina e l'Europa orientale sta semplicemente nel fatto che la prima ha permesso solo alla società civile di diventare "borghese", mentre lo Stato e la politica hanno continuato a restare autoritari. Anche in Russia esiste l'autoritarismo politico, ma qui si è rinunciato, già con la presidenza di Eltsin, a qualunque caratterizzazione ideologica di tipo comunista.

Tuttavia il problema che Marx pose nel 1844 è rimasto immutato: come risolvere concretamente, senza le illusioni religiose, consumistiche o di altra natura, l'estraneazione che caratterizza il lavoratore delle società antagonistiche, in cui vige la separazione tra il prodotto del suo lavoro (di cui si appropria il capitalista) e la proprietà di questo prodotto.

A tutt'oggi le migliori risposte che il capitalismo ha potuto darsi (grazie anche alle pressioni delle rivendicazioni operaie) sono state soltanto due: lo Stato sociale, che garantisce la fruizione di determinati servizi per i bisogni primari (salute, scuola, previdenza, assistenza ecc.) a prezzi relativamente contenuti, in quanto i loro costi vengono ripartiti a livello nazionale; la contrattazione salariale, in cui s'è permesso ai sindacati di giocare un ruolo di primo piano.

Oggi però entrambe le risposte sembrano non essere più sufficienti a ridurre il senso di estraneazione che caratterizza il lavoratore privo di mezzi produttivi. Le cause sono molteplici: 1) la gestione dello Stato sociale, essendo centralistica e continuamente condizionata da una mentalità affaristica, non ha saputo impedire sprechi e corruzione, abusi di ogni genere, al punto che oggi il debito pubblico ha raggiunto i livelli del prodotto interno lordo, impedendo quindi non solo il risparmio e gli investimenti ma anche il pagamento degli stessi debiti; 2) stipendi e salari non sono più adeguati alla continua corsa verso il rialzo dei beni di prima necessità, e i sindacati non paiono avere forze sufficienti per invertire la rotta; 3) a livello internazionale vengono emergendo nuovi paesi capitalisti che, coi prezzi molto bassi delle loro merci, risultano ampiamente competitivi rispetto ai paesi avanzati dell'Occidente; 4) il prezzo di vari generi di prima necessità sta salendo alle stelle in tempi molto ridotti proprio perché la domanda di questi paesi neo-capitalisti risulta di gran lunga superiore all'offerta attualmente disponibile; 5) vari paesi del Terzo mondo, strangolati dal debito internazionale e da uno scambio ineguale con l'Occidente, non sembrano più disposti a continuare a svolgere un ruolo da comprimari e rivendicano un'indipendenza non solo politica ma anche economica; 6) colossali scandali finanziari e di imprese produttive scuotono in maniera sempre più pericolosa i trend delle borse.

La risposta che Marx diede al suo problema e che Lenin cercò anche di mettere in pratica, fu molto netta: la proprietà privata dei principali mezzi produttivi va socializzata, cioè va tolta ai singoli capitalisti e proprietari terrieri. "Questo comunismo s'identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l'umanismo e, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo"(p. 111).

Che ruolo ha l'ateismo in questo processo? Risponde Marx: "il comunismo comincia subito con l'ateismo (Owen), ma l'ateismo è ancora in principio ben lungi dall'essere comunismo: quell'ateismo è ancora più che altro un'astrazione"(p. 112). Cioè l'ateismo può aiutare a rinunciare all'illusione religiosa, ma non è lo strumento fondamentale per realizzare il comunismo. Anche perché quando questo sarà realizzato, "l'autocoscienza positiva dell'uomo non sarà più mediata dalla soppressione della religione"(p. 125).

"Infatti l'ateismo è, sì, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l'esistenza dell'uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha bisogno di questa mediazione"(ib.).

Con ciò Marx poneva forse fine alla critica della religione? No, semplicemente subordinava questo compito a quello, ben più importante, di eliminare la proprietà privata. Il superamento dell'identificazione di socialismo e ateismo sarebbe avvenuto solo a socialismo "realizzato", cioè allorquando gli uomini saranno indotti a rinunciare all'ateismo in quanto le ragioni dell'umanismo e del naturalismo appariranno loro scontate. Fino ad allora la battaglia dovrà essere condotta sia sul piano politico che su quello culturale.

Dopo il fallimento del cosiddetto "Biennio rosso", Gramsci s'era illuso di poter privilegiare il momento della critica della sovrastruttura per portare, progressivamente, le contraddizioni a esplodere, rendendo così inevitabile la ricerca di una soluzione al problema della proprietà privata. Purtroppo anche il gramscismo non ha dato i risultati sperati. Infatti, in assenza di una battaglia politica organizzata attraverso un partito rivoluzionario, la battaglia culturale tende a scemare, fin quasi a scomparire del tutto.

Su questo Lenin aveva ragione: egli era ben consapevole che senza rivoluzione politica, il potere dominante, avendo strumenti molto più efficaci dei rivoluzionari, tende col tempo a fagocitare con successo la semplice battaglia culturale. Non bastano le armi della critica, ci vuole anche la critica delle armi.

Quello che è mancato all'Europa occidentale è stato proprio l'aspetto dell'organizzazione politica della rivoluzione, anche perché ogniqualvolta ci si è avventurati in questo percorso, si è finiti con l'assumere posizioni settarie, a causa delle quali il consenso delle masse popolari è rimasto sempre molto risicato.

La sinistra rivoluzionaria non è mai riuscita a superare la malattia infantile dell'estremismo. Lo dimostra il fatto che ancora oggi non si riesce a coniugare in maniera organica la critica della contraddizione tra lavoro e capitale con quella della contraddizione tra industrializzazione e ambientalismo. Cioè ancora oggi la sinistra non è in grado di capire che non basta risolvere il conflitto tra capitale e lavoro, ma bisogna anche chiedersi come superare una civiltà che sta devastando in maniera irreparabile la natura.

D'altra parte gli stessi ambientalisti non riescono a far propria l'idea che l'unico modo per tutelare la natura è quello di fuoriuscire da qualunque civiltà basata sull'antagonismo sociale.

La destra vuol farci credere che l'alternativa allo Stato centralista è il federalismo, il quale, naturalmente, viene richiesto anche per potenziare al massimo il capitalismo delle aree più industrializzate del nostro paese. E se noi invece dicessimo che per uscire dal capitalismo e quindi dallo Stato centralista occorre ritornare all'idea di autoconsumo?


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015