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Nietzsche: quando l'ateismo è follia
 Dopo Hegel la filosofia europea s'era improvvisamente accorta di non aver più
nulla da dire sul piano "filosofico": bisognava agire, fare qualcosa che
non fosse semplicemente una critica all'idealismo oggettivo e storicistico.
Hegel aveva come concluso tutta la filosofia occidentale, scoprendo le
leggi della dialettica, ma lasciando i filosofi con l'amaro in bocca: non
poteva essere la Prussia junkeriana la realizzazione della dialettica. Ecco
perché già coi suoi discepoli più radicali (la sinistra) si cominciò a
smascherare il lato conservatore della sua politica e i compromessi con la
teologia.
A lato di questo bailamme di contestatori (Feuerbach, Stirner,
Marx, Engels, Bauer, Strauss...) ne spuntano altri due, decisamente
favorevoli a riporre nella volontà soggettiva un primato assoluto, superiore
alla stessa ragione: Schopenhauer e Nietzsche. La volontà pura, di vita, di
potenza, diventa l'essenza dell'essere e della cosa in sé, il compito
trascendentale dell'uomo.
Per loro non si trattava più, come nel caso di Feuerbach, di trasformare
il teismo in ateismo (la teologia in antropologia), ma di porre l'ateismo
come punto di partenza, fondando su di esso la costruzione dell'uomo nuovo.
La morte di dio (qualunque esso fosse) andava data per scontata, grazie
appunto all'opera di demolizione compiuta dai filosofi. Non era più il caso
di parlarne come di un "problema".
Tuttavia, fu proprio su questo punto, come prima Marx rispetto a
Feuerbach sulla questione della natura del materialismo, che Nietzsche
decise di staccarsi da Schopenhauer per affermare un volontarismo
assoluto, come vero e proprio atto di potenza.
Posto che la volontà è la forza cieca della natura, l'istinto
primordiale che sostanzia l'essere umano, come si può dimostrarne
concretamente l'esistenza? E' su questa domanda che si gioca la diversità
tra l'irrazionalismo quietistico dell'aristocratico Schopenhauer, che si
accontentò di fare il professore universitario, e quello tragico di
Nietzsche. Se dio è morto, non ha senso essere indifferenti a tutto: bisogna
superare lo stesso uomo indifferente e creare un vero e proprio Superuomo,
il cui dio è la terra da cui proviene.
Un problema eminentemente pratico, che Nietzsche racchiudeva in questa
domanda: "come può l'uomo diventare dio finché resta uomo?". E la soluzione
che dà è incredibilmente tragica: "perché si possa prospettare il Superuomo,
è necessaria l'estrema malvagità", dirà nello Zarathustra, che ogni
ufficiale tedesco doveva tenere nello zaino già durante la prima guerra
mondiale e che farà suo personale vangelo nella seconda.
Per negare l'impotenza umana, bisogna anzitutto togliere all'essenza
umana qualunque aspetto di umanità. Finché l'uomo continua ad avvertire
scrupoli kantiani, dubbi cartesiani, sensi cristiani di colpa, pietà
buddistica per i deboli, valori democratici e quant'altro, non diventerà mai
un dio.
L'umanità inferiore (il gregge) va spazzata via: non è solo questione di
ghigliottinare la teologia, la metafisica, la filosofia, l'etica... E' il
pensare stesso che va abolito, specie quando non coincide con la volontà di
potenza, che non sopporta limitazioni di sorta.
Lo sanno i sostenitori di Nietzsche che chi s'azzarda a "interpretarlo"
continua a restare "umano", perdendo il suo tempo? Lo sanno che se non
riescono a diventare "Superuomini", devono comunque mostrarne la necessità ad
ogni costo, sino al supremo sacrificio di sé?
Sotto un certo aspetto si può dire che l'ateismo nicciano si poneva come una nuova
religione, con l'aggravante però della follia senza senso, per quanto lui
stesso diceva in Aurora che è proprio la follia ad aprire la strada
al nuovo pensiero. Ma, ci si può chiedere, si può davvero essere atei senza essere umani? Non è
forse questa pretesa un favore che si fa alla cultura e al potere religioso?
"Caro signor professore - così scriveva a J. Burckhardt, poco prima
d'essere ricoverato nel manicomio di Torino -, alla fin fine avrei preferito
essere un professore di Basilea piuttosto che Dio. Ma non ho osato spingere
il mio personale egoismo fino al punto di astenermi dalla creazione del
mondo".
E pensare che la sua prima opera, Nascita della tragedia,
conteneva spunti di critica così interessanti che se fossero stati svolti
all'interno dell'umanesimo, avrebbero dato un grande contributo alla
causa della non-credenza.
SUI DITIRAMBI DI DIONISO
Premessa
Il torto di Nietzsche non sta tanto nell'aver criticato in maniera
unilaterale, cioè senza valorizzare alcunché, le forme tradizionali
della civiltà occidentale: democrazia borghese e soprattutto
cristianesimo, ma sta piuttosto nell'aver affermato un'alternativa
secondo una logica di mera contrapposizione, e non come un valore in sé
e per sé, autonomo, indipendente, che non si giustifica nella misura in
cui si pone contro qualcosa o contro qualcuno, ma nella misura in cui lo
si vive, spontaneamente e razionalmente. Il diverso che si vuole
affermare non deve scaturire da un odio contro l'esistenza malata della
civiltà borghese, o comunque non solo da questo, ma anche e soprattutto
da una scelta morale, maturata consapevolmente nel corso di
lunghi anni di riflessione e di paziente trasformazione della propria
personalità, una scelta che ha sì la pretesa di porsi in alternativa
alla struttura data, quella tradizionale, ma che non ha il gusto di
farlo solo per spirito di rivalsa.
Sez. A
- "Cuore ardente, come un giorno fosti assetato, quanta sete
avevi, stanco abbruciato". Dopo la crisi dell'esperienza del valore
tradizionale, il desiderio del riscatto: il socialmente ovvio
diventa insignificante.
- "Ti correvano intorno tra alberi neri vespertini sguardi malvagi
del sole". Si vorrebbe che il vecchio morisse come oggettività, come
fattore esterno al soggetto, in quanto lo si avverte come elemento
insopportabile di giudizio. Il soggetto desiderante è incapace di
liberarsi dall'influenza morale del valore tradizionale e, per
questo motivo, vuole che venga fisicamente distrutto. Ma in tal modo
l'affermazione della nuova morale è impossibilitata a porsi, per cui
il soggetto resta vincolato al giudizio che la tradizione ha di lui
e non riesce a liberarsene, se lo porta con sé.
- "Pretendente della verità - tu? schernivano". Il sociale
viene giudicato negativamente dal singolo poiché questi non lo ritiene
capace di verità. Il singolo si sente contrapposto alla massa, in
cui non vede altri singoli con cui mettersi in comunicazione, ma un
collettivo anonimo, senza personalità, il quale però, essendo dotato
di potere, è in grado di contrastare le sue aspirazioni.
- La resistenza della tradizione alla novità del singolo viene avvertita
unicamente nel suo aspetto solo negativo di censura e non anche in
quello positivo di prova, cioè come invito a perfezionare il valore
della nuova morale. La resistenza è avvertita come disgrazia, come
maledizione da togliere. Il non poterlo fare costringe il soggetto a
mascherarsi. Nietzsche qui riflette il sentimento di una speciale,
aristocratica elezione del singolo, per cui questi è migliore della
massa proprio in quanto tale, cioè in quanto diverso e contrapposto
alla massa. Non c'è mediazione fra singolo e massa (p. es. famiglia,
classe sociale, comunità, associazione, gruppo, rapporto
interpersonale). Che cos'è dunque questo singolo? Come vive nella
società? "Soltanto un poeta! un animale, astuto, rapace, insinuante,
che deve mentire, ingordo di preda, sotto maschere variopinte,
maschera ormai di se stesso, preda di se stesso. (...) Uno che parla
solo screziato, che viene fuori da maschere buffonesche con parole
variopinte, inerpicandosi su menzogneri ponti di parole...". Non
quindi un uomo in carattere, perché l'opposizione - così si crede -
non lo permette, ma "giullare, poeta". L'esigenza della verità non
può essere vissuta in tutta la sua pienezza, perché il compito del
singolo non può essere sociale, storico, concreto, ma soltanto poetico-evocativo. La verità del "giullare-poeta" resta subordinata
all'atteggiamento che lui pensa che gli altri abbiano verso di lui.
Ciò che a lui resta è la coscienza che, nell'incomprensione altrui, si
matura la certezza della propria verità, ed è in questa certezza ch'egli deve poi sopportare lo scherno.
- Questo singolo vive una vita tutta sua, incomprensibile alla
maggioranza degli uomini. "A casa sua in ogni selvaggia contrada più
che nei templi, pieno di felina protervia, uno che salta da ogni
finestra - ecco! - in ogni azzardo". Il genio pretende
comprensione, ammirazione, sequela, ma senza rapporto
comunicativo. Egli non si preoccupa di affinare il linguaggio per il
sociale ma vuole imporglielo. Infatti il genio isolato non può
sapere come le masse vanno strumentalizzate: solo il genio che vive
nella massa, odiandola, lo sa. Qui sta il limite di Nietzsche
rispetto ai gerarchi nazisti.
- Anche il genio isolato vorrebbe sopraffare la massa, ma non vi
riesce. L'aquila è ingorda di agnelli, "trucemente avversa a tutti gli sguardi virtuosi". La massa che la pantera vorrebbe sbranare
è quella cristiano-borghese: "sbranare il dio nell'uomo come la
pecora nell'uomo e sbranando ridere". Qui la rivalsa, il
gusto sadico di una vendetta personale. Anzitutto essere "contro".
- Tutto ciò non è avvertito con naturalezza. Nello spirito del
genio qualcosa, un tempo, s'è rotto. Un modo falsato di vedere le
cose si è progressivamente imposto alla sua coscienza. Non lo vuole
ammettere, ma ora è costretto ad accettare che tutto è cambiato,
che non è più possibile tornare indietro, che qualcosa d'importante
s'è spezzato in maniera decisiva, irreversibile, poiché è così che
la coscienza vuole. "Una volta caddi io stesso, dal mio delirio di
verità, dalle mie bramosie del giorno, stanco del giorno, malato di
luce, - caddi in giù, verso la sera, verso l'ombra, bruciato da una
sola verità e sitibondo". La vita che ha scelto di vivere è solo per
pochi. Il genio lo sa, anche se non poteva sapere, all'inizio, a
quali conseguenze l'avrebbe portato. Qui c'è un dramma che si
consuma nella scelta e un dramma, ancora più grave, che si consuma
nelle conseguenze della scelta compiuta, poiché ogni ripensamento
viene considerato un'insopportabile debolezza.
Sez. B
Parte prima - Tra figlie del deserto
- Affermata l'esigenza della verità, emerge il problema
fondamentale del "cosa fare". Bisogna anzitutto essere "testimoni",
altrimenti per i potenti "ricomincerebbe il gioco corrotto". "Qui si
trova molta miseria nascosta che vuol parlare...". Qui dove! Nel
deserto. Quale? Quello orientale. "Là ero lontanissimo
dalla vecchia Europa nuvolosa, umida, melanconica" ("rosa dai
dubbi").
- Tutto ciò però non è che un "vecchio ricordo". Il genio sa che
l'oriente non può costituire una valida alternativa per l'occidente:
l'alternativa non va cercata dal di fuori ma dal di dentro. Inoltre
l'aria salubre dell'oriente non può essere pienamente respirata dal
genio, poiché, essendo egli un europeo, non può non metterla in
dubbio. La semplicità dell'oriente è vista, in ultima istanza, con
disprezzo. L'oriente non è che evasione, ebbrezza, incantesimo,
magia, nulla di concreto, proprio in quanto "senza futuro, senza
ricordi". Il genio non può abbandonarsi all'oblio, deve reagire.
"Ancora una volta ruggire, ruggire moralmente, ruggire come leone
morale dinanzi alle figlie del deserto! - Poiché l'ululato della
virtù... è più d'ogni altra cosa un fervore di Europei, un'avidità
di Europei!". L'oriente che vede Nietzsche è quello dell'India, della
Cina, di Zarathustra. "Guai a chi alberga nei deserti!". "Il deserto
inghiotte e strozza", non purifica, non prepara alla virtù, ma
avvilisce, discredita, svia il genio dal compito della
testimonianza. Il singolo non vuole essere dimenticato, al
contrario: vuole esultare "perché ha vinto morendo";
"morire così... vincendo, annientando...". La morte deve
annientare la tradizione, il valore dato, non solo soggettivamente,
ma anche oggettivamente.
- Zarathustra va superato. È troppo "solitario", ama troppo
l'"abisso". "A che perseveri tanto?... ali occorre avere,
quando si ama l'abisso... non si deve restare appeso, come te,
impiccato!". L'esperienza di Zarathustra è finita - il genio vuole
ucciderlo: "conoscitore di te, carnefice di te stesso!".
Zarathustra ha reso il singolo, che si era lasciato sedurre, un
malato, un infermo, un prigioniero. Per "sei solitudini" il singolo
ha accettato Zarathustra, ma ora, con la settima e ultima
solitudine, egli vuole che gli si dia risposta "alla fiamma
impaziente".
- La settima solitudine, quella che dà la gioia di ogni cosa fatta
e detta, è la morte. "Il sole declina", "si va verso sera",
"già arde il tuo occhio quasi spento". La morte è serenità,
felicità, gioco. "Ferma è ora la mia barca, oziosa. Rotta e tempesta
- tutto dimenticato! Brama e speranza affogò...". Non Zarathustra,
non l'oriente gli ha dato questa pace, ma solo la morte. Nella
settima solitudine "la mia navicella ora nuota lontano...". La morte
"oggettiva" del passato coincide con il suicidio del genio, ma è un
suicidio che giudica.
Parte seconda - Lamento di Arianna
- "Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?". Nessuno, neppure dio, dio
anzi meno che mai. "Fulminata a terra da te, occhio beffardo che
dall'oscuro mi guardi". Dio è il giudice implacabile, inclemente,
"un crudelissimo cacciatore, sconosciuto", condanna soltanto, non
salva, non perdona, non aiuta. "Innominabile! Velato! Orrendo!". Non
potendo sopportare la tortura della presenza di dio, il genio chiede
di morire. Il nemico implacabile degli uomini va ucciso uccidendo
l'io. Questo dio cristiano-borghese, geloso della grandezza degli
uomini, vuole impadronirsi di loro, per questo ruba i loro segreti,
li spia nel profondo del cuore, li tortura.
- Il genio rifiuta questo dio, anzi, pretende che sia lui ad
arrendersi, anche se sa che questo va al di là della sua portata.
"Ecco anche lui fuggì, il mio unico compagno, il mio grande nemico,
il mio sconosciuto, il mio dio carnefice". L'abbandono provoca
disperazione, sentimento di nullità. "No! torna indietro! Con
tutte le tue torture! Tutte le lacrime mie corrono a te e l'ultima
fiamma del mio cuore s'accende per te". Il conflitto era avvertito
con angoscia, ma non se ne poteva fare a meno: respingeva e
attirava; ecco perché l'oriente non serviva. Arianna è la grande
coscienza occidentale della contraddizione.
Parte terza - Entra in scena Dioniso
- "Sii saggia, Arianna!... Io sono il tuo Labirinto". Dio
non esiste, "Zarathustra maledice...". Supera la tua angoscia
nella scelta del male. "Di fronte a tutti i virtuosi voglio essere
colpevole... tra costoro mi vien voglia di essere l'infimo...".
Basta con lo scrupolo, con il rimorso, con il senso di colpa. La
colpa è la vera virtù. I valori vanno transvalutati. Le false virtù
del mondo vanno capovolte. La gloria del mondo è una moneta che
"calpesto sotto di me".
- Il genio s'accorge d'aver sbagliato tutto, di non essere stato
abbastanza risoluto con se stesso. "Un tempo alle nubi ordinai
d'andarsene dai miei monti... Le lusingo oggi, che vengano".
Zarathustra si trasforma, si trasfigura. "Oggi voglio essere
ospitale verso ciò che è molesto, anche verso il destino non voglio
essere spinoso - Zarathustra non è un riccio". "Malato ora di
tenerezza,... siede in attesa Zarathustra, in attesa sui monti...
stanco e felice, un creatore del suo settimo giorno". "Sopra di me
cammina una verità simile a una nube... scende a me la sua fortuna".
Zarathustra deve provare la sua libertà nel desiderio d'annullarsi
pacificamente. "È la mia verità". "Ha indovinato il fondo
della mia fortuna, ha indovinato me". L'io, perdendosi,
ritrova se stesso.
- Il vecchio Zarathustra deve morire, perché troppo altezzoso e
superbo. "Sei troppo ricco, corruttore di molti. Tu rendi troppi
invidiosi, tu rendi troppo poveri... Pure a me la tua luce getta
ombra - rabbrividisco". Per essere veramente se stessi bisogna
essere poveri. "Prima dona via te stesso, o Zarathustra".
"Di tutti i ricchi è il più povero". "Più povero dei
forti, ... se vuoi amare. Si amano solo i sofferenti, si dà amore
solo a chi ha fame". La verità di sé sta nell'umiltà. Bisogna essere
atei in modo naturale, senza vanto, fino alla morte di sé.
Liberazione vuol dire: darsi. Ma il dono di sé diventa la
conclusione drammatica della follia di Nietzsche: non è infatti per
un incontro, ma per la morte.
Considerazioni finali
Nell'epilogo dei Ditirambi di Dioniso Nietzsche, qui
straordinariamente somigliante a Kierkegaard, seppur sul versante
ateistico, è giunto ad affermare un valore in
sé e per sé e non secondo una logica di mera contrapposizione. Almeno
questa è la sua pretesa. Ma si tratta in realtà solo di
un'apparenza. Egli è convinto d'essere diventato quel che sarebbe dovuto
diventare senza il peso della follia. Ma la follia resta, anzi si è qui
esasperata.
Tale presunzione di naturalezza è possibile in quanto una
caratteristica fondamentale della psicosi è quella di assumere,
all'interno di una logica interpretativa della realtà del tutto rovesciata, le stesse
caratteristiche del valore autentico cui prima della follia si anelava. Ci si convince cioè di non essere
pazzi proprio nel momento in cui lo si è di più. Il malato pensa
d'essere diventato
ciò che sarebbe dovuto diventare secondo ragione e che però non riusciva
a diventare a causa delle proprie nevrosi. Ora verità e follia sembrano
coincidere (nella coscienza di Dioniso, convinto d'aver superato le
debolezze di Zarathustra).
Ma come si può essere certi che la psicosi non costituisca un
superamento positivo della rottura che si avvertiva prima con angoscia?
Semplicemente dal fatto che, presto o tardi, essa condurrà alla
dissociazione totale dell'io, a comportamenti assurdi. È solo questione di tempo. L'io psicotico
appare migliore di quello nevrotico solo all'apparenza, ma resta un io
profondamente malato, anche perché tende a identificarsi con un'entità
extra- o sovraumana. Infatti terminati i Ditirambi, Nietzsche
avrà un crollo psichico da cui non si riprenderà più (esattamente come
Kierkegaard): verrà ricoverato prima a Basilea, poi a Jena,
poi nella casa di Naumburg, assistito dalla madre e dalla sorella.
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