Adam Smith: dai sentimenti all’autonomia morale, dagli interessi privati al bene comune e al senso dello Stato

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Adam Smith: dai sentimenti all’autonomia morale, dagli interessi privati al bene comune e al senso dello Stato

I - II - III

Giuseppe Bailone

Le relazioni sociali sono fondamentali per la vita delle passioni.

“In un uomo che dalla nascita fosse stato un estraneo per la società, tutta l’attenzione verrebbe occupata dagli oggetti delle proprie passioni, e cioè dai corpi esterni, che gli procurano piacere o lo feriscono. Le passioni in se stesse, i desideri o le avversioni, le gioie o le sofferenze che quegli oggetti suscitano, nonostante siano le cose a lui più immediatamente vicine, potrebbero difficilmente costituire l’oggetto dei suoi pensieri. La loro idea non riuscirebbe a interessarlo tanto da attirare la sua attenzione. La considerazione della sua gioia non riuscirebbe a suscitare in lui una nuova gioia, né quella della sua sofferenza una nuova sofferenza, sebbene la considerazione delle cause di queste di queste due passioni potrebbero spesso suscitarle entrambe. Portatelo nella società, e tutte le sue passioni diventeranno immediatamente le cause di nuove passioni. Noterà che l’umanità ne approva alcune, ed è disgustata da altre. Si esalterà in un caso, o si abbatterà nell’altro; i suoi desideri e le sue passioni, le sue gioie e le sue sofferenze ora diventeranno cause di nuovi desideri e nuove avversioni, nuove gioie e nuove sofferenze; ora, perciò, lo interesseranno profondamente, e attireranno la sua più attenta considerazione”.1

Le relazioni sociali sono alla base della vita interiore, ne creano le condizioni, l’alimentano e l’arricchiscono. Questa, infatti, si nutre interiorizzando ciò che è esterno e della relativa riflessione.

Come Hume, Adam Smith mette la simpatia al centro delle relazioni umane.

La simpatia è, infatti, il titolo del primo capitolo della Teoria dei sentimenti morali, l’opera che ha impegnato a lungo Adam Smith e sulla quale è tornato più volte con correzioni, ripensamenti e sei edizioni.

“Per quanto egoista si possa ritenere l’uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe delle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l’altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l’emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo, oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza altrui è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le altre passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo”.

È questo il paragrafo di apertura della Teoria dei sentimenti morali.

La simpatia ci porta, attraverso l’immaginazione, a metterci nei panni degli altri, a vivere come nostre le loro emozioni, di cui anche noi abbiamo fatto esperienza.

“Pietà e compassione – scrive, infatti, Smith – sono parole appropriate per significare il nostro sentimento di partecipazione per la sofferenza altrui. La parola simpatia, nonostante il suo significato fosse forse originariamente lo stesso, ora tuttavia può, senza eccessiva improprietà, essere usata per denotare il nostro sentimento di partecipazione per qualunque passione”.2

La simpatia, però, non è per Smith il semplice riflesso delle passioni altrui. È un riflesso che può essere modificato anche profondamente dalla nostra capacità d’immaginarci nelle situazioni altrui.

“La simpatia – precisa Smith – non sorge tanto dalla vista della passione, quanto dalla vista della situazione che la suscita. Proviamo a volte, al posto di un altro, una passione della quale lui sembra del tutto incapace, perché, quando ci mettiamo nei suoi panni, quella passione sorge in noi dall’immaginazione, nonostante non sorga in lui dalla realtà. Arrossiamo per la sfrontatezza e la rozzezza di un altro, nonostante egli sembri non rendersi conto dell’inappropriatezza del suo comportamento, perché non possiamo evitare di sentire la vergogna di cui ci saremmo coperti se fossimo stati noi a comportarci in una maniera così assurda”.3

Davanti a un uomo in collera, se non conosciamo le sue ragioni né quelle della sua vittima, tendiamo a simpatizzare con questa. La follia suscita angoscia in chi, ben dotato di ragione, s’immagina in quella situazione, anche se a provocare quella reazione emotiva è un folle che “forse ride e canta”.

“Quali sono le sofferenze di una madre, quando sente i lamenti del suo bimbo malato, incapace di esprimere quello che prova? Nel farsi l’idea di ciò che lui soffre, lei collega all’effettiva impotenza del figlio i suoi personali terrori per le oscure conseguenze del male, e forma, con sua grande sofferenza, la più perfetta immagine di miseria e pericolo. Il piccolo, invece, sente solo il male dell’istante, che non può mai essere tanto grande. Riguardo al futuro, egli è perfettamente tranquillo, e nella sua assenza di riflessione e previdenza, possiede un antidoto contro paura e ansietà, i grandi tormenti dell’animo umano, dai quali invano la ragione e la filosofia cercheranno di difenderlo quando diventerà un uomo”.4

Smith fa anche l’esempio della simpatia per i defunti, che proviamo immaginandoci nei loro panni e non pensando realmente alla loro condizione.

Guardare gli altri è fondamentale per acquisire coscienza di sé e valutare.

“Le nostre prime idee sulla bellezza e sulla deformità personale sono tratte dalla forma e dall’apparenza esteriore degli altri, non della nostra. Tuttavia, ben presto ci rendiamo conto che gli altri esercitano su di noi la stessa critica. Ci fa piacere quando approvano la nostra figura, e sentiamo di subire una scortesia quando ne sembrano disgustati. Diventiamo ansiosi di sapere fino a che punto il nostro aspetto esteriore meriti il loro biasimo o la loro approvazione. Esaminiamo la nostra persona parte per parte e, mettendoci davanti a uno specchio, o con qualche altro espediente, cerchiamo, per quanto possibile, di guardarci dalla distanza e con gli occhi degli altri”.5

Il rapporto emotivo con gli altri ci porta davanti allo specchio, o all’uso di altri mezzi, per completare l’uscita da noi stessi e riuscire a guardarci come altri.

Come già abbiamo cominciato a vedere con l’esempio dello sfrontato che ci fa arrossire, per Smith, provare simpatia significa anche approvare o disapprovare le passioni e le azioni altrui in base alla loro appropriatezza o meno. Egli, infatti, collega la simpatia alle valutazioni di tipo morale che impariamo a fare nella ricerca di guadagnarci il benvolere e l’approvazione degli altri e di evitare la loro disapprovazione e il loro disprezzo.

In questa ricerca, gioca un ruolo molto importante il fatto che gli altri non ci guardano tutti allo stesso modo. I loro giudizi, mossi da interessi diversi, sono spesso divergenti e, in certi casi, opposti. Nella ricerca dell’approvazione degli altri, a cominciare da quella dei genitori, dei compagni e dei superiori, impariamo fin da piccoli che non è possibile assecondare tutti e assicuraci l’universale benevolenza. “Allo scopo di difenderci da tali giudizi parziali, impariamo presto a istituire nelle nostre menti un giudice che si ponga tra noi e coloro con i quali viviamo”.6

In questi rapporti interpersonali germina e cresce la nostra autonomia morale.

Smith partecipa a quel processo di costruzione della coscienza morale moderna che, partendo dal libero esame di Martin Lutero, ha nell’imperativo categorico di Kant un importante punto d’arrivo, ma non il solo.

Nella vita di relazione, l’uomo, cercando l’approvazione degli altri, esce dalla particolarità dei propri interessi, pratica la valutazione dei loro sentimenti e del loro comportamento. Scosso dalle divergenze di valutazione che incontra, impara a riconoscere la parzialità dei giudizi degli altri e a valutare se stesso e gli altri in autonomia, collocandosi in posizione il più possibile imparziale.

“Il principio per mezzo del quale approviamo o disapproviamo naturalmente la nostra condotta sembra del tutto uguale a quello per mezzo del quale pronunciamo analoghi giudizi sulla condotta degli altri. Approviamo o disapproviamo la condotta di un altro uomo a seconda che sentiamo, riportando a noi il suo caso, di riuscire a simpatizzare del tutto con i sentimenti e le motivazioni che l’hanno diretta. E allo stesso modo, approviamo o disapproviamo la nostra condotta a seconda che sentiamo, quando ci mettiamo nei panni di un altro uomo, e la osserviamo con i suoi occhi e dalla sua posizione, di riuscire o meno a prendere parte e simpatizzare con i sentimenti e le motivazioni che l’hanno influenzata. Non riusciamo mai a esaminare i nostri sentimenti e motivazioni, non riusciamo mai a formulare nessun giudizio su di essi, se non ci spostiamo dalla nostra posizione naturale e ci sforziamo di osservarli da una certa distanza. Ma non possiamo fare questo se non sforzandoci di osservarli con gli occhi degli altri, o così come si suppone che gli altri li osserverebbero. […] Ci sforziamo di esaminare la nostra condotta come immaginiamo che la esaminerebbe ogni altro equo e imparziale spettatore”.7

Avviene, nella formazione della coscienza personale, quel che, nello sviluppo dell’esperienza sensibile, succede, ad esempio, con la vista.

“Come agli occhi del corpo gli oggetti appaiono grandi o piccoli non tanto in conformità alle loro dimensioni reali, quanto in conformità alla vicinanza o lontananza della loro posizione, così, allo stesso modo, appaiono a quello che si può chiamare l’oggetto naturale della mente, e noi rimediamo ai difetti di entrambi questi organi in modo molto simile”.8

Se voglio fare un adeguato paragone fra i grandi oggetti lontani, che io vedo piccoli, e i piccoli oggetti vicini, che io vedo grandi, devo, almeno con la fantasia, mettermi ad eguale distanza da entrambi. Analoga operazione io devo compiere per comparare giustamente le passioni mie e quelle altrui.

“Supponiamo che il grande impero cinese, con tutte le sue miriadi di abitanti, fosse all’improvviso inghiottito da un terremoto, e pensiamo a come rimarrebbe colpito un europeo dotato di umanità, che non avesse alcun legame con quella parte del mondo, nel venire a sapere di questa terribile calamità. Credo che prima di tutto esprimerebbe con molto ardore la sua sofferenza per la sventura di quel popolo infelice; farebbe molte malinconiche riflessioni sulla precarietà della vita umana, e sulla vanità di tutti gli sforzi dell’uomo, che in un attimo possono venire annientati. Forse, se fosse un uomo incline alla speculazione, prenderebbe parte anche a svariati ragionamenti sugli effetti che il disastro potrebbe provocare sul commercio europeo, e sugli scambi e gli affari di tutto il mondo. E quando tutta questa raffinata filosofia fosse terminata, quando tutti questi sentimenti d’umanità fossero stati una buona volta espressi, tornerebbe ai suoi affari o al divertimento, riprenderebbe il suo riposo o il suo svago con lo stesso agio e tranquillità di prima, come se nessuna simile catastrofe fosse accaduta. Il minimo guaio che dovesse capitare a lui provocherebbe un disturbo più reale. Se sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l’indomani, la notte non dormirebbe, ma, a patto che non li abbia mai visti, russerebbe profondamente e tranquillamente sulla rovina di cento milioni di suoi fratelli, e la distruzione di quell’immensa moltitudine gli sembrerebbe ovviamente un oggetto meno interessante della sua irrisoria disgrazia”.

Come, però, solo l’abitudine e l’esperienza ci insegnano a comparare correttamente oggetti che l’occhio vede da distanze diverse, anche per la formazione della coscienza morale sono necessarie l’abitudine e l’esperienza. È necessario “un certo grado di riflessione e anche di filosofia, per convincerci di quanto poco ci interesserebbero le maggiori preoccupazioni del nostro prossimo, di quanto poco saremmo colpiti da ciò che lo riguarda, se non ci fosse il senso dell’appropriatezza e della giustizia a correggere l’altrimenti naturale parzialità dei nostri sentimenti”.

Torniamo al terremoto cinese preso in ipotesi.

Il giudice imparziale, una volta formatosi nella coscienza, come reagirebbe se, per evitare la “irrisoria disgrazia” del dito mignolo, un uomo immaginasse la possibilità di “sacrificare le vite di cento milioni di suoi fratelli, a patto di non averli mai visti?”

Scrive Smith: “La natura umana inorridisce a questo pensiero, e il mondo, pur nella sua più grande depravazione e corruzione, non ha mai generato uno scellerato tale da esser capace di un’azione simile. Ma cos’è che determina questa differenza? Se i nostri sentimenti passivi sono quasi sempre meschini ed egoisti, come può accadere che i nostri principi attivi siano spesso così generosi e nobili? Se siamo sempre colpiti molto più profondamente da ciò che riguarda noi stessi piuttosto che da ciò che riguarda gli altri uomini, che cos’è che spinge in ogni occasione i generosi, e in molte occasioni i meschini, a sacrificare i propri interessi in nome dei più grandi interessi degli altri? Non è il debole potere del senso di umanità, non è quel flebile barlume di benevolenza che la Natura ha acceso nel cuore umano che riesce a contrastare i fortissimi impulsi dell’amor di sé. È un potere più grande, un movente più energico, quello che si manifesta in tali occasioni. È la ragione, il principio, la coscienza, l’abitante dell’animo, l’uomo interiore, il grande giudice e arbitro della nostra condotta. È lui che, ogni volta che stiamo per colpire la felicità altrui, ci grida, con una voce capace di stordire le nostre passioni più presuntuose, che noi non siamo altro che uno dei tanti, sotto nessun riguardo migliore di qualsiasi altro, e che quando, in modo così vergognoso e cieco, preferiamo noi stessi agli altri, diventiamo oggetti appropriati di risentimento, avversione e disprezzo. Solo dall’uomo interiore impariamo la reale piccolezza nostra e di tutto ciò che è in relazione con noi, e le naturali errate interpretazioni dell’amor di sé possono venir corrette solo dall’occhio di questo spettatore imparziale. È lui che ci mostra l’appropriatezza della generosità e la mostruosità dell’ingiustizia; l’appropriatezza della rinuncia ai più grandi nostri interessi, per gli ancor più grandi interessi degli altri, e la mostruosità dell’offendere, anche minimamente, un altro, per ottenere un maggior vantaggio personale. Non è l’amore per il prossimo, non è l’amore per il genere umano, che in diverse occasioni ci spinge a praticare quelle virtù divine. È un amore più forte, un affetto più potente, quello che si manifesta in tali occasioni: l’amore per ciò ch’è onorevole e nobile, l’amore per la grandezza, la dignità e la superiorità della nostra natura”.9

E questo sentimento, precisa subito Smith, “non è riservato solo a uomini di straordinaria magnanimità e virtù. È profondamente impresso in ogni soldato sufficientemente valente, che sente che diventerebbe lo zimbello dei suoi compagni, se potesse esser ritenuto capace di indietreggiare di fronte al pericolo, o di esitare a esporre la sua vita o a darla, se il bene del servizio lo richiedesse”.

Poco più avanti Smith parla di “vergogna interiore”.

Viene da pensare alla vergogna che, nell’Iliade, impone a Ettore di non fuggire da Achille che sta per ucciderlo in duello; alla vergogna che Protagora, nella sua rielaborazione del mito di Prometeo, indica tra le condizioni necessarie, insieme alla legge, per la vita della città.10

La figura smithiana dello spettatore equo e imparziale merita molta attenzione: si tratta di un vero e proprio tribunale interiore, costruito nel corso dei rapporti sociali animati dalla simpatia e da due diversi desideri.

“La Natura, nel fare l’uomo per la società, lo fornì di un originario desiderio di piacere e di un’originaria avversione per l’offesa verso i suoi fratelli. Gli insegnò a provar piacere nell’esser considerato favorevolmente, e ad addolorarsi nell’esser considerato sfavorevolmente da loro. […] Ma questo desiderio dell’approvazione e l’avversione per la disapprovazione dei suoi fratelli non l’avrebbero, da soli, reso adatto alla società per cui era fatto. La Natura, perciò, non lo ha fornito solo del desiderio di essere approvato, ma del desiderio di esser ciò che dovrebbe essere approvato, e ciò che lui stesso approva in altri uomini. Il primo desiderio avrebbe potuto soltanto portarlo a desiderare di sembrare fatto per la società; il secondo era necessario per renderlo ansioso di esserlo davvero. Il primo avrebbe potuto solo spingerlo a fingere la virtù, e a dissimulare il vizio; il secondo era necessario per ispirargli il vero amore per la virtù, e la vera esecrazione del vizio. In ogni animo ben formato questo secondo desiderio sembra il più forte dei due”.11

Il gioco di questi due desideri naturali fa sì che, valutando le proprie azioni con gli occhi degli altri, in base alla loro accettabilità dal punto di vista sociale, gli uomini istituiscano nel loro intimo “il tribunale delle loro coscienze”, dove opera “l’immaginato spettatore imparziale e bene informato, il grande giudice e arbitro della loro condotta”.12Un arbitro che, irrobustendosi nella sua funzione di giudice, non solo sa mettersi al di sopra della propria parte, bensì al di sopra di tutte le parti. Un arbitro che diventa capace di muovere verso il dover essere, verso l’ideale e l’universale, fino a raggiungere la piena autonomia di giudizio morale.

Il giudizio di quest’arbitro imparziale ci libera dal giudizio di quello che Smith chiama “uomo esteriore”, dal giudizio dell’opinione pubblica, dalla quale si desiderano le lodi; ci libera, quindi, anche dal conformismo.

“Desiderare la lode, o anche accettarla, quando non è dovuta, può essere solo l’effetto della più disprezzabile vanità. Desiderarla quando è realmente dovuta non è altro che desiderare che ci venga reso un fondamentale atto di giustizia. L’amore per la giusta fama, per la vera gloria, anche solo in se stesso, e indipendentemente da qualsiasi vantaggio ne possa derivare, è degno anche di un uomo saggio. Tuttavia, egli a volte non lo degna di alcuna considerazione, e arriva persino a disprezzarlo, e tende a comportarsi in questo modo soprattutto quando è pienamente certo della perfetta appropriatezza di ogni aspetto della sua condotta. La sua autoapprovazione, in questo caso, non ha bisogno di alcuna conferma da parte dell’approvazione di altri uomini. È sufficiente da sola a soddisfarlo. Questa autoapprovazione è l’oggetto principale, se non l’unico, per il quale egli può, o dovrebbe, preoccuparsi. L’amore per l’autoapprovazione è amore per la virtù”. All’opposto, nei riguardi del vizio, quel che si teme “non è tanto il pensiero di essere odiati e disprezzati, quanto quello di essere odiosi e disprezzabili. Temiamo il pensiero di fare qualcosa che possa renderci oggetti giusti e appropriati dell’odio e del disprezzo dei nostri simili, anche se fossimo del tutto sicuri che di fatto non saremo mai oggetto di questi sentimenti. All’uomo che ha infranto tutte quelle misure di condotta che, sole, possono renderlo bene accetto all’umanità non servirebbe a niente poter avere la più perfetta assicurazione che ciò che ha fatto è destinato a rimanere nascosto a ogni occhio umano. Quando ci ripensa, e lo vede con gli occhi con cui lo vedrebbe lo spettatore imparziale, scopre di non riuscire a prender parte a nessuno dei motivi che lo hanno influenzato. È sconcertato e confuso a questo pensiero, e prova necessariamente molta di quella vergogna a cui sarebbe esposto se le sue azioni dovessero diventare note a tutti. La sua immaginazione, anche in questo caso, anticipa il disprezzo e la derisione da cui nulla lo salva se non l’ignoranza di quelli con cui vive”.13

A volte il rapporto tra il giudice interiore e l’opinione pubblica diventa drammatico o, addirittura, tragico come nel caso dello “sventurato Calas”.14

Quando la “veemenza e il clamore” dell’opinione pubblica, dell’uomo esteriore, confonde e mette in crisi l’uomo interiore, il solo modo per questi di non smarrirsi è l’appello, nel dialogo interiore, “al tribunale del Giudice del mondo che vede ogni cosa, i cui occhi non possono mai venire ingannati, e i cui giudizi non possono mai essere alterati”.15

L’autonomia morale è una virtù, anzi, la virtù. Non tutti la raggiungono. Alcuni, i deboli e conformisti, neppure la cercano. Altri muovono in direzione opposta e acquisiscono anche “una completa insensibilità all’onore e all’infamia”.

La legge morale e il suo rispetto, che s’impongono su tutti i sentimenti naturali e che sono centrali nella teoria morale di Kant, non sono lontani.

L’accostamento di Smith al filosofo dell’imperativo categorico rende, però, subito evidente una loro fondamentale differenza: l’imperativo categorico è per Kant un fatto della Ragion pratica, di cui “siamo consci a priori”; l’autonomia morale è, invece, per Smith il punto d’arrivo di una lunga esperienza di rapporti con gli altri, mossa dai sentimenti e chiarita dalla ragione; è il punto d’arrivo di un perfezionamento morale possibile, non garantito, sempre aperto a nuovi ulteriori sviluppi.

Ritroviamo, da quest’altra angolatura, la radicale differenza, già incontrata nella questione della mano invisibile, tra i filosofi che nel Settecento parlano di una ragione limitata e da scriversi con la minuscola e quelli che, come Kant in questo caso, si riferiscono alla Ragione assoluta, con la maiuscola.

Ricaviamo, così, dalla teoria morale di Smith un altro e decisivo argomento a sostegno di quanto Alessandro Roncaglia ha scritto sul mito della mano invisibile: come si può, infatti, pensare che l’autore di questa filosofia morale intendesse consegnare la società alle dinamiche del mercato senza freni?

Se nella società l’individuo può e deve costruirsi una sua coscienza morale, diventare capace di autonomia morale, non è pensabile che la società stessa, nel suo insieme, possa e debba costruirsi una sua coscienza politica, intesa come senso del bene comune, come senso dello Stato?

Con queste domande, proviamo a tornare sulle pagine economiche di Smith.

In La ricchezza delle nazioni, a conclusione del quarto capitolo, dopo aver analizzato i diversi sistemi di economia politica, Adam Smith scrive:

“Ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia, viene lasciato perfettamente libero di seguire il proprio interesse a suo modo e di mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli di ogni altro uomo o categoria di uomini. Il sovrano è completamente dispensato da un dovere nell’adempimento del quale è sempre esposto a innumerevoli delusioni e per il giusto adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere all’attività dei privati, e di dirigerla verso le occupazioni più idonee all’interesse della società. Secondo il sistema della libertà naturale, il sovrano deve attendere soltanto a tre compiti; invero tre compiti di grande importanza, ma chiari e comprensibili ai comuni intelletti: primo, il compito di proteggere la società dalla violenza e dall’invasione di altre società indipendenti; secondo il compito di proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o oppressione di ogni altro membro, ossia il compito di instaurare un’equa amministrazione della giustizia; e terzo, il compito di creare e di mantenere certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche, che non potranno mai essere create e mantenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di individui, perché il profitto non potrebbe mai ripagarli del costo benché spesso questo costo possa essere ripagato abbondantemente a una grande società”.16

Nel secondo capitolo del libro quinto, scrive lapidario: “Sembra non vi siano due caratteri più incompatibili di quello del sovrano e del mercante”.17E argomenta la tesi con la storia della Compagnia inglese delle Indie orientali.

Nel capitolo precedente, a conclusione del discorso sulle spese del sovrano per l’amministrazione della giustizia, scrive: “Quando il potere giudiziario è associato al potere esecutivo, è assai difficile che la giustizia non venga sacrificata a quella che volgarmente si chiama politica. Le persone cui sono affidati i grandi interessi dello Stato possono talvolta pensare, anche senza uno scopo di corruzione, che sia necessario sacrificare a quegli interessi i diritti di un privato. Ma dall’imparziale amministrazione della giustizia dipende la libertà di ogni individuo, il sentimento che egli ha della propria sicurezza. Per far sì che ogni individuo si senta perfettamente sicuro nel possesso di tutti i diritti che gli appartengono, non è soltanto necessario che il potere giudiziario sia separato da quello esecutivo, ma anche che sia reso il più possibile indipendente da quel potere. Il giudice non dovrebbe poter essere rimosso dal suo ufficio secondo i capricci di quel potere. Il regolare pagamento del suo stipendio non deve dipendere dal buon volere o anche soltanto dalla buona gestione di quel potere”.18

A questi passi si possono aggiungere quelli, già presi in considerazione, sui compiti dello Stato nell’educazione scolastica popolare, per porre rimedio agli effetti umanamente disastrosi della divisione del lavoro.

Il percorso individuale, che, nella teoria morale di Smith, dai sentimenti arriva all’autonomia morale, ci aiuta a riconoscere, nelle pagine del suo capolavoro, La ricchezza delle nazioni, un analogo percorso della società, che, muovendo dalle tendenze naturali non si arresta alla creazione del mercato, ma crea lo Stato, mirando alla giustizia e al bene comune.

Autonomia morale e senso dello Stato sono punti d’arrivo di due possibili progressi umani: come non tutti gli individui acquisiscono l’autonomia morale, così non tutte le società s’innalzano al senso del bene comune e dello Stato.

Non ci sono garanzie metafisiche, ma gli uomini possono e devono impegnarsi per costruire la propria autonomia morale e uno Stato all’altezza dei suoi compiti.

Note

1 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, ed. BUR 2009, par. 3, cap. 1, parte III, pp. 253-4.

2 Ib. par. 5, cap. 1, p. 84.

3 Ib. par. 10, cap. 1, p. 86.

4 Ib. par. 12, cap. 1, p. 87.

5 Ib. par. 4, cap. 1, parte III, p. 255. Il grassetto-corsivo di specchio è mio.

6 Ib. par. 31, nota 27, cap. 2, parte III, p. 283.

7 Ib. par. 2, cap. 1, parte III, pp. 251-2.

8 Ib. par. 2, cap. 3, parte III, p. 291.

9 Ib. par.4, cap. III, parte III, pp. 293-295. Il grassetto è mio.

10 Su questa rielaborazione del mito di Prometeo da parte di Protagora, cfr. “Gli dei, la città e la democrazia” in Giuseppe Bailone, Viaggio nella filosofia europea, Alpina, Torino 2006, p. 27.

11 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, ed. BUR 2009, par. 6 e 7, cap. 2, parte III, p. 263.

12 Ib. par. 32, cap. 2, parte III, p. 285.

13 Ib. par. 8 e 9, cap. 2, parte III, pp. 264-5.

14 Jean Calas, protestante, fu ingiustamente condannato a morte il 9 marzo 1762, in seguito all’accusa di aver ucciso il figlio, che si era in realtà suicidato, per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. Il caso è al centro del Trattato sulla tolleranza di Voltaire.

15 Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, ed. BUR 2009, par. 33, cap. 2, parte III, p. 287.

16 Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, ed. UTET 1996, pp. 852-3.

17 Ib. p. 990.

18 Ib. p. 887.


Fonte: ANNO ACCADEMICO 2013-14 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Torino 17 febbraio 2014

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf)

Plotino (pdf)

L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015