Inferno: Canto VI, L'INCONTRO DI DANTE CON CIACCO

Inferno: Canto VI

[...]

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante.

«O tu che se' per questo 'nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».

E io a lui: «L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai.

Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente
loco se' messo e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».

Ed elli a me: «La tua città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.

Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno

li cittadin de la città partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita».

E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti.

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi».

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni,
e che di più parlar mi facci dono.

Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,

dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia, o lo 'nferno li attosca».

E quelli: «Ei son tra l'anime più nere:
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco, e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.

E 'l duca disse a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba».

Sì trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;

per ch'io dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann'ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».

Ed elli a me: «Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.

Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:

quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

[...]

Camminavamo sopra le ombre fiaccate
da una pioggia incessante,
come fossero veri corpi umani.

Tutte le anime stavano per terra,
eccetto una, che si alzò in piedi,
appena ci vide passare davanti.

"O tu che cammini in questo inferno
- mi disse - sei capace di riconoscermi?
Tu nascesti prima ch'io morissi".

Gli risposti: "Mi pari così sfigurato
nella tua angoscia, che non riesco
a ricordare nulla di te.

Ma di' pure chi sei e perché ti trovi
in un luogo che, pur non il peggiore,
è certamente il più disgustoso".

E lui a me: "La tua Firenze,
che su tutte eccelle per l'invidia,
mi fece vivere una vita serena.

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco,
e ora mi trovo qui sotto la pioggia
per la dannata colpa della gola.

E in questa triste condizione
non sono solo io, ma tutti
quelli che vedi qui". E poi tacque.

Io gli risposi: "Ciacco, il tuo dolore
mi rattrista alquanto,
ma dimmi se sai quando finiranno

le contese che dividono la città
e se vi è qualche persona giusta
e il motivo per cui s'è ridotta così".

E quello riprese: "Dopo tanto parlare
verranno al sangue e la parte estremista
caccerà l'altra con molto danno.

Poi sarà quest'ultima, dopo tre anni,
a cadere, poiché l'altra avrà chiesto
aiuto a un principe ipocrita.

Ed essa si farà superba, tenendo
gli avversari duramente sottomessi,
che ne soffriranno moltissimo.

I pochissimi giusti non s'intendono;
superbia, invidia e avarizia
son la fonte di tutti i loro guai".

Qui Ciacco pose fine ai suoi lamenti.
Ma io a lui: "Ancora di una cosa
ti prego d'aver grazia di farmi dono.

Farinata e il Tegghiaio, degne persone,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e il Mosca
e altri ancora dediti al bene comune,

dimmi dove posso incontrarli:
mi preme molto sapere
se sono in cielo o quaggiù".

E quello: "Son tra le anime più nere;
colpe diverse li fanno stare ancora più giù:
se scendi li potrai incontrare.

Piuttosto quando tornerai tra i vivi,
ricorda a costoro il mio nome.
Ora lasciami che non ti dirò altro".

E cominciò a guardarmi biecamente,
finché dopo un po' chinò la testa
e di nuovo s'infangò tra i suoi compagni.

Al che Virgilio disse: "Non si rialzerà più
fino al suono dell'angelica tromba,
quando verrà il giudice a giudicare;

ciascuno ritroverà la sua triste tomba,
riprenderà la sua carne e le sue fattezze,
udrà la sentenza in eterno".

E così, ragionando della vita futura,
attraversammo quella sudicia mistura
di ombre e di pioggia, a passi lenti.

Poi chiesi: "Maestro, questi tormenti,
quando verrà il giudizio, cresceranno,
diminuiranno o saranno uguali?".

E lui: "Ascolta la tua scienza,
secondo cui quanto più si è perfetti
tanto più s'avverte il bene e il male.

E sebbene questa gente malvagia
mai potrà essere perfetta,
soffrirà comunque più dopo il giudizio".

Girando in tondo quella strada,
continuavamo a dirci molte cose,
finché giungemmo al punto ove si scende,

e lì trovammo il gran nemico Pluto.


L'INCONTRO CON CIACCO

Nel suo Inferno, che è una Cantica politica per eccellenza, quanto più Dante si dimostra umano, tanto meno è cattolico (in maniera evidentissima p.es. nell'incontro con Paolo e Francesca), mentre quanto più si dimostra cattolico (e in particolare "politico cattolico") tanto meno è umano (specie se la persona incontrata apparteneva alla sua Firenze, come è appunto il caso di Ciacco, che qui prenderemo in esame). Se non si accetta questo presupposto ermeneutico, assolutamente preliminare a una qualunque indagine critica della Divina Commedia, si rischia di vedere in Dante più l'artista che il politico e di assumere quindi quell'atteggiamento di benevolenza, proprio in nome del suo genio letterario, che impedisce di farsi un quadro obiettivo delle cose.

Tra i due aspetti della personalità di Dante è evidente che quello cattolico è esplicito, mentre quello umano resta implicito, nascosto. Ma questo non significa che quello esplicito vada anche considerato prevalente. E' prevalente solo in apparenza, ma il critico compirebbe un errore madornale se pensasse che Dante voleva essere interpretato più come cattolico che come uomo. La maschera del buon cattolico lui fu costretto a mettersela proprio perché gliela imponevano i tempi.

Non dobbiamo infatti dimenticare che Dante non ha mai voluto essere un politico anti-istituzionale, come p.es. Arnaldo da Brescia, né un eretico laicista come p.es. Marsilio da Padova, ma, al contrario, ha sempre voluto essere (e avrebbe voluto continuare a esserlo anche dopo l'esilio) un politico cattolico delle istituzioni dominanti, ch'egli voleva cercare di democratizzare all'interno di una repubblica borghese, culturalmente affine alla teologia scolastica. I riferimenti espliciti all'ideologia cattolico-romana non dobbiamo però prenderli come forme di ossequio devozionale a una dottrina ritenuta insuperabile, ma semplicemente come un prezzo da pagare per il proprio quieto vivere.

Al tempo di Dante Firenze era già divenuta troppo "borghese" per poter credere ancora nella Scolastica, nel papato, nella teocrazia con la stessa ingenuità e buona fede di due secoli prima, quando con la riforma gregoriana si pensava che quello fosse l'unico modo per opporsi alla corruzione del clero. Al tempo di Dante la corruzione del clero veniva data per scontata, cioè assolutamente irrisolvibile, irriformabile, al punto che la borghesia ne approfittava per comportarsi anche peggio. L'esempio di un san Francesco andava ritenuto eccezionale. Quindi in una situazione del genere una qualunque professione di fede, una qualunque manifestazione di religiosità facilmente passava per un atto dovuto o veniva considerata un'azione quanto meno formale, imposta dalle circostanze. I politici fiorentini che Dante mette all'Inferno erano tutti dichiaratamente "cattolici".

* * *

Se c'è una cosa sproporzionata nel Canto VI è la pena in rapporto alla colpa, al punto che vien da pensare che l'ingordigia sia in realtà una metafora di qualcosa di più importante del semplice eccesso di cibo trangugiato. Da un punto di vista cattolico, infatti, il duplice tradimento (in quanto entrambi sposati) di Paolo e Francesca avrebbe dovuto essere considerato di gran lunga più grave dell'ingordigia di Ciacco, eppure quest'ultimo soffre infinitamente di più, anche perché non è neppure padrone della propria identità, che viene continuamente martoriata e smembrata dal Cerbero mostro.

E' vero che Dante a volte cerca di dimostrare l'assurda durezza della concezione cattolica dell'inferno, mettendo in evidenza il lato umano dei personaggi incontrati, ma è anche vero che nei confronti di Ciacco questa preoccupazione resta alquanto sfumata, probabilmente a motivo del fatto che Ciacco, seppur non risultasse particolarmente sgradito a certa mentalità borghese, nondimeno costituiva un pessimo esempio per la coscienza morale del buon cattolico.

I primi 33 versi son tutti dedicati al mostro Cerbero e a descrivere una situazione che Dante considera la più disgustosa di tutte. Cerbero, ovvero il peccato di gola impersonificato, sembra un autentico flagello dell'umanità. Evidentemente Dante non aveva qui intenzione di condannare il semplice peccato d'ingordigia (altrimenti, usando torture così abominevoli, sarebbe parso ridicolo, anzi disumano), ma quel che esso rappresentava: una classe sociale che non voleva farsi mancare alcun piacere, la borghesia gaudente, cui non erano estranei né i Bianchi né i Neri del partito guelfo.

La "gola" è il peccato del piacere fisico, biologico, sensuale (anche se non necessariamente a sfondo sessuale), di una categoria agiata di persone che fa dell'egoismo, o meglio dell'egocentrismo, la propria condotta di vita.

Ciacco, nomignolo che voleva dire "porco" (lui dice che così lo chiamavano i fiorentini), secondo i commentatori di Dante era o un banchiere o un uomo di corte. Certamente dalle cose che sa di Firenze non appare uno sprovveduto o un estraneo ai giochi di potere. Egli mostra di conoscere Dante molto bene, e siccome qui viene presentato come anima che avverte il bisogno di parlare con lui e di essere da lui riconosciuto, è da presumere che lo conoscesse come persona dabbene, saggia, con cui non era stato in lite.

Doveva aver conosciuto Dante quando costui, a Firenze, non era ancora nel pieno delle sue funzioni politico-amministrative, poiché egli non ne parla (secondo alcuni commentatori Ciacco sarebbe morto intorno al 1286, quando Dante era appena ventenne). Dante però dice di non riconoscerlo. Ciacco dunque non era stato un uomo politico, ma uno che in qualche modo poteva osservare la gestione di quel potere da un punto di vista privilegiato, senza esservi coinvolto più del necessario.

Difficilmente un politico come Dante avrebbe potuto mettere all'Inferno, dedicandogli quasi per intero un Canto, uno che avesse avuto semplicemente il peccato dell'ingordigia. E' dunque strano che qui dica di non riconoscerlo, anche perché conosce bene il suo nomignolo e il suo vizio capitale. Bisogna quindi fare delle supposizioni: o Ciacco non era esattamente contemporaneo di Dante ("tu nascesti prima che io morissi" va inteso nel senso che Ciacco morì poco prima che Dante nascesse o che Ciacco uscì di scena poco prima che Dante prendesse il potere), oppure Dante ha voluto far capire che con lui, pur essendogli contemporaneo, non aveva mai avuto nulla a che fare (personalmente) e che il trattamento che gli aveva riservato in questo cerchio era in rapporto alla semplice conoscenza di fama, per sentito dire, che aveva di lui.

Dante cioè non può aver detto di non riconoscerlo semplicemente per mostrare al lettore, in maniera accentuata, la deformazione dei volti, degli sguardi, tipica di quel cerchio: in tal caso avrebbe scelto un espediente tecnico di scarso rilievo. In realtà Ciacco doveva essere abbastanza noto in certi ambienti borghesi della città, anche perché mostra di sapere molte cose di Firenze. E se Dante pare qui vergognarsi di riconoscerlo, Ciacco invece non mostra particolari problemi a mettersi in mostra, anzi ci tiene a essere ricordato per quello che era stato e alla fine chiederà a Dante di ricordarlo tra i vivi quando tornerà sulla Terra (che è poi un controsenso rispetto al fatto che Dante era in esilio).

Ma su questo c'è dell'altro. Dante può anche aver voluto mostrare al lettore che quando era priore non si abbassava a conoscere persone del genere. Forse temeva di essere accusato di qualcosa. Come quando oggi i politici dicono di non aver mai frequentato, in nessuna occasione, questo o qual mafioso. Doveva essere molto disdicevole, per un buon cattolico, frequentare soggetti come Ciacco, il quale però dice di essere in "buona compagnia", in quel cerchio, essendo tanti i fiorentini dediti alle gozzoviglie, ai piaceri della carne. Anzi, dice di più, dice che la Firenze di Dante ha una colpa più grave dell'ingordigia, ed è l'invidia.

Dante comunque non si sofferma a parlare con lui del motivo che lo ha spinto in quel luogo: è argomento che non lo interessa minimamente. Anzi, in un certo senso, invitandolo a parlare di politica, cerca di nobilitarne la figura, che infatti si dimostrerà in grado di rispondere a ogni domanda. Per un momento sembra addirittura che Dante abbia pietà di lui. Infatti, vedendolo ammutolirsi, dopo essersi identificato, egli lo invita a parlare, mostrandosi rattristato per la sua condizione. Non è una tattica per sapere qualcosa di più della sua città, ma commozione sincera, in contrasto con la pena che in quanto cattolico gli ha dovuto riservare. Dante tuttavia non gli chiede nulla della sua situazione personale pregressa, cioè continua a non essere interessato a lui come persona ma a lui come portavoce, come intermediario tra sé e la sua Firenze.

In particolare Dante vuole sapere tre cose: 1. il motivo per cui Firenze è precipitata nell'anarchia e nella guerra fratricida; 2. quando finiranno le sue discordie; 3. se esistono persone giuste che non si sono lasciate coinvolgere in quel massacro incomprensibile.

Le risposte, articolate, di Ciacco non si fanno attendere. Qui vengono presentate come profezie risalenti al 1300 e che non vanno oltre il 1302, sicché alcuni commentatori hanno arguito che almeno i primi sette Canti dell'Inferno, sulla scia del parere del Boccaccio, siano stati scritti all'interno di Firenze o comunque prima dell'esilio. Ma la cosa è alquanto dubbia. In realtà quando Ciacco dice che i Neri terranno "lungo tempo le fronti"(v. 70), pur senza citare né la morte di Corso Donati (1308) né la discesa di Arrigo VII (1310), potrebbe riferirsi quanto meno al 1307, che è data più compatibile con la stesura dei primi sette Canti dell'Inferno.

Inoltre le risposte ch'egli dà alle domande di Dante sono tutte senza via d'uscita, come non avrebbe certo potuto essere se avessero avuto come anni di riferimento il 1300-1302: 1. superbia, invidia e avarizia hanno fatto piombare Firenze nell'anarchia; 2. i Neri non si riconcilieranno più coi Bianchi, almeno non a tempi brevi; 3. non ci sarà nessuno in grado di risolvere in maniera equa e pacifica le controversie in atto.

Ciacco non si schiera con nessuno, sembra guardare le cose più da intellettuale che da politico, e non fa neppure alcuna autocritica, in quanto non si sente responsabile dei mali della sua Firenze. Rimpiange soltanto i tempi in cui la sua vita era "serena"(v. 51), come quella di gaudente esteta. Al massimo è possibile ravvisare una sua esplicita riprovazione nei confronti della decisione che la "parte selvaggia" (rustica, proveniente dal contado) del partito dei Bianchi prenderà di esiliare i capi del partito dei Neri, "con molta offensione"(v. 66). Quest'ultimi infatti reagiranno chiamando in causa papa Bonifacio VIII, che si servirà delle armi di Carlo di Valois per imporsi.

Se diamo per buona l'ipotesi che Ciacco sia morto intorno al 1286, dobbiamo dire che non era nelle corde di Dante, che pur gli aveva permesso di fare una sorta di profezia sulla tragedia della sua città, l'intenzione di rivalutare questo personaggio della Firenze gaudente. Semmai egli ha voluto rievocare, attraverso la testimonianza di quello, i tempi in cui la vita politica urbana non era ancora lacerata da furibonde e sanguinose lotte intestine (quelle lotte che poi porteranno al famoso tumulto dei Ciompi del 1378-82).

Impressionante resta comunque la dichiarazione che Ciacco fa sul numero di "giusti" presenti a Firenze: "due", di cui uno, è da presumere, sia lo stesso Dante (v. 73). Questi cerca di farsi dire da Ciacco i nomi delle persone "giuste" e anzi prova a suggerirgliene alcuni, ma quello risponde che le persone ricordate da Dante si trovano tutte all'inferno, in condizioni peggiori della sua, tra gli eresiarchi, i sodomiti e i seminatori di discordie.

Insomma per Ciacco (ma qui ovviamente è Dante stesso che parla e che qui fa la parte del finto ingenuo, che si diverte a mettere alla berlina una "patria" che gli appare perduta per sempre) non è possibile salvare, a Firenze, alcun uomo di potere. In un certo senso Dante vuol far vedere che lui, quando comandava, era disponibile a compromessi onorevoli con gli avversari politici, non gli si diede modo di dimostrarlo. Le persone che cita vengono usate come allegoria di "nemici", anche se nella realtà non poterono esserlo, essendo Dante ancora troppo giovane.

Stranissima la richiesta, da parte di Ciacco, di voler essere ricordato da Dante ai fiorentini quando questi tornerà in superficie: anche da ciò si ha l'impressione che quell'anima fosse incredibilmente egocentrica. Infatti che cosa mai avrebbe dovuto raccontare, avendolo trovato nel ripugnante girone dei golosi? E qual era l'aspetto positivo di un ingordo che meritava di restare nella memoria dei suoi compaesani? E come avrebbe potuto raccontare qualcosa a una popolazione ch'egli non avrebbe più rivisto?

Dante è in realtà costretto a questo espediente, in quanto deve dimostrare che la pena era giusta. E non lo fa solo in questo modo, cioè non permettendo a Ciacco di rendersi conto della gravità della sua colpa (ché, in caso contrario, non si spiegherebbe la mancanza del pentimento), ma anche nel presentarcelo, una volta finita la conversazione, come un personaggio che nel suo intimo era torvo, poiché, dopo aver guardato Dante con "li diritti occhi", si mise a osservarlo in maniera "bieca"(v. 91). Il poeta ha insomma voluto mostrare una certa differenza tra apparenza e sostanza.

Virgilio poi, agendo come un teologo di professione, confermerà la necessità di condannare individui di tal fatta. Dante fa dire a Virgilio cose in cui lui stesso non crede, proprio in quanto gli sembrano assolutamente esagerate (non a caso evita sempre d'essere lui a spiegarle alla sua guida pagana). Anche perché dalle parole di Ciacco non si era avvertita quella particolare malvagità da rendere necessaria, dopo la resurrezione della carne, promessa nel giudizio universale, una pena ancora maggiore di quella già enorme cui egli era stato sottoposto (il peccato d'ingordigia Dante lo considerava a livello di colpa istintiva).

Ci si può chiedere infatti che senso abbia in questo Canto lamentarsi delle discordie politiche cittadine quando una concezione così terribile dell'aldilà sembrava fatta apposta per favorirle. Che bisogno aveva Dante di chiedere a Virgilio che destino avrebbe avuto Ciacco alla fine dei tempi? Non era già abbastanza quello che stava soffrendo? Aveva forse detto qualcosa da indispettire la sensibilità del poeta o del politico fiorentino? E' quindi evidente che facendo dire a Virgilio quelle cose, Dante, con un giro un po' tortuoso, in verità, ha soltanto voluto mostrare che la teologia Scolastica, su questo argomento, aveva assai poco di "umano".

Scheda su Dante Alighieri - De Vulgari Eloquentia - Dante e Ulisse - Paolo e Francesca - I papi simoniaci - Casella - Selva oscura - Canto II Inferno - Ignavi - Avari e prodighi - Filippo Argenti - Farinata - Vita Nuova


Fonti

Opere di Dante Alighieri

La critica

SitiWeb


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019