Sollicitudo rei socialis, ovvero i limiti della terza via di Wojtyla

SOLLICITUDO REI SOCIALIS,
OVVERO I LIMITI DELLA "TERZA VIA" DI WOJTYLA

L'enciclica Sollicitudo rei socialis di Karol Wojtyla può essere considerata come una valida summa di tutti i principi etico-politici di quella cosiddetta "terza via" fra capitalismo e socialismo che da tempo la chiesa romana pretende di rappresentare. Naturalmente Wojtyla rifiuta di applicare questo concetto ideologico e politico alla sua dottrina sociale, ma questo non significa che l'applicazione non possa essere fatta.

Che la dottrina sociale della chiesa sia però un'ideologia politica è dimostrato anche dal fatto che con essa si rivendica un diritto squisitamente politico, quello di poter risolvere i problemi sociali. Qui si prescinde dalla vexata questio circa la legittimità dell'interesse della chiesa per i problemi sociali e civili(1). Ciò che si vuole costatare è soltanto questo semplice fatto: la chiesa romana si concepisce come un'istituzione "integrale", cioè sia religiosa che politica. Essa, anzi, e nell'enciclica questo è abbastanza evidente, gioca il suo futuro e tutta la sua credibilità sul modo come riuscirà ad affrontare e risolvere (ovviamente non da sola) i grandi problemi sociali dell'uomo contemporaneo (che giustamente vengono considerati "universali"). Da questo punto di vista la Sollicitudo rei socialis non riprende soltanto i temi della Populorum progressio di Paolo VI, ma anche quelli della Rerum novarum di Leone XIII, con una differenza però: che mentre Leone XIII cercava di recuperare, a livello nazionale ed euroccidentale, il consenso perduto fra le masse operaie, Wojtyla cerca invece di recuperarlo a livello mondiale, mirando altresì a non perdere quello delle masse contadine.

Non si scorge però nella Sollicitudo la fiducia nella futura affermazione della "terza via". Al contrario, a dominare sono le analisi critico-negative, i toni pessimistici. In luogo della serenità di giudizio e dell'equilibrio etico-morale, tendono a prevalere attese messianiche di tipo millenaristico: "Questo periodo di tempo - dice Wojtyla - è caratterizzato, alla vigilia del terzo millennio cristiano, da una diffusa attesa, quasi di un nuovo 'avvento' ... " (1,4). Questo "sospiro della creatura oppressa", in attesa del terzo millennio, sembra essere vissuto nella consapevolezza che il nuovo "avvento" potrà emergere o subentrare solo dopo una catastrofe apocalittica a livello mondiale, in cui si trovino coinvolti i due principali nemici della chiesa cattolica: il capitalismo e il socialismo. Dei due naturalmente Wojtyla ritiene che il più pericoloso sia il secondo, in quanto, a suo giudizio, intrinsecamente malato, impossibilitato a guarirsi.

La "terza via" infatti si differenzia dalla "prima" più sul piano etico-sociale (o sovrastrutturale) che su quello economico. A livello economico, come noto, essa prevede un regime misto favorevole al capitalismo e alla proprietà privata, mentre a livello sociale prevede forme organizzative e gestionali connesse al volontariato, all'assistenza, al solidarismo corporativo (da estendersi anche ai rapporti internazionali fra paesi sviluppati ed emergenti). Sul piano etico-politico il cattolicesimo-romano si distingue dal liberalismo come il feudalesimo dalla società borghese: di qui l'esigenza di uno Stato confessionale, di una chiesa garante del rispetto di tutti i diritti umani, di una legislazione subordinata al nulla osta clericale, ecc.

Naturalmente la "terza via" proposta da questa chiesa, nel mare di "terze vie" esistenti oggi nel mondo e che hanno maggiori possibilità di successo in quanto più laico-umanistiche, è in assoluto la peggiore, paragonabile forse alla "terza via" dell'economia islamica, che pretende d'essere alternativa ai due sistemi mondiali solo perché predica l'interdizione dell'usura, la tassa obbligatoria che i ricchi devono pagare ai poveri e la successione ereditaria non secondo la volontà del defunto ma per diritto di primogenitura. Ed è la peggiore non tanto sul versante dell'analisi critica dei problemi, e neanche su quello delle proposte risolutive (sebbene queste lascino molto a desiderare), quanto piuttosto su quello dell'obiettivo finale, che, stando alla suddetta enciclica, dovrebbe concernere la possibilità di costituire una sorta di "Onu cattolico-clericale", a garanzia, sul piano mondiale, della tutela di ogni diritto umano.

Il progetto pare molto ambizioso e viene istintivo chiedersi su quali forze la chiesa romana vorrà appoggiarsi per poterlo realizzare. Ebbene, la risposta è lo stesso pontefice che la fornisce: sul Terzo mondo. Lo si comprende dal fatto che nell'enciclica è notevolmente aumentato l'interesse per le sorti di questa parte dell'umanità. Probabilmente negli ambienti ecclesiastici ci si è accorti che la dottrina sociale della chiesa, ovvero l'ideologia della "terza via", può qui trovare maggiori adesioni e consensi essendo il capitalismo presente nelle forme più aberranti e quindi più facilmente contestabili, mentre il socialismo non si è ancora realizzato. In questo senso, nei confronti delle posizioni teorico-pratiche dei teologi della liberazione sembra si sia assunto un atteggiamento più cauto e riflessivo (anche da parte di Ratzinger). D'altra parte la chiesa romana non può permettersi il lusso d'inimicarsi i milioni e milioni di cattolici che lottano contro l'imperialismo occidentale in questa immensa area geografica.

Non bisogna tuttavia lasciarsi trarre in inganno. L'accentuato interesse per i paesi in via di sviluppo fa da pendant a una vecchia analisi dei rapporti internazionali tra questi paesi e il sistema socialista mondiale. Con molta nettezza, infatti, il pontefice sostiene che anche il socialismo reale, con la sua "sete di potere", con la sua "politica dei blocchi", con le sue "aspirazioni imperialistiche", è responsabile, al pari del capitalismo (se non di più) dell'attuale stato di arretratezza e di sottosviluppo dei paesi del Terzo mondo. "Ognuno dei due blocchi - afferma Wojtyla - nasconde dentro di sé, a suo modo, la tendenza all'imperialismo... o a forme di neocolonialismo" (III,22). Se qualcuno dei paesi terzomondisti, emancipandosi dal neocolonialismo capitalistico, abbraccia quello socialista, è sempre perché - a giudizio di Wojtyla - vi è stato costretto dallo stesso socialismo, il quale, proprio per questo, è "peggiore" del capitalismo.

E' singolare, sotto tale aspetto, quanto sia scarsa la considerazione in cui Wojtyla tiene i movimenti di liberazione nazionale, i movimenti progressisti e democratici che vogliono fuoriuscire dal giogo dell'imperialismo capitalista. Egli è fermamente convinto che ogni movimento di liberazione, nazionale o popolare, per l'indipendenza politica o per il socialismo, sia completamente manovrato dall'esterno e quindi del tutto incapace di decidere da sé i propri orientamenti politici di liberazione. Questo grave pregiudizio lo si scorge anche laddove il pontefice prende le difese del Movimento non allineato (III,21). Egli infatti precisa, a conferma dei limiti della sua "terza via", che l'accettazione di tale movimento è relativa solo a "ciò che ne forma la parte positiva", ossia, detto fuor di metafora, solo a ciò chiaramente interpretabile in chiave anticomunista.

E' interessante notare il fatto che Wojtyla, pur mettendo capitalismo e socialismo sullo stesso piano, non usa mai categorie socialiste per criticare il capitalismo, mentre fa volentieri il contrario. Il capitalismo, quando viene criticato, lo è sempre e solo da un punto di vista etico, non economico. Si condanna il consumismo e la "brama del profitto", ma il diritto alla proprietà privata viene riconosciuto come "valido e necessario" (le sottolineature non sono mie, VI,42). Viceversa, il cap. III,15 contiene una durissima filippica contro i paesi est-europei, accusati di soffocare il "diritto di iniziativa economica" in nome di una pretesa "eguaglianza generale". A Wojtyla non basta che con il nuovo corso della segreteria di Gorbaciov si sia favorito lo "spirito d'iniziativa" e la "soggettività creativa del cittadino": egli vuole anche la reintroduzione della proprietà privata a tutti i livelli. Cioè non gli pare sufficiente l'appoggio agli attuali sforzi di democratizzazione del socialismo, egli vuole anche che tali sforzi conducano alla fine del socialismo.

Wojtyla sembra aver compreso perfettamente che la vera partita fra capitalismo e socialismo viene giocata sul terreno della proprietà, la quale nel socialismo è prevalentemente statale (pur con la possibilità ora di realizzare forti guadagni personali) e nel capitalismo è prevalentemente privata. Egli non vuole però assolutamente ammettere che la fonte principale di tutte le contraddizioni sociali, economiche e politiche sia la proprietà privata dei fondamentali mezzi di produzione, e meno che mai vuole accettare l'insegnamento storico secondo cui per socializzare tale proprietà occorra la forza di una rivoluzione, in quanto nessun proprietario, di regola, si lascia espropriare senza reagire. Wojtyla fa anzi chiaramente capire che al "livellamento in basso", registratosi in questi ultimi tempi nell'area socialista, preferisce sempre e comunque le assurde sperequazioni del mondo capitalistico, ove un pugno di famiglie ricchissime vivono alle spalle di milioni di lavoratori, presenti non solo nelle aree metropolitane ma anche e soprattutto in quelle neocoloniali.

Wojtyla paragona il socialismo a un capitalismo burocratico di Stato, riprendendo una tesi cara all'ex sindacato Solidarnosc. Ciò facendo non si rende conto che tale definizione viene invece riferita dal marxismo proprio a molti di quei paesi sudamericani che si vorrebbero elevare a protagonisti storici della conclamata "terza via". Non è certo questa la sede per spiegare la ragione per cui quei paesi vengono così classificati. Qui si può soltanto evidenziare che per questo pontefice la proprietà pubblica dei mezzi produttivi è considerata come la fonte di tutti i mali. Essa, a suo giudizio, mette tutti in una posizione di assoluta dipendenza, al pari di quella tradizionale vissuta dal proletariato nei confronti del capitalista, per cui non esiste una differenza sostanziale fra proprietà pubblica e privata. Anzi, guardando le cose più da vicino - sostiene il pontefice - alla fine il capitalismo costituisce un "male minore", poiché nel regime comunista non solo vengono negate le fondamentali libertà giuridiche e politiche dell'individuo, ma anche i pretesi successi sul piano socio-economico risultano del tutto effimeri: non c'è disoccupazione, è vero, ma c'è sottoccupazione, c'è poi la crisi degli alloggi, l'inefficienza, il burocratismo, le spese militari astronomiche...

Cosa obiettare a queste accuse? Semplicemente un fatto: la storia ha dimostrato che la valorizzazione della proprietà pubblica (quella produttiva, non solo quella improduttiva) è conseguente alle contraddizioni irriducibili, perché antagonistiche, dei regimi basati sulla proprietà privata. E' vero che la proprietà pubblica di per sé non fa il socialismo, ma è anche vero che la proprietà privata non può mai fare la democrazia. Detto altrimenti: se nel socialismo, con la volontà delle masse, si può sviluppare la democrazia a tutti i livelli, in profondità e in estensione, nel capitalismo invece ogni conquista democratica rischia di diventare col tempo assolutamente formale, rischia addirittura di capovolgersi nel suo contrario se le lotte sostenute per accrescere la democrazia non conducono all'instaurazione del socialismo. Ecco perché si può dire che, a parità di successi o di sconfitte, il socialismo è sempre migliore del capitalismo. 

E' vero, l'Urss ha prodotto lo stalinismo; eppure nonostante lo stalinismo l'est europeo è riuscito a fermare il nazi-fascismo e il militarismo giapponese, cosa che l'occidente evoluto e "democratico" non ha saputo fare. Che ne sarebbe oggi dell'umanità se il socialismo avesse perso la seconda guerra mondiale? Esisterebbe l'indipendenza politica di molti paesi del Terzo mondo, ottenuta nell'ultimo mezzo secolo? E che senso ha paragonare il livello di benessere di un paese socialista con quello di un paese capitalismo, quando solo il capitalismo può disporre di un'area neocoloniale da sfruttare economicamente?

Pensando poi alla sua Polonia - pur senza mai nominarla - Wojtyla afferma che "spesso una Nazione viene privata della sua sovranità". Cioè a dire, la Polonia, come molte nazioni socialiste d'Europa, altro non sarebbe che un "satellite" dell'Urss. Come se i paesi capitalisti dell'Europa occidentale e lo stesso Giappone non siano dei satelliti economici degli Stati Uniti! La presenza di basi militari straniere (come ad es. quella della Nato) anche in un paese "libero" come il nostro, rappresenta forse un segno di vera autonomia e indipendenza nazionale?

Con questo naturalmente non si pretende, da parte di questo papa, una lettura più obiettiva della storia e della politica del socialismo reale, ma, se si allude davvero a una vera "terza via", almeno un giudizio più critico nei confronti del capitalismo non sarebbe inopportuno. Sarebbe tuttavia uno sperare invano. Si può anzi leggere al cap. III,23 un'affermazione che non lascia dubbi sulle aspirazioni egemoniche che la chiesa romana nutre a livello mondiale e sulla disponibilità a collaborare, per poterle realizzare, con tutte quelle nazioni che vogliono battersi contro il comunismo. Wojtyla infatti sostiene, con un giro di frase un po' sibillino, che esistono a tutt'oggi delle nazioni che sotto l'aspetto storico, economico e politico "hanno la possibilità di svolgere un ruolo di guida"(?) in favore dei popoli terzomondìsti: un ruolo che ovviamente si giustifica solo in funzione del "bene comune". 

In pratica Wojtyla afferma che se a causa della contrapposizione dei blocchi fra est e ovest, una nazione che potrebbe avere un ruolo di guida in favore dello sviluppo del terzo mondo, non riesce ad averlo, benché lo possa obiettivamente avere in quanto si dimostra superiore (il riferimento è forse agli Usa?), ebbene essa non può rinunciare a tale ruolo limitandosi a coltivare i suoi interessi personali, egoistici, nell'ambito della suddetta contrapposizione: essa invece deve chiedere l'appoggio esplicito di quella chiesa che sa intravedere "le disposizioni della divina Provvidenza, che è pronta a servirsi delle Nazioni per la realizzazione dei suoi progetti"(sic!).

Come definire un discorso del genere? Una provocazione? Un avvertimento? Una sollecitazione? Una dichiarazione di guerra? 0 che altro? Quando un pontefice afferma che "Ia presente divisione del mondo è di diretto ostacolo alla vera trasformazione delle condizioni di sottosviluppo nei paesi in via di sviluppo e in quelli meno avanzati" (III,22), bisogna pensare ch'egli voglia criticare il capitalismo o rivedere gli accordi di Yalta e di Potsdam? C'è davvero bisogno di aspettare la fine della contrapposizione dei blocchi per migliorare i rapporti economici col Terzo mondo, oppure si vogliono scaricare su tale contrapposizione i motivi della non volontà del capitalismo di realizzare un nuovo ordine economico internazionale conforme agli interessi del Terzo mondo? Come mai allora le potenze occidentali sono così ostili al disarmo nucleare e alle proposte sovietiche di smantellare Nato e Patto di Varsavia o di ridurne comunque gli effettivi? Il fatto purtroppo è questo, che è difficile restare equidistanti quando i tempi ci costringono ogni giorno di più a fare delle scelte di campo. L'equidistanza, il neutralismo, la "terza via" possono andar bene nei momenti d'incertezza o di riflusso, ma nei momenti decisivi si rivelano per quello che sono: un'ipocrisia.

Come interpretare altrimenti frasi di questo genere: "nessun gruppo sociale, per esempio un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica"? Ciò forse significa che tutte le nazioni ove a guida del paese vi è un partito unico sono totalitarie? E che, per converso, quelle ove a guida del paese (o nel sistema politico) vi sono almeno due partiti, sono senz'altro democratiche? Si può ragionare nel XX secolo in termini così rozzi e schematici? Anche ammesso e non concesso che la presenza di un partito unico a guida di una nazione sia il frutto non di un processo storico-oggettivo ma di un abuso di potere, forse per questo, "solo per questo", ci si deve arrogare il diritto, dall'esterno, di sostenere che quella società è anti-democratica e che il governo va cambiato? Non è singolare che, proprio mentre si accusa l'Urss di egemonizzare gli altri stati socialisti, si compia, con la più totale mancanza di sensibilità diplomatica, un'indebita ingerenza nei suoi affari interni, fomentando l'odio per questo paese e quasi chiedendo che ci si coalizzi contro? 

Parimenti, quando Wojtyla contesta i paesi socialisti sul piano della libertà religiosa e sul diritto di partecipare alla costruzione della società, cioè sul diritto di associarsi, di costituire sindacati o di prendere iniziative in materia economica, guardandosi bene dall'aggiungere che tutto ciò non dovrebbe essere fatto pensando di ribaltare il governo al potere, cosa bisogna pensare? Semplicemente che tutta questa campagna per i diritti umani lanciata da Wojtyla altro non è che un'arma ideologica usata per scopi eversivi e destabilizzanti. Questo lo si deduce anche dal fatto che nei riguardi del mancato rispetto dei diritti umani da parte dei governi occidentali, l'enciclica non dice assolutamente una parola. L'occidente viene criticato per la ricerca smodata del profitto, non per la violazione dei diritti umani: come se le due cose fossero naturalmente compatibili!

L'unico positivo ma fugace apprezzamento per le imponenti novità della perestrojka gorbacioviana lo si può cogliere al cap. III,22, laddove Wojtyla afferma che "gli stessi bisogni di un'economia soffocata dalle spese militari, come dal burocratismo e dall'intrinseca inefficienza, sembrano adesso favorire dei processi che potrebbero rendere meno rigida la contrapposizione dei blocchi". Il che, in altre parole, significa che se nel mondo aumenterà la pace sarà perché il socialismo avrà saputo avvicinarsi al capitalismo. A tre anni dallo storico Plenum dell'aprile 1985, questo è il maximum che l'enciclica possa concedere. Il fatto è che se queste cose fossero state scritte ai tempi della distensione fra Carter e Breznev, quando si poteva parlar male dei socialismo senza per questo essere considerati dei "falchi", avrebbero avuto un loro peso. Oggi invece ne hanno un altro: fare affermazioni del genere in un momento come questo, quando le molteplici iniziative di Gorbaciov e del suo staff hanno ridato fiducia al mondo intero, significa mettersi inevitabilmente dalla parte delle forze più retrive del capitalismo.

Di rilievo in questa enciclica resta il fatto che la chiesa romana, non volendo rinunciare a porsi come forza politica mondiale e, temendo, nel contempo, di non essere abbastanza autorevole, si sente sempre più costretta a usare un linguaggio estraneo alla tradizione ecclesiale. Pur avendo come ideologia di fondo l'integralismo religioso, questa chiesa, a causa dei tempi in cui viviamo e dei problemi che si devono risolvere, deve per forza di cose usare un linguaggio laico-umanistico, senza alcun riferimento ai consueti temi religiosi (che vengono affrontati in sezioni separate): un linguaggio che, essendo somigliante alla cosiddetta "terza via" che s'incontra nel mondo laico, si potrebbe attribuire a qualunque forza politica di tipo socialdemocratico.

(1) Se una società civile funziona che senso ha l'intromissione della chiesa nelle questioni sociali? Se tale società non funziona potrà mai funzionare diventando religiosa? Se avesse funzionato quand'era religiosa, sarebbe mai nata una società civile? Per quale ragione un cittadino credente non può impegnarsi solo come cittadino per far funzionare la società civile? Per quale ragione se tale società non funziona egli deve presentare delle proposte come credente? Esisterebbero queste domande se una chiesa non avesse l'ambizione di porsi anche in maniera politica all'interno della società civile? Ma una chiesa che si vuol porre anche in maniera politica in che modo si differenzia da una chiesa teocratico-medievale?

Wojtyla-Ratzinger