PROPP E LA FIABA RUSSA

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PROPP E LA FIABA RUSSA

Vladimir Propp

Premessa

Il genere della “fiaba” ebbe in Russia tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento un gran successo, tanto che pose le basi del realismo della letteratura successiva (p.es. in Puškin).

Verso la prima metà dell’Ottocento la scuola mitologica inaugurata in Germania dai fratelli Grimm (sotto l’influenza delle nuove scienze linguistiche), trovò un terreno favorevole nelle opere di Afanasjev, che studiò in modo particolare il folclore russo, raccogliendo circa 600 testi, molti dei quali prodotti dalla viva voce del popolo.

La tesi di fondo di questi e altri studiosi (Friedrich Max Müller, Theodor Benfey, Andrew Lang, Pierre Saintyves), era che doveva essere esistito, in un lontano passato (anteriore allo stesso paganesimo), un substrato comune tra i popoli indoeuropei (quando ancora erano un unicum socio-linguistico), che trovava appunto un riflesso nelle fiabe.

Quando Afanasjev pubblicò nel 1855 la sua prima raccolta, disse che “divinizzando la natura, il popolo vede in essa una forza vivente, che influisce su ogni gioia e su ogni dolore. Assorto nella contemplazione dei suoi fenomeni misteriosi, il popolo traduce tutte le proprie convinzioni, credenze ed osservazioni in immagini poetiche straordinariamente vive e le canta in un poema senza fine, l’epos, e quindi anche nella fiaba”.

Secondo lui il passaggio era dalla religione al mito e dal mito alla fiaba. Di quale religione si trattasse però era allora difficile dirlo: i primi studi sull’animismo furono quelli di E. B. Tylor nel 1871. Questo perché il mito vero e proprio – così come noi occidentali lo conosciamo – sembrava appartenere di più alle religioni pagane, politeistiche, che sono un mix di filosofia e di naturalismo, nel senso che la speculazione di tipo filosofico veniva a colmare un vuoto lasciato dalla più antica vita primordiale, basata su uno strettissimo rapporto con la natura (l’età dell’oro, come la chiamava Esiodo): un vuoto dovuto a una lacerazione anti-sociale, che sarà l’anticamera del sorgere dello schiavismo.

Ma se i miti greci sono serviti per giustificare lo schiavismo, nelle fiabe russe invece si registra il distacco dal comunismo primitivo verso una sorta di feudalesimo rurale, in cui si possono ravvisare alcuni elementi, non particolarmente significativi, del cristianesimo borghese. A titolo esemplificativo basta leggersi la fiaba “Vassilissa la bella”.

Dopo gli studi dei Grimm e di Afanasjev si arrivò addirittura a sostenere che il substrato presente in talune fiabe fosse così antico da essere presente nella tradizione orale di paesi non indoeuropei, come p.es. l’America del Nord, l’Oceania ecc. E si pensò di suddividere tutte le fiabe in tre grandi gruppi:

  1. le fiabe di animali, mediante le quali vengono ridicolizzati i difetti umani (Vladimir Propp le ricollega alla fase del totemismo, cioè al culto che l’uomo cacciatore aveva nei confronti di taluni animali ritenuti sacri, legati alla tribù da un vincolo magico);
  2. le fiabe di magia vere e proprie (le più numerose), in cui sono molto visibili le tracce di lontanissime credenze pagane (dal culto degli antenati al culto delle divinità dei boschi, dei mari, delle montagne ecc.);
  3. le fiabe di vita quotidiana, a contenuto abbastanza realistico, il più delle volte satirico: sono queste le più tipicamente russe. Si ispirano tutte al mondo rurale, già in grande difficoltà con l’avanzare della corrotta civiltà urbanizzata. Questa letteratura troverà degli estimatori persino dopo la rivoluzione russa (p.es. in S. Esenin e N. Kljuev).

Come noto, Propp mise in discussione questa tripartizione formale delle fiabe, preferendo proporre, nel 1928, in relazione alle sole fiabe di magia, una classificazione basata su 31 funzioni di personaggi, considerate in maniera indipendente dall’identità dell’esecutore e dal modo di esecuzione.

Poste queste 31 funzioni (che ovviamente non si trovano tutte in una medesima fiaba), la parte variabile si riferisce alle caratteristiche esteriori dei personaggi, in rapporto alla specificità degli ambienti in cui la fiaba è nata.

Tra gli eroi domina la figura del “figlio del contadino”, apparentemente ottuso e svogliato, ma di carattere buono e generoso, che alla fine ha sempre la meglio, anche nei confronti di personaggi molto potenti.

Anche il “principe buono” rappresenta un eroe famoso, perché, pur essendo il più piccolo dei fratelli, arriva sempre più lontano di loro con la bontà e il coraggio.

Invece tra gli antagonisti, dotati di poteri sovrannaturali, primeggia la figura della “baba-jaga”, maga abitatrice dei boschi, esperta di erbe, mangiatrice di uomini, ma a volte aiutante dell’eroe, quando questi si comporta bene. Non è sempre cattiva, come invece lo “scheletro immortale”, temuto simbolo di morte, destinato a essere ingannato.

Di “cristiano” v’è molto poco in queste fiabe, tant’è che le Leggende popolari russe, raccolte da Afanasjev nel 1859, furono proibite dalla censura, in quanto antitetiche all’insegnamento della chiesa.

Le teorie di Propp

Il rito dell’iniziazione

Una delle tesi principali di Propp (ripresa da Saintyves) è che “il ciclo dell’iniziazione è il fondamento più antico della fiaba” (in Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 1977, p. 383) (1), e “la scomparsa del rito [dell’iniziazione] è collegata alla scomparsa della caccia quale unica e fondamentale risorsa vitale” (p. 384).

Nella fiaba infatti l’iniziazione non ha la funzione di quel rito ancestrale che doveva aiutare il giovane a vivere di caccia autonomamente, come un adulto (in un contesto tribale da tutelare), ma appare come un’importante prova da superare, che all’eroe viene sottoposta da un nemico da sconfiggere, al fine di poter vivere un’esistenza individualistica o urbanizzata o di proprietà privata rurale, in ogni caso completamente diversa da quella boschiva.

I miti preclassisti: il ruolo del bosco

Secondo Propp i riti ancestrali (animistici o totemici) sono rinvenibili nei miti preclassisti, da cui le stesse fiabe hanno attinto, spesso capovolgendone il significato. Tuttavia egli ritiene che le fiabe russe, benché scritte molto tempo dopo, abbiano radici più antiche dei miti greci, elaborati da intellettuali che non hanno messo per iscritto tradizioni orali antichissime, ma reinterpretazioni volte a giustificare un sistema classista. Quindi quando si parla di “mito” bisogna fare attenzione a quale realtà storica e sociale ci si riferisce.

Nel mito preclassista il bosco è visto positivamente, come luogo privilegiato dell’esistenza collettiva. Nei miti greci invece e anche nelle fiabe russe è visto negativamente, come un luogo di insidie, di pericoli, da cui si può ricavare qualcosa di utile solo in virtù della propria abilità o astuzia.

Nella fiaba il bosco è associato alla morte, vista sempre come qualcosa da fuggire, perché letale. Nel mito preclassista invece la morte è un processo naturale che arricchisce di sapienza i vivi, in quanto l’anziano, prima di morire, svelerà tutti i suoi segreti a chi dovrà sostituirlo. La morte non è affatto una minaccia dovuta alla propria insipienza o un prezzo da pagare per la propria ingenuità, anche perché nelle società preclassiste un componente del collettivo non è mai lasciato solo a se stesso: non esiste neppure il concetto di “individuo”.

Nella fiaba russa la morte viene presentata come una forma di invidia o di gelosia che la cultura boschiva nutre nei confronti di quella rurale (organizzata come proprietà privata) o di quella urbanizzata, poiché da queste si sente emarginata. E l’autore delle fiabe giustifica questa esclusione mostrando che il bosco è pieno di pericoli, anche mortali. Si guarda bene dal dire che le creature del bosco sono costrette a comportarsi così perché quelle dei campi arati e delle città rubano risorse ai boschi e alle foreste, senza offrire nulla in cambio.

Tutte le fiabe in realtà, non solo quelle russe, dovrebbero essere lette in quest’ottica: la mela viene offerta avvelenata proprio perché la vera strega, per il bosco, è Biancaneve. La fiaba recepisce i contenuti dei miti ancestrali capovolgendone i significati. Cioè se è vero – come dice Propp – che “il racconto di magia è composto di elementi che devono essere fatti risalire a fenomeni e concezioni proprie della società preclassista” (p. 385), è anche vero che questo tipo di racconto presenta tali elementi in una luce distorta, deformata, proprio perché la fiaba è una sovrastruttura (ideologica) della cultura stanziale contro quella nomadica o comunque della cultura rurale e urbana contro quella boschiva-forestale e montana.

La funzione sociale della fiaba e del mito

Nel mito preclassista – fa capire Propp – il racconto dell’anziano rappresentava un elemento pedagogico del culto o del rito dell’iniziazione; nella fiaba invece è già un’operazione artistica che compie chi sa raccontare storie, rivolgendosi a un pubblico che ascolta divertito, compiaciuto, la cui curiosità è meramente intellettuale, in quanto l’insegnamento di vita, implicito nella fiaba, viene recepito in maniera astratta, generica, senza particolari riferimenti alla realtà; un insegnamento cui non si darà più peso in età adulta, se non appunto in rapporto ai figli da crescere, non ancora capaci di “leggere”, cui si racconteranno quelle medesime fiabe o altre del tutto diverse, magari inventate a tavolino da singoli intellettuali (come quelle di H. C. Andersen).

La fiaba trasmette una filosofia di vita di tipo moralistico; il mito invece aveva pretese cognitive e pratiche, dovendo insegnare a vivere nella concretezza della foresta. Basti pensare ch’era vietato diffondere i racconti mitologici: “tale divieto era imposto e rispettato… in forza delle funzioni magiche proprie del racconto e dell’atto del raccontare” (p. 387). Questo perché chi svela tutti i segreti di come vivere sta per lasciare il testimone a chi gli deve succedere. Di qui l’esigenza di conservare il più possibile inalterate le conoscenze trasmesse oralmente.

“I miti costituiscono, in senso letterale, il tesoro più prezioso della tribù” (p. 388). L’anziano non è uno che “intrattiene” la comitiva con le sue storielle d’avventura, tanto per passare il tempo, ma uno che consegna le chiavi di tutti i segreti della natura, che è l’unico vero dio di cui si abbia bisogno.

“Il mito ha una funzione produttiva e sociale – scrive Propp. Priva dei miti, la tribù non sarebbe in grado di sussistere” (p. 388).

Le fiabe, a differenza dei miti preclassisti, non appartenevano all’intero villaggio come un proprio elemento organico, costitutivo, ma erano semplicemente diffuse tra le varie famiglie patriarcali, le quali si sentivano autorizzate a fare le varianti che volevano. Le fiabe non sono mai state un qualcosa di “sacro”, da conservarsi gelosamente per il bene dello stesso collettivo, anche perché nella fiaba il “bene” è prevalentemente “materiale” e “individuale” o “familiare”: un buon raccolto, un buon matrimonio, un buon affare ecc.

Questa “economizzazione” della vita sociale era frutto del distacco del mito dal rito, e quindi era l’inizio della “storia” vera e propria della fiaba, che si configura come intellettualizzazione del mito, rovesciato nei suoi contenuti originari. I miti cioè vengono raccontati in maniera “fiabesca” e quel che c’era di “religioso” (in senso animistico) nel rito ancestrale, diventa nella fiaba qualcosa di “artistico”, caratterizzato dall’abilità persuasiva, affabulatoria del narratore. La fiaba diventa una sorta di leggenda quasi fine a se stessa, senza una finalità precisa relativa alla crescita della persona. Se ci pensiamo, fino alla nascita della televisione le fiabe sono state usate dai genitori semplicemente per far addormentare i loro figli, al pari delle cantilene, delle filastrocche e delle ninne nanne.

Gli auto-limiti epistemologici nella ricerca di Propp

Tuttavia Propp non s’è posto il compito di analizzare il folclore vero e proprio dei popoli preclassisti. Si è limitato a dire che “con la nascita della cultura feudale gli elementi del folclore diventano patrimonio della classe dominante” (pp. 390-391).

Nella “Premessa” del medesimo libro aveva fatto le seguenti osservazioni: la fiaba “non è condizionata dal capitalismo” (p. 20), anzi essa “è nata sulla base delle forme precapitalistiche di produzione e di vita sociale” (ib.). Nonostante questi racconti abbiano cominciato a essere scritti all’inizio del XIX sec., buona parte del loro substrato socioculturale è anteriore persino al feudalesimo: lo dimostra il fatto che “l’agricoltura svolge nella fiaba un ruolo trascurabile” (p. 21), a differenza della caccia e degli animali boschivi.

Il passaggio dal mito alla fiaba non è stato però indolore. Infatti qualche elemento del rito, “divenuto inutile o incomprensibile in forza di certi mutamenti storici” (p. 24), ha subìto un mutamento formale oppure ha cambiato la sua motivazione.

Propp fa un’affermazione che, da sola, meriterebbe un’approfondita analisi a parte: “Il rito, nato come mezzo di lotta con la natura, successivamente, quando vengono scoperti metodi razionali di lotta con la natura e modi per modificarla, non scompare ma muta anch’esso di significato” (p. 26).

Peccato ch’egli non abbia approfondito questo aspetto. D’altra parte egli s’era posto dei limiti ben precisi sin dall’inizio della sua straordinaria e innovativa ricerca. “Lo studioso del folclore [e lui questo si sentiva], una volta individuato il legame tra la fiaba e il rito, ha il diritto di rifiutarsi di studiare anche il rito [cioè di diventare etnologo]; questo infatti lo porterebbe troppo lontano” (p. 26).

Antropologia contro Etnologia

Propp non si limita a precisare i limiti epistemologici della propria ricerca, ma svolge anche una certa polemica contro gli etnologi (Frazer, Levi-Strauss, Boas, Kroeber, Bolte, Polivka…), in quanto – a suo parere – tali studiosi si avvalgono di fonti di seconda mano, prevalentemente scritte, riproducendole nelle lingue moderne, senza neppur conoscere quelle originarie dei popoli che hanno creato quei miti, senza neppure cercare un contatto con quelle popolazioni, come invece fa lo studioso del folclore.

Tuttavia, se Propp avesse fatto un po’ di più l’etnologo o se avesse affrontato questa scienza con occhi meno “ideologici” (e qui non vogliamo dare più responsabilità al marxismo di quante non se ne debbano dare alla scienza borghese), avrebbe evitato di dire che “i metodi razionali di lotta con la natura” sono successivi a quelli dei popoli primitivi. Avrebbe anzi dovuto dire il contrario, e cioè che quanto più ci si distacca dalla “foresta”, tanto più i metodi di controllo della natura diventano irrazionali, al punto che non si può più parlare di “lotta con la natura” ma “contro” la natura.

La natura inizia a essere vista come una “nemica” solo dopo che i processi naturali sono stati sostituiti da quelli artificiali. Non a caso le prime civiltà antagonistiche sono nate nei luoghi più difficili da vivere e hanno contribuito a desertificarli ulteriormente.

Se Propp avesse guardato il passato con maggiore obiettività, senza concedere nulla alla presunta superiorità delle civiltà tecnologiche, avrebbe evitato di dire che “sebbene la fiaba risalga al rito, il rito è assai poco chiaro, mentre la fiaba ha conservato un certo fenomeno del passato in maniera tanto completa, fedele e chiara che il rito, o un altro fenomeno, soltanto grazie alla fiaba può essere posto nella sua vera luce” (p. 26).

Affermazione, questa, che risente evidentemente della polemica anti-etnologica, ma anche dei continui riferimenti ideologici alla scientificità del marxismo, nonché di una certa compiaciuta superiorità del folclore russo rispetto alle tradizioni totemico-animistiche di altri paesi.

In realtà, attraverso la fiaba noi non conosciamo affatto quale fosse il vero rito tribale d’iniziazione o altri simili, e se anche possiamo conoscerlo nelle sue forme, ci risulta poco comprensibile nel suo significato originario. Anzi, considerando che la fiaba è stata elaborata da una cultura stanziale, rurale e parzialmente mercantile e urbanizzata, vien da pensare che tutto quanto nella fiaba si riferisce al rito o al mito vada visto sempre con atteggiamento molto guardingo. Al momento infatti non riusciremmo a risalire alle vere motivazioni di taluni riti neppure se andassimo a interpellare personalmente le ultime popolazioni rimaste allo stadio tribale.

Dire che “la fiaba da fenomeno per il quale è necessario trovare una spiegazione”, risulta essere “il fenomeno che fornisce una spiegazione” per lo studio del rito (p. 27), può essere vero solo a condizione che si precisi che il rito, nella fiaba, viene sempre presentato in maniera deformata, per cui, al massimo, si può fare un lavoro di smontaggio critico, ma non di ricostruzione fedele (cosa che ci viene impedita, come minimo, proprio dal fatto che consideriamo il presente migliore del passato).

Nuovi criteri interpretativi

E’ l’idea stessa di “progresso” (che il marxismo ha mutuato acriticamente dalla scienza borghese) che pone un’ipoteca non riscattabile sui nostri criteri interpretativi della storia. P.es. noi parliamo di “riti”, associando questa parola a una concezione “religiosa” dell’esistenza e associamo la parola “religione” a una filosofia o teologia più o meno dogmatica o sistematica. Ma per i popoli primitivi, abituati a convivere strettamente con la natura, la religione e quindi i riti avevano tutt’altro significato, sicuramente molto meno mistico di quanto possiamo immaginare.

La natura “riempie”. E’ quando ci si sente svuotati a causa della sua mancanza, che si vanno a cercare sostituti mistici, giustificazioni intellettualistiche. Sotto questo aspetto persino l’archeoastronomia va considerata come una forma di astrazione metafisica del primitivo animismo.

Se Propp avesse fatto questa semplice considerazione, forse non avrebbe scritto che “per mito intenderemo il racconto che riguardi le divinità o gli esseri divini nella cui realtà il popolo crede” (p. 27). Il concetto di “mito” che ci è stato tramandato dalla storia è effettivamente legato a quello di “divinità” (al plurale), ma tutti questi miti, nel migliore dei casi, fanno già parte di un periodo storico in cui il comunismo primordiale (esistito per milioni di anni) era pressoché scomparso. Anche in questi miti, proprio come nelle fiabe, si riflette qualcosa del passato in maniera quanto meno riduttiva, parziale. Propp avrebbe dovuto limitarsi a dire, come in effetti fece, che “noi non sappiamo ancora quale sia il rapporto tra la fiaba e il mito” (p. 27).

Indubbiamente può essere vero che “il mito e la fiaba differiscono non per la loro forma, ma per la loro funzione sociale” (p. 27); tuttavia, per dire con sicurezza una cosa del genere, noi dovremmo avere a disposizione una raccolta di miti non contaminati dalle civiltà antagonistiche (sorte seimila anni fa), e di fatto non l’abbiamo.

Cioè potremmo anche dire che, in definitiva, la funzione sociale del mito e della fiaba era la stessa: quella di rassicurare una coscienza collettiva sul significato di taluni eventi. Nondimeno dovremmo poi specificare il rapporto tra questa operazione intellettuale e il relativo contesto spazio-temporale. Già il semplice fatto che i miti avessero come target un collettivo, mentre le fiabe l’individuo singolo, dovrebbe farci riflettere sulla loro diversità di fondo. Siamo ancora lontanissimi dall’avere degli strumenti interpretativi che ci chiariscano le cose, e anzi la diffusione planetaria del capitalismo ci ostacola enormemente in questo compito.

Secondo Propp miti e fiabe coincidono nella forma, e lo dice, questa volta, polemizzando non con gli etnologi ma con gli studiosi del folclore, che non vogliono impiegare il loro tempo a studiare i miti. Se lo facessero si accorgerebbero – dice Propp – che “ciò che nella fiaba contemporanea europea è stato trasfigurato, in questi miti è conservato nel suo aspetto originario” (p. 28).

In realtà le cose non stanno proprio così, anche se resta vero che se uno studioso va a cercare nella fiaba qualcosa di “preclassista”, può trovarlo anche nel mito. Sarebbe sciocco però sostenere che il fatto di trovarlo anche nel mito, di per sé possa aiutarlo a comprendere meglio la fiaba. Il mito non può essere considerato come un “riscontro” in più della fiaba.

Certo, è evidente che Polifemo, per come viene presentato da Omero, è una sorta di “orco cattivo”, ed è altresì evidente che s’egli era un pastore di capre, poteva anche esserlo qualunque “orco cattivo” delle fiabe, ma né il mito di Polifemo (figlio di Poseidone), né la fiaba sull’orco cattivo che vive nel bosco, potranno mai aiutarci a capire che i veri “orchi cattivi” erano l’eroe che li ha uccisi e l’autore che ne ha immortalato il delitto.

A testimonianza del fatto che la fiaba non è tanto una sopravvivenza del mito preclassista, quanto soprattutto una sua deformazione (esattamente come il mito greco), prendiamo come esempio la figura della baba-jaga. Nei racconti orali più antichi essa rappresentava sicuramente la saggezza connessa all’uso degli elementi naturali (di cui la donna era maestra nella conoscenza delle piante alimentari, medicinali, velenose, psicotrope ecc.). Nella fiaba invece, elaborata da una cultura anti-boschiva, essa viene vista come una strega pericolosa, che conserva ancora molti poteri, molte conoscenze. La cultura feudale, nei suoi livelli più altolocati, rifiuta questi retaggi del passato, ma la cultura contadina, nei suoi livelli più miseri, se ne sente invece attratta, al punto che il passato preistorico viene guardato con un certo rimpianto. Nelle fiabe in cui l’eroina è Vassilissa, questa non può che meravigliarsi nel vedere l’abbondanza di cibo di cui fruisce la baba-jaga.

Indubbiamente Propp ha ragione quando dice che un mito elaborato da un intellettuale come Omero non può avere lo stesso valore storico ed euristico di una fiaba raccontata da un esponente di una tribù primitiva, ma ormai siamo giunti a un punto tale di dimenticanza delle nostre radici culturali che neppure la più antica tribù primitiva della Terra è a conoscenza di tutte le proprie tradizioni o è cosciente del significato esatto di tutti i propri riti. Tant’è che noi occidentali apprezziamo molto di più i miti greci, elaborati per giustificare lo schiavismo, che non le fiabe russe, in cui questo non appare nella sua evidenza.

E’ un’illusione pensare che “i miti dei popoli preclassisti sono fonti dirette” e che “la fiaba russa fornisce materiale più arcaico di quello che possiamo trarre dai miti greci” (p. 31). E’ un’illusione sia perché se partiamo dal presupposto che tutto quanto ci viene trasmesso dai miti e dalle fiabe è una deformazione della realtà preclassista, allora una fonte vale l’altra; sia perché la Russia (asiatica soprattutto) è stata colonizzata sia dalla Russia europea (feudale, borghese e stalinista) che dai Tartari, e ciò non può non aver influito sulle tradizioni culturali.

Più interessante Propp è quando scrive che “è facile scambiare la realtà del pensiero per realtà oggettuale e viceversa. Se, p.es., la strega minaccia di mangiare l’eroe, questo non significa affatto che ci troviamo sicuramente di fronte a vestigia di cannibalismo” (p. 32). Infatti si tratta soltanto di una manipolazione interpretativa della realtà. Anzi, son proprio questi aspetti truci che, più di altri, dovrebbero farci sospettare un intervento redazionale favorevole a determinati rapporti di forza, a forme dominanti di potere che, per giustificarsi, hanno avuto bisogno di mettere in cattiva luce il passato, lo stile di vita preclassista, il comunismo primordiale, il primato del collettivo sul singolo, ecc.

Trasmissione orale e scritta

Ma per affrontare al meglio problematiche così incredibilmente complesse, noi dovremmo fare un ragionamento preliminare sul valore della scrittura. I popoli più primitivi non sentivano affatto il bisogno di avere questa forma di comunicazione. Tutto quanto sapevano se lo trasmettevano oralmente, e non in maniera individualistica, come facciamo noi oggi, in cui sia la lettura che la scrittura sono atti solitari. Ci si può in tal senso chiedere se sia davvero possibile che una persona che, mentre scrive, pensa di essere ricordata attraverso i propri testi, sia in grado d’interpretare adeguatamente un’intera popolazione che non scrive.

Probabilmente l’unico modo per poterlo fare sarebbe di smettere di scrivere, iniziando a condividere di quella popolazione tutto il proprio stile di vita. Ora, siccome la nascita dell’antagonismo sociale sta portando progressivamente all’eliminazione di tutte le popolazioni primitive, noi dovremmo affermare, con relativa sicurezza, che la cultura ch’esse avevano è morta con loro e non c’è alcuna possibilità di farla risorgere, almeno non su questa Terra. Quindi dovrebbe essere considerato vano, a priori, qualunque tentativo di comprendere quella cultura in maniera adeguata.

In quanto studiosi, l’unica cosa possibile che ci resta di fare è di smontare la presunta “verità” dei miti, delle leggende e delle fiabe, senza aver la pretesa di dire quale sia la vera verità che è stata manomessa.

Note

(1) Di questo libro esiste un’edizione anche presso Boringhieri, col titolo Le radici storiche dei racconti di fate, Torino 1972 (2 ed. 1985). La prima edizione fu quella del 1949, presso Einaudi.


Fonti

Testi di Afanasjev Aleksandr N.

Testi di Vladimir J. Propp

Testi sulle fiabe russe e su Propp

  • Medvedev N. Gennadij,Fiabe russe, Besa 2010
  • Fiabe russe, a cura di Poesio C., Giunti Editore, Firenze 2005
  • Bilibine Ivan J.,Fiabe russe, Motta Junior, 1999
  • G. L. Bravo, V. Ja. Propp e la morfologia della fiaba, in Antropologia e folklore tra storicismo e marxismo, a c. di A.M. Cirese, ed. Palumbo, Palermo 1972
  • G. Cusatelli e altri, Tutto è fiaba, Atti del convegno internazionale di studio sulla fiaba, Emme ed., Milano 1980
  • La struttura della fiaba, a c. di E. M. Meletinski, ed. Sellerio, Palermo 1977
  • M. Luthi, La fiaba popolare europea: forma e natura, ed. Mursia, Milano 1979
  • S. Thompson, La fiaba nella tradizione popolare, ed. Il Saggiatore, Milano 1967
  • A. M. Cirese, Cultura egemonica e cultura subalterna, ed. Palumbo, Palermo 1973
  • E. Terray, Il marxismo e le società primitive, ed. Samonà e Savelli, Roma 1969
  • B. Malinowski, Magia, scienza e religione, ed. Newton Compton, Roma 1976

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015