ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Arte medievale

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Arnolfo di Cambio, Ritratto di Carlo I d’Angiò, Musei Capitolini, Roma
Nicola Pisano e aiuti, Arca di S. Domenico, Basilica di S. Domenico di Bologna

Dario Lodi

Le due opere sono degli stessi anni, 1277 (?) contro 1267. La seconda subì aggiunte nel tempo, come accenneremo. Entrambe le sculture fanno parte di un nutrito programma iconografico a favore della Chiesa cristiana o di committenze opposte a essa, queste ultime molto più contenute, a dimostrazione dell’enorme potere religioso nel Medioevo.

Le iconografie, interne ed esterne ai manufatti sacri, si erano rese necessarie per sostenere ed esaltare la fede. Esse andarono ad arricchire le Chiese gotiche (fuori d’Italia) e quelle romaniche (soprattutto italiane) ingentilite da personalizzazioni svincolate da ogni timore reverenziale verso l’istituzione religiosa. Le Chiese gotiche d’oltralpe (in Italia il gotico non attecchì) preferirono sculture apotropaiche (le gargolle, in italiano anche doccioni), testimoni delle paure esistenziali del tempo e degli slanci fiduciosi per superarle, mentre le Chiese italiane, sulla via degli abbellimenti rinascimentali, preferirono opere rimarcanti l’importanza della fede.

Arnolfo di Cambio (1240-1310) debuttò nella bottega di Nicola Pisano, collaborando con lui alla realizzazione dell’Arca di S. Domenico e del Pulpito del Duomo di Siena. Divenuto indipendente, si recò a lavorare a Roma al seguito di Carlo I d’Angiò: è questo il periodo ritenuto più felice della sua abilità artistica. Carlo I d’Angiò fu uno dei personaggi medievali più rappresentativi. Fu fratello di Luigi IX (il Santo) che lo fece Conte d’Angiò e del Maine, dando vita a un ramo dei Capetingi, gli Angioini. Il Conte assommò negli anni seguenti un numero impressionante di titoli, fra cui re di Sicilia, di Napoli e di Gerusalemme (egli aveva partecipato a due crociate).

Visse cinquantotto anni, sino al 1285. Al servizio della Chiesa, vinse Manfredi e Corradino, cacciando i ghibellini Svevi dall’Italia. Suo sogno era ricreare un Sacro Romano Impero autentico, garanzia, secondo lui, di potere assoluto in quanto benedetto dalla Chiesa, realtà spirituale e materiale imbattibile. Per il suo dispotismo subì la ribellione sfociata nei Vespri Siciliani. Dante si mostrò clemente: lo spedì nell’Antipurgatorio. La storia è incline ad assolverlo, nonostante le nefandezze: mitigabili, dati i tempi (un relativismo generoso, come è costume storico).

Nicola Pisano (1220?-1284?) fu probabilmente originario della Puglia e quindi tributario alla scultura classicheggiante in auge nella corte di Federico II di Svevia. Dal 1260 lo si vuole a Pisa, dove diede il meglio della sua attività artistica.

L’Arca in questione è di qualche anno più tardi. La realizzò con l’aiuto di Arnolfo di Cambio, di tali Lapo e Donato (citati dal Vasari e altrimenti sconosciuti), del converso domenicano Guglielmo da Pisa e forse dal figlio Giovanni, che più tardi sarà il suo maggior collaboratore (Giovanni, Nino, trovò anche una sua originalità d’espressione, pur nel solco del padre). L’opera in questione fu arricchita nel tempo da interventi. Si tratta di interventi di qualche pertinenza artistica, ma discutibili per quanto riguarda l’ispirazione iniziale.

Giusta la ricerca di una certa eleganza: ma in Giovanni Pisano essa non era fine a se stessa, bensì era concepita come tributaria all’importanza del personaggio, di cui si volevano evidenziare le gesta, senza per questo ricorrere a una coreografia leziosa, per quanto compresa, come avverrà più tardi con Niccolò dell’Arca, Alfonso Lombardi e altri. Fa eccezione un angelo realizzato da Michelangelo. Nel 1768 J.B. Boudard scolpì il bassorilievo con la morte di San Domenico, esibendo un buon lavoro di bottega (e forse non poteva essere altrimenti).

Di Nicola Pisano rimangono i miracoli di S. Domenico e gli eventi che lo caratterizzano: da segnalare come molto significativi la Prova del fuoco che brucia i libri degli albigesi, la resurrezione di un nobile, Napoleone Orsini, caduto da cavallo, i Santi Pietro e Paolo che gli trasmettono la Missione dell'Ordine (consegna della Bibbia e di un bastone con cui esercitare la predica), l’Approvazione dell'Ordine da parte di papa Innocenzo III.

L’Arca, datata 1267 (San Domenico di Guzman era morto a Bologna nel 1221) è la prova inconfutabile che l’ordine del Santo, e cioè l’ordine Domenicano, è diventato parte essenziale della Chiesa cristiana: darà alla stessa essenza evangelica con impegno straordinario e passione non disgiunta da ragione, ovviamente in un contesto metafisico fatto, alla fin fine, di spiritualità non poco forzata.

L’Arca di Nicola Pisano è l’espressione di un Medioevo maturo e consapevole della forza suggestiva emanata dalla fede. Entro questa visione, la pretesa gotica della sua opera appare minimizzarla. Il gotico, anche avanzato, è sempre legato a una certa emotività che impedisce prese di posizione e ostacola indugi nei ricami espressivi.

Nicola Pisano è sicuro di quello che sta facendo. La vicenda domenicana fa parte del suo modo di sentire, gli dà conferme circa la bontà della fiducia nella religione, nella trascendenza. Il gotico non osa esprimere fiducia, è “prigioniero” dell’estasi. Il nostro scultore dimostra invece di essere in possesso di un linguaggio più coraggioso e il suo “parlare” gli viene persino naturale.

L’Italia, che ha la capitale religiosa in casa, si pensa e si sente come appartenente alla divinità e non come spettatrice della stessa. Essa avverte anche il dovere di divulgare questa appartenenza e di sottolinearne le conseguenze morali evitando ricorsi totemici. L’esaltazione spirituale è nell’impegno artistico, agisce dall’interno e tutto ciò consente la realizzazione di opere efficaci in quanto adeguatamente ispirate. E’ come se fosse il pensiero divino a suggerire il comportamento esecutivo, a guidare la mano.

Il Carlo d’Angiò di Arnolfo di Cambio, forse il primo ritratto realistico di un personaggio vivente, è un imperatore romano vero e proprio. Ha corona e scettro, lo sguardo duro, diritto, l’espressione forte e decisa. Il personaggio è sicuro di sé. Sembra essere il padrone del mondo. Arnolfo è al suo servizio e lo celebra senza mezzi termini.

Il fatto che gli scolpisca anche delle rughe sul viso appare una simbologia che recita la consapevolezza di problematiche enormi da superare (Carlo le sta superando), considerando la bellicosità degli Svevi (Federico II è morto da poco, nel 1250 ma nulla lascia presagire una caduta rapida e definitiva della casata tedesca).

In gioco c’è la conduzione del Sacro Romano Impero, messo in crisi dai ghibellini, appoggiati dagli Svevi, nemici giurati del papa e forse primi laici convinti del Medioevo. In particolare Federico II era andato contro la politica papale, facendo accordi con gli Arabi.

Carlo I d’Angiò fu il nuovo campione della Chiesa: non avrà tutta la potenza necessaria per conquistare il titolo di imperatore, ma non ci andrà molto lontano. Intanto, Arnolfo lo scolpisce in tutto il suo sogno di conquista, forte dei successi – clamorosi – già ottenuti.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019