IL REVIVAL CATTOLICO DI CIRILLO E METODIO
Il 2 giugno 1985 Giovanni Paolo II ha firmato la sua quarta enciclica, Slavorum apostoli, dedicata all'opera evangelizzatrice di Cirillo e Metodio. Rispetto alla breve lettera apostolica precedente, Egregiae virtutis viri, con la quale si proclamavano i due missionari greci "compatroni d'Europa" insieme a s. Benedetto (già dichiarato patrono d'Europa da Paolo VI nel 1964), il pontefice ha voluto qui condensare in 8 capitoli un'ampia giustificazione, storico-teologica, del valore dell'opera cirillometodiana. |
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Ora, lasciando al lettore il compito o la curiosità di confrontare la versione dei fatti allora accaduti, che qui daremo, con quella presentata nell'enciclica, che in vari punti è a dir poco lacunosa, punteremo invece, nella seconda parte dell'articolo, la nostra attenzione sulle affermazioni più propriamente teologico-politiche dell'enciclica facendo alcune nostre brevi considerazioni.
(A)
I nomi di Cirillo e Metodio appaiono nella storia della chiesa e della cultura bizantina allorché il principe Ratislao, duca della Grande Moravia (nel centro Europa), al fine di sottrarsi all'imperialismo di Ludovico il germanico, re di Baviera (la parte orientale dell'ex-impero carolingio), chiese al basileus bizantino, Michele III, di inviargli una missione evangelizzatrice. Questo negli anni 862-863.
Ludovico infatti non aveva ancora occupato militarmente la Moravia, però si stava servendo dei missionari franco-germanici provenienti dai vescovati di Salisburgo e Passau per crearsi il terreno propizio (i primi missionari arrivarono verso l'anno 800). Non gli era facile conquistare la Moravia, sia perché questa era un potente Stato comprendente molte tribù slave (l'unione delle quali servì appunto a respingere i tentativi espansionistici di Carlo Magno), sia perché il papato gli si opponeva, temendo il rafforzarsi della chiesa germanica, che pretendeva un'autonomia sempre maggiore.
Pressato dalle popolazioni locali di lingua slava, che erano particolarmente ostili ai missionari germanici, che -nel rispetto delle direttive pontificie- imponevano l'uso del latino per la liturgia e la lettura della Bibbia, il duca Ratislao chiese a Roma dei missionari che conoscessero la lingua slava, ma, non avendo ottenuto soddisfazione, decise di rivolgersi all'imperatore di Bisanzio Michele III.
Ben felice di accogliere l'invito del duca moravo, il basileus, con l'appoggio del patriarca di Costantinopoli Fozio, inviò nell'863 due dei suoi migliori intellettuali, appunto Cirillo (che in realtà si chiamava Costantino) e Metodio, suo fratello: il primo esperto in filosofia, il secondo in diritto, ed entrambi in teologia e linguistica. Il periodo iconoclastico era terminato e l'imperatore bizantino aveva ritrovato nuova forza e coesione politico-religiosa. La richiesta del duca veniva pertanto a coincidere con le esigenze espansionistiche di Bisanzio o comunque con le preoccupazioni di non vedere estendersi il potere germanico verso est.
La speranza di veder confluire tutti gli slavi nell'orbita bizantina, attraverso la possibile conversione all'ortodossia da parte dello Stato moravo, si scontrava però con un'altra dura realtà: l'insediamento del forte popolo bulgaro fra le terre morave e quelle bizantine. Presso gli slavi meridionali di quel tempo, i bulgari erano culturalmente i più evoluti. Cirillo e Metodio, che parlavano, oltre al greco, un dialetto bulgaro-macedone, perché cresciuti in un ambiente di coloni slavi, non "inventarono" un nuovo alfabeto, ma diedero una forma definitiva alla scrittura slava, che s'era formata, in questo paese, molto tempo prima, permettendole così di diffondersi rapidamente fra le classi agiate di Russia, Bulgaria, Serbia e Macedonia. A tal fine, essi, per esprimere la particolarità della fonetica, usarono i caratteri della minuscola greca insieme alle lettere slave. Ne venne fuori un alfabeto di 38 lettere, il cosiddetto "cirillico", che ancora oggi è alla base dell'alfabeto slavo.
Dunque i due apostoli andarono in Moravia e iniziarono a tradurre in questa lingua paleoslava (detta anche glagolitica) i testi liturgici e biblici, inclusi quelli di rito latino. La reazione dei missionari tedeschi non si fece attendere. Accusandoli di eresia per avere introdotto nella religione cristiana l'uso di una lingua diversa dalle tre permesse in occidente: latino, greco ed ebraico (1), li costrinsero -considerando che la Moravia già ruotava nell'orbita cattolico-occidentale- a giustificare il loro operato al cospetto di papa Adriano II. Era l'anno 867.
Il papa però, a causa della rivalità con la chiesa franco-tedesca, appoggiò l'iniziativa dei due missionari, al punto che permise loro di ordinare propri sacerdoti per l'evangelizzazione. A dir il vero Cirillo e Metodio chiesero anche una propria gerarchia per la Grande Moravia. La questione era delicata, dato che i germanici avevano esercitato per alcuni decenni il loro apostolato in quelle regioni. Tuttavia il papa trovò una soluzione, ristabilendo giuridicamente l'antica metropoli di Sirmio nell'Illirico, presso Belgrado, con giurisdizione indipendente sulla Moravia e sulla Pannonia, e consacrando Metodio (Cirillo morirà a Roma nell'869 a causa di una malattia) legato pontificio per le genti slave e arcivescovo per quella sede.
Metodio si rendeva conto di non avere scelta: se avesse rifiutato le cariche, Roma, che odiava molto più Bisanzio dei franchi, non gli avrebbe concesso, in definitiva, alcun appoggio e la sua missione sarebbe fallita.
Tuttavia, i vescovi tedeschi, appena Metodio rientrò in Moravia, lo arrestarono e lo condannarono in un sinodo bavarese col pretesto di aver invaso una giurisdizione episcopale altrui. Questa volta il papa Adriano II non si oppose alla sua carcerazione in Svevia, che durò per circa tre anni, proprio perché si era accorto che la missione cirillometodiana era legata a una tradizione teologica, la bizantina, già così diversa da quella latina che al suo confronto i dissidi romani con la chiesa franca perdevano molta della loro importanza.
I due apostoli infatti non si erano limitati a una semplice opera di traduzione letteraria, ma avevano anche combattuto contro grossolane superstizioni introdotte o alimentate dal clero cattolico, nonché alcune deviazioni dalla morale evangelica.
Metodio venne liberato per intercessione del nuovo papa Giovanni VIII, poté far ritorno nella Grande Moravia, dove continuò a lavorare per altri 12 anni, fino alla morte (885). Ma appena Metodio morì, il nuovo sovrano della Grande Moravia, il principe Svatopluk, già contrario all'opera dell'apostolo greco, che spesso lo rimproverava a causa della sua condotta immorale, gli preferì un vescovo germanico di nome Wiching e la liturgia latina. Egli d'altra parte sapeva bene che il ruolo più autoritario dei vescovi e missionari germanici, si adattava meglio a tenere le popolazioni contadine sotto un duro servaggio. E così tutti i discepoli di Metodio furono espulsi dalla Moravia e costretti a rifugiarsi in Boemia, Polonia e Bulgaria (già convertiti all'ortodossia da parte di Metodio erano stati lo zar bulgaro Boris e il principe boemo Borivoj). Successivamente dalla Bulgaria la cultura e la liturgia slava si estesero nell'antica Rus (odierna Ucraina) e nella Russia, quindi anche presso i romeni, i quali, per quasi un millennio, fino al 1860, hanno usato la lingua e la scrittura cirillica.
La decisione di espellere i discepoli di Metodio dalla Grande Moravia fu fatale per le sorti di questo paese. Alcuni feudatari, infatti, non volendo saperne di sottostare a un potere germanico centralista, si staccarono con le loro tribù dallo Stato, permettendo così alla tribù nomade degli ungari, che premeva dall'esterno, di distruggerlo nel 906.
I vescovi germanici, costatato che gli ungari accettavano tranquillamente il cattolicesimo latino, ebbero la strada spianata. L'ultima roccaforte della liturgia slava della Grande Moravia venne latinizzata nel 1096. Da allora e per molto tempo il baluardo della lotta degli slavi contro l'oppressione dei feudatari germanici diventerà lo Stato ceco.
Il successore di Metodio(2), il vescovo slavo Gorazd, fu cacciato dal nuovo principe ungherese Stefano V, che proibì definitivamente l'uso dello slavo ecclesiastico. Essi continuarono la missione in Bulgaria, lungo il Danubio, fino ai Balcani. Il principe bulgaro Boris, che voleva sottrarsi all'egemonismo di Costantinopoli, si rivolse a Roma, ma accortosi che le pretese di questa non erano meno forti dell'altra, scelse infine di legarsi al basileus, permettendo così alla lingua slava una facile diffusione in Serbia, Romania, Russia e negli altri territori limitrofi. E sarà proprio la fondazione della chiesa bulgara in lingua slava che provocherà il primo acuto conflitto tra Roma e Costantinopoli noto col nome di "scisma di Fozio".
(B)
Con l'enciclica Slavorum Apostoli Karol Wojtyla ha rilanciato, a livello europeo, il tema dell'ecumenismo che, dopo la ripresa del dialogo teologico fra cattolici e ortodossi presso l'isola di Patmos nel 1980, aveva subìto, a causa delle forti divisioni dogmatiche tra le due confessioni, una battuta d'arresto.
L'elezione al soglio pontificio di un vescovo polacco, abituato a convivere con circa mezzo milione di ortodossi nella parte orientale della sua nazione, aveva per un momento fatto sperare, negli ambienti più illuminati dell'intellighenzia cattolica (italiana e non), nella possibilità di un rapporto più fecondo con la cosiddetta "chiesa sorella" d'oriente. E così in effetti è stato. Ma si è trattato solo di un fuoco di paglia. Nel giro di pochi anni ci si è accorti, da ambo le parti, che sulle posizioni di principio non c'era alcuna possibilità d'accordo e che pertanto il voler trovare a tutti i costi un'intesa teologica sarebbe stato solo una perdita di tempo.
Gli ortodossi continuano a restare legati a una struttura ecclesiastica di tipo democratico-conciliare, i cattolici invece a una di tipo gerarchico-papale. Questa la differenza più rilevante. Forse il patriarcato di Costantinopoli -sulla cui limitata importanza strategica la chiesa romana sta facendo leva per riproporre l'unanimismo politico-formale con l'ortodossia- sarebbe anche disposto a soprassedere sulle altre differenze dogmatiche, ma su questa, di natura ecclesiologica, non gli è possibile, almeno per il momento. Tutto sommato, il cosiddetto "dialogo nella carità" inaugurato da Paolo VI aveva dato maggiori risultati rispetto a quello "nella verità" inaugurato da Giovanni Paolo II.
Ora, con questa nuova enciclica il papa non propone nuovi metodi di collaborazione o di intesa teologica per la futura riunificazione con la chiesa ortodossa, ma ribadisce a chiare lettere -per quei credenti che ancora non l'avessero capito- che l'esigenza del dialogo non nasce da uno scopo puramente intellettuale né da circostanze occasionali, quanto piuttosto da un interesse molto concreto e storicamente determinato, tale per cui le differenze teologico-dogmatiche dovrebbero, a suo giudizio, passare in second'ordine: si tratta dell'unificazione di tutte le confessioni cristiane, a livello internazionale, al fine di proporre al mondo intero una valida alternativa sia al capitalismo che al socialismo. Cioè l'unità dei cristiani di tutto il mondo va concepita come un dovere storico, in forza della gravità dei problemi causati dalla moderna secolarizzazione.
E' questo il leit-motiv sotteso a tutte le affermazioni ecumenico-pastorali di Wojtyla (3), il quale pensa che le divisioni tra cristiani altro non siano oggi che un pretesa contrabbandata per "diritto", e non a caso infatti parla dell'unità come di un "dovere etico", una sorta di imperativo categorico. Nelle sue considerazioni non ci sono "analisi storiche" con cui cercare di spiegare i motivi della "divisione", ma solo appelli politici: "La divisione della chiesa è di scandalo agli occhi del mondo"(4). La riunificazione delle chiese cristiane deve quindi essere il frutto non tanto di un processo storico condotto con libertà, in un confronto meditato sulle motivazioni che possono aver portato alla rottura e sulle modalità di una loro progressiva ricomposizione, quanto piuttosto il frutto di una drammatica emergenza che va risolta con la sottoscrizione di documenti che impegnano a precise responsabilità (l'emergenza è appunto quella data dalla constatazione di una profonda e inaccettabile crisi del ruolo del chiesa cristiana nel mondo contemporaneo).
Di qui la necessità di portare avanti il dialogo con le confessioni acattoliche solo a livello istituzionale e non anche locale, cioè solo mediante i vertici gerarchici e gli specialisti del settore, evitando accuratamente di coinvolgere i semplici fedeli, che farebbero solo perdere tempo e che, peraltro, potrebbero in questo momento avere difficoltà ad accettare un'idea clericale terzoforzista in funzione anticapitalista e insieme antisocialista; senza considerare che il credente cattolico potrebbe anche manifestare delle simpatie per la libertà intellettuale del collega protestante o per la profondità spirituale e il rigore teologico del collega ortodosso. (5)
Le prospettive ecumeniche -come si diceva- oggi fanno acqua da tutte le parti, sia perché i credenti sparsi nel mondo non sono sempre necessariamente legati alle loro chiese più di quanto non lo siano nei confronti dei loro rispettivi Paesi, sia perché molti credenti che rivendicano maggiore giustizia sociale e democrazia politica ritengono che nessuna chiesa, in tal senso, possa e debba svolgere un ruolo decisivo, sia perché, infine, le diverse confessioni religiose non vogliono rinunciare alle loro fondamentali tesi teologiche, che a prezzo spesso di grandi sacrifici hanno conseguito.
Ecco perché la chiesa romana è sempre più interessata all'uso degli strumenti politico-diplomatici-comunicativi e meno a quelli teologico-dogmatici al fine di convincere i cristiani di tutto il mondo, in specie quelli europei, che la possibilità di una "terza via" è concreta ed effettiva. L'enciclica su Cirillo e Metodio rientra appunto nell'uso di quella tattica "flessibile" ma "determinata" con cui si dovrebbe, da un lato, avvicinare delle posizioni ideologicamente irriducibili e, dall'altro, convogliare verso un massimalismo integralistico quelle posizioni che rispettano l'autonomia degli ambiti laico-civili o statali.
Si tratta appunto, da parte cattolica, di convincere protestanti e soprattutto ortodossi ad accettare l'egemonia universale del pontificato romano per il bene di una chiesa che, divisa in tante confessioni, s'indebolisce sempre più nel confronto con laicismo e secolarizzazione. Per realizzare questo obiettivo le diverse confessioni devono momentaneamente rinunciare a porre in primo piano ciò che le divide, collaborando invece politicamente su ciò che le unisce.
E' ovvio che l'obiettivo ha più una funzione antisocialista che anticapitalista ed è altresì ovvio che, dopo il crollo del "socialismo reale", esso può avere più possibilità di realizzarsi. Anzi, proprio il crollo del socialismo (il nemico n. 1 della chiesa romana, a causa delle teorie collettivistiche e ateistiche) può oggi far sperare nel crollo dell'altro sistema sociale, che, sebbene economicamente più forte del socialismo, gli è sempre stato decisamente inferiore sul piano degli ideali.
Cirillo e Metodio, in tal senso, altri non rappresenterebbero che "gli anelli di congiunzione fra la tradizione orientale e quella occidentale"(par. 27): quelle due tradizioni che prima del 1054 (anno della definitiva separazione) procedevano di comune accordo sulle questioni dogmatiche (se si esclude quella di non poco conto relativa al "Filioque"), pur nelle forti diversità di usi e costumi. Sarebbero insomma loro i "precursori del futuro ecumenismo". Questa l'ermeneutica mitologica e finemente calcolata del pontefice.
Quegli apostoli greci -viene detto nell'enciclica con un chiaro riferimento all'obiettivo egemonico di cui sopra- sebbene fossero "mandati" da Costantinopoli, chiesero poi d'essere "confermati" da Roma, riconoscendo nel papato un "centro visibile dell'unità della chiesa"(par. 13). (Da notare che la proclamazione dei fratelli Cirillo e Metodio a compatroni d'Europa non è stata fatta col parere concorde del Patriarcato ecumenico).
Un'analisi, questa, che per almeno tre fondamentali ragioni non può
trovare un soddisfacente riscontro storico.
- Anzitutto l'idea dell'ecumenismo universale, concepita come riaggregazione
sincretica delle diverse confessioni cristiane sparse nel mondo, è del tutto
estranea alla teologia ortodossa, che da sempre si concepisce come chiesa
locale (esiste chiesa cristiana semplicemente là dove si celebra l'eucarestia
e si è in comunione con altre chiese locali e insieme si condividono i
concili ecumenici che hanno deciso tutte le fondamentali verità dogmatiche);
anzi l'ecumenismo è un prodotto della moderna teologia protestante, col quale
si vorrebbe la riconciliazione delle chiese cristiane nella dimenticanza di
ciò che le separa.
- In secondo luogo ai tempi di Cirillo e Metodio, cioè nel IX sec., Roma non
era affatto riconosciuta dall'oriente ortodosso come "centro visibile
dell'unità", ma semplicemente come una delle sedi della Pentarchia
cristiana (le altre erano Costantinopoli, sede dell'imperatore cristiano, Alessandria d'Egitto, Antiochia e Gerusalemme),
- In terzo luogo Cirillo e Metodio si rivolsero al papa non per ottenere una
conferma "dottrinale" del loro operato, ma per ottenere -come già
si è detto- un appoggio di tipo politico-diplomatico. A giudizio degli
ortodossi di quel tempo il papa non era che un vescovo al pari di altri, un
"primus inter pares", se vogliamo, nulla di più. E anche
oggi, s'egli "ritornasse all'ortodossia", dovrebbe rinunciare a
tutte le sue pretese primaziali e anticonciliariste.
Uno dei motivi per cui il dialogo fra cattolici e ortodossi stenta a decollare è proprio questo, che i primi chiedono ai secondi di rinunciare alla propria diversità teologica, o per lo meno di accantonarla momentaneamente, al fine di realizzare una sorta di conformismo teopolitico universale. E' lo stesso motivo per cui, quando venne lanciata dai protestanti l'idea dell'ecumenismo, i cattolici non volevano dialogare con quest'ultimi. Solo col passare del tempo, in virtù soprattutto della crisi progressiva a loro interna, i cattolici, in specie quelli integralisti, si sono accorti che l'ecumenismo poteva essere un'occasione importante da sfruttare per scopi politici.
La lentezza però con cui procede il dialogo -il che attesta una preferenza
maggiore che le varie chiese riservano alla "diversità" che le
separa- è probabilmente dovuta alla mancanza di condizioni storico-oggettive
favorevoli. Per convincersi infatti della migliori opportunità
dell'unitarismo politico (rispetto al frazionismo ideologico) le suddette
chiese -secondo l'ottica neotemporalista di Wojtyla- dovrebbero trovarsi di
fronte all'acutizzazione di due fattori di crisi:
1) il confronto tra socialismo e capitalismo (e su questo il pontefice ha avuto ragione,
poiché ora sicuramente vi sono per la chiesa romana molte più possibilità di
proselitismo nei paesi ex-comunisti, anche a danno della confessione
ortodossa);
2) lo sviluppo progressivo della secolarizzazione, che porta una gran massa di
credenti, di tutte le religioni, a uscire dalle loro chiese (e anche su questo
è difficile dargli torto).
La politica di questo pontefice, se il socialismo reale non fosse crollato per motivi endogeni, avrebbe spinto i due sistemi sociali antagonistici a rompere la loro relativa coesistenza pacifica e, nel contempo, avrebbe indotto le diverse confessioni religiose ad accettare la leadership cattolica come soluzione vincente a livello internazionale. Oggi questo obiettivo può essere realizzato solo se ci si convince che anche il sistema capitalistico è prossimo al crollo. E lo sarà senza dubbio se insorgono le masse sfruttate del Terzo mondo, che costituiscono l'80% dell'umanità. Si tratterà per la chiesa romana -quando ciò avverrà- di non trovarsi impreparata a livello politico-istituzionale. Non dimentichiamo infatti che lo scarso interesse mostrato fino ad oggi per i cattolici del Terzo mondo, da parte della chiesa romana, era relativo al fatto che tali cattolici, nel momento di porre delle rivendicazioni, si sono sempre rifatti alle idee del socialismo. Ora che il socialismo ha fatto bancarotta, nulla osta a riprendere alcuni suoi temi e svolgerli in funzione anticapitalista, sotto l'egemonia di una nuova chiesa ecumenica e mondiale.
"Cirillo e Metodio -vien detto nell'enciclica- recarono un contributo decisivo alla costruzione dell'Europa non solo nella comunione religiosa cristiana, ma anche ai fini della sua unione civile e culturale. Nemmeno oggi esiste un'altra via per superare le tensioni e riparare le rotture e gli antagonismi sia nell'Europa che nel mondo..."(par. 27). La chiesa dunque torna a riproporsi non solo come maestra di vita religiosa per i credenti, ma anche come maestra morale e civile per tutti gli uomini. E questo in considerazione del fatto che nessun sistema sociale non religioso o non cattolico-romano è in grado -secondo Wojtyla- di risolvere le proprie interne contraddizioni.
Insomma Wojtyla si sta servendo della sua origine "slava" per proporre al mondo intero l'immagine di un'Europa forte perché compatta a livello ideologico-religioso. A tal fine egli mira a presentare l'immagine di un cristianesimo orientale come versione "equivalente" o "complementare", benché distinta sul piano rituale, di quello cattolico-latino. Cioè a dire, mentre gli ortodossi avrebbero accentuato gli aspetti spiritualistico-rituali della confessione cristiana, i cattolici invece quelli socio-pastorali (politici). Ma la sostanza sarebbe rimasta invariata. Perché dunque -si chiede con malcelato candore il pontefice- non ripristinare la comunione d'un tempo? Perché non realizzare una nuova Europa cristiana, sottoposta, dagli Urali ai Pirenei, all'egemonia della chiesa cattolica (o comunque del pontefice cattolico, cui tanto piace sentirsi "itinerante", leader della futura cristianità ecumenica)? Se il termine "romano" o "latino" o "vaticano" non piace, si può sempre sostituirlo con qualcos'altro: l'importante è salvaguardare il carattere monarchico di questa confessione.
Detta combinazione di irenismo teologico e populismo politico è chiaramente visibile in alcune affermazioni dell'enciclica: Benedetto, Cirillo e Metodio -viene detto- sono "modelli per le nazioni del continente europeo... radicate consapevolmente e originalmente nella chiesa e nella tradizione cristiana"(par. 2). "La loro opera costituisce un contributo eminente per il formarsi delle comuni radici cristiane dell'Europa, quelle radici che per la loro solidità e vitalità configurano uno dei più solidi punti di riferimento, da cui non può prescindere ogni serio tentativo di ricomporre in modo nuovo ed attuale l'unità del continente"(par. 25).
L'idea della riunificazione delle nazioni europee sotto l'egemonia direttamente o indirettamente politica della chiesa romana (secondo la famosa teoria, mai morta, del Bellarmino) va di pari passo con il riaffermato eurocentrismo ad oltranza, benché ora allargato alla parte orientale. Questo è un evidente limite della posizione polacca di Wojtyla, che in qualche modo il suo successore dovrà risolvere. L'aspirazione a un neotemporalismo cattolico internazionale non potrà certo avere il suo centro metropolitano negli Stati Uniti d'Europa, inevitabilmente troppo condizionati dallo spirito del capitalismo per accettare un progetto del genere. Il baricentro geografico della leadership cattolica dovrà necessariamente essere spostato in un qualche paese del Terzo mondo.
In ogni caso, il futuro del cattolicesimo latino non potrà dipendere da una critica semplicemente morale nei confronti del capitalismo e invece politica e ideologica nei confronti del socialismo: il neutralismo o l'equidistanza della "terza via" verrebbe a perdere la sua ragion d'essere. Né potrà avvalersi dell'esplicita condanna della Teologia della liberazione (che solo nel Brasile conta 4 milioni di seguaci), né dell'affermazione che gli Stati Uniti sono una terra di "grande ricchezza spirituale fondata sul culto della democrazia che attinge ai valori del cristianesimo", né del rifiuto di visitare la tomba del popolarissimo arcivescovo Romero, né della stretta di mano al rappresentante del sanguinario regime del Guatemala, né della sospensione a divinis dei sacerdoti impegnati nei ministeri del governo sandinista, col pretesto che non devono fare politica (pretesto ovviamente che non vale per i preti polacchi impegnati a sostenere il sindacato politico Solidarnosc)... Non è certo in questo modo che la chiesa cattolica potrà rispondere a "una delle aspirazioni fondamentali dell'umanità di oggi: di ritrovare l'unità e la comunione per una vita veramente degna dell'uomo a livello planetario"(par. 27).
E' assai dubbio che, in tal senso, sia più di "scandalo al mondo" l'unità perduta della chiesa cristiana che non la presenza, all'interno di questa confessione, di circoli reazionari intenzionati a riportare il mondo verso nuove forme di clericalismo.
In ogni caso la riscoperta di Cirillo e Metodio (che aggiunge ora al panlatinismo clericale del Vaticano l'idea panslavista di Wojtyla) rientra in quella politica ecumenica che da qualche tempo la gerarchia cattolica reazionaria sta sviluppando al fine di recuperare le posizioni di privilegio perdute a causa della secolarizzazione. In tal senso la necessità di rivedere l'assetto post-bellico dell'Europa (cioè gli accordi di Yalta e Potsdam) s'impone con sempre più urgenza. Paradossalmente in questo momento il Vaticano si trova ad avere più spirito aperturistico nei confronti dell'ex socialismo reale di quanto ne abbiano gli stessi paesi capitalisti.
Non si capirebbe altrimenti il motivo per cui si vogliano proporre alla cristianità europea dei modelli ideali di ecumenismo, come Cirillo e Metodio, che, proprio a motivo della grande estraniazione tra ortodossi e cattolici, non sono mai stati considerati da quest'ultimi come dei "modelli" per la loro fede. Lo stesso fatto di presentare dei modelli "europei" in questo momento di forte globalizzazione e internazionalizzazione dei problemi può appunto essere spiegato solo alla luce del fatto che l'ideologia di Wojtyla vede ancora l'Europa come luogo geografico privilegiato per la riscossa mondiale del cattolicesimo (e questo nonostante che la direzione degli affari commerciali e finanziari della chiesa romana si stia spostando sempre più verso gli Stati Uniti). E' un suo evidente limite quello di subordinare un discorso "sul mondo" a uno "sull'Europa", anche se bisogna riconoscergli il merito di aver allargato l'eurocentrismo alla parte orientale, costantemente tenuta ai margini dalla coscienza cattolica europea. Non dimentichiamo che i sospetti e i timori nutriti dalla borghesia europea nei confronti del socialismo reale non sono stati meno forti di quelli nutriti dalla chiesa romana nei confronti della rivale ortodossa.
L'Europa di Wojtyla, basata "consapevolmente e originalmente sul cristianesimo", non esiste più e forse non è mai esistita. Non solo perché le rotture all'interno della cristianità europea sono state frequentissime e altamente drammatiche (guerre di religione, crociate, scismi...), ma anche perché accanto all'ideologia cristiana sono sempre esistite, in tutta Europa, ideologie religiose non cristiane (ebraismo, islamismo...), ideologie religiose avversarie del potere religioso dominante (fenomeni ereticali...), ideologie persino non religiose (umanesimo, scientismo, illuminismo, positivismo, socialismo...) che la chiesa romana, ad un certo momento, ha dovuto riconoscere per non rischiare di uscire dalla storia (vedi la rivalutazione di Galileo, della rivoluzione francese, l'autocritica sull'antisemitismo...). Parlare oggi di riunificazione dell'Europa su basi religiose non ha davvero senso.
In via del tutto ipotetica ci si può chiedere se il capitalismo potrebbe appoggiare il progetto reazionario dei circoli vaticani. La risposta è "parzialmente sì", e lo ha già fatto in funzione anticomunista (gli Usa p.es. non hanno difficoltà a considerare Wojtyla come il papa "dei diritti umani"), ma "totalmente no", perché il mondo borghese non potrà mai concedere alla futura chiesa ecumenica maggiori prerogative delle attuali, se con queste essa cominciasse a pretendere una leadership non compatibile con gli interessi del capitale. E' infatti il capitale che detta le condizioni, non tanto questo o quel rappresentante politico al governo: o la chiesa vi si adegua o ne resta fuori.
Dice Marx nel Manifesto: "la borghesia ha trasformato il prete in operaio salariato, ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività considerate fino a ieri degne di venerazione e di rispetto, ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, ogni cosa sacra ha sconsacrato". Neanche se lo volesse la borghesia potrebbe riportare l'umanità all'epoca precapitalistica, cioè antecedente alle due fondamentali rivoluzioni: quella industriale e quella francese.Una decisione del genere potrebbe essere operata, da parte della borghesia, solo in condizioni altamente drammatiche, in cui venisse minacciata la sua stessa esistenza. Ma anche in questo caso non potrebbe essere la borghesia il soggetto protagonista della svolta a ritroso.
L'unica unità possibile a livello mondiale è quella che può essere fatta in virtù di una concezione della vita in grado di emancipare umanamente le masse popolari, in grado di riflettere la condizione sociale ed economica di cittadini e lavoratori veramente liberi da qualunque forma di sfruttamento. Che questa unità avvenga in nome della laicità o di qualche religione sarà la storia a deciderlo, come sarà la storia a decidere quali forme democratiche dovrà assumere il socialismo.
(1) Metodio, proveniente da un'area geografica per tradizione poliglotta, essendo consapevole che già molte tribù orientali avevano accettato il cristianesimo ortodosso nella loro lingua madre, aveva definito col termine di "pilatiani" i latini seguaci delle tre lingue liturgiche obbligatorie, a ricordo della triplice iscrizione che, stando ai vangeli, Pilato fece apporre sulla croce del Cristo.
(2) Del tutto sfavorevole alla memoria di Metodio fu la lettera che papa Stefano V indirizzò a Svatopluk nell'885.
(3) "Non abbiamo più il diritto di restare divisi"(ha detto Wojtyla a Costantinopoli); "dobbiamo fare di tutto per unirci"(ha detto a Magonza); "quanto più gravi sono i problemi, tanto più profonda deve essere l'unità" (al Celam, Brasile); "ogni anno che passa rende più urgente l'unità"(Preghiera per l'unità dei cristiani); "bisogna accelerare il giorno della concelebrazione (con gli ortodossi)"(al Segretariato per l'unione dei cristiani).
(4) La divisione contraddice "la potenza dell'unico battesimo, la sovranità del Cristo unico re e l'autorità e la forza unificante della Parola di Dio"(Lettera apostolica su S. Basilio); "l'unità è il primo requisito che rende credibile l'annuncio. Se non siamo uno... il mondo non crederà"(Preghiera per l'unità dei cristiani); "Il compromesso non conta; conta solo... l'unità nella verità e nell'amore"(alla Conferenza episcopale tedesca). "Dialogo non può significare un indifferentismo, né l'arte di confondere i concetti essenziali"(ai Vescovi francesi, 1980).
(5) Ha detto l'arcivescovo di Bari, Mariano Magrassi, grande esperto di ecumenismo: "nei nostri reciproci rapporti con l'oriente ortodosso le differenze sono più sottolineature che non vere divergenze. (art. apparso su O Odigos n. 3/82). Subito dopo ha affermato esattamente il contrario: "L'essere vissuti per secoli distaccati gli uni dagli altri e in perpetua polemica ha scavato dei fossati". Qui delle due due: o abbiamo a che fare con due chiese assurde, che si odiano senza ragione, oppure la "perpetua polemica" non è una semplice "sottolineatura" ma ha radici storiche molto profonde.
Bibliografia