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Walter Galli e suo padre Galòz e’ barbir

Nel 1959 Walter Galli presenta suo padre – stando almeno all’opera omnia pubblicata dal Ponte Vecchio – come un barbiere sfortunato. La poesia L’amstir (probabilmente scritta tra il 1954 e il 1956), era già stata pubblicata sia nella rivista “il Nuovo Belli” (n. 1/1960) che nell’antologia curata da Mario Dell’Arco, Fiore della poesia dialettale (Roma 1961).

Le varianti non sono molte: nella versione definitiva ha sostituito le parole “Una vólta” con “Da zóvan”; il “Salon in céntar” è diventato “un bèl salon”; ha aggiunto alla vecchiaia dell’ultimo Galóz il fatto ch’era diventato mezzo cieco e che i rasoi non tagliavano più come prima… (particolare, quest’ultimo, abbastanza curioso per un barbiere, quasi messo apposta per giustificare il drammatico declino professionale di suo padre).

Avere due o tre lavoranti a servizio e una clientela altolocata e poi ridursi a portare, di tanto in tanto, i vestiti dismessi del figlio, non è cosa facilmente comprensibile. Si ha l’impressione che in questa poesia Galli abbia voluto presentare suo padre come un lavoratore sconfitto dal sistema, senza spiegarne però i motivi (per tutto il ventennio fascista i barbieri più importanti di Cesena erano stati solo tre, fra cui uno proprio Galóz). Si è semplicemente limitato a dire che suo padre, Pietro, non era stato capace di approfittare sino in fondo delle dinamiche borghesi del sistema. Ne era uscito sconfitto perché in mezzo secolo non aveva fatto altro che dire di “sì” “sora dal bèrbi” (ovvero “fè dj inchin”, stando alle versioni originarie). Pietro morirà nel 1971, a 81 anni.

Ma che cosa avrebbe dovuto fare per non finire così? Qui Galli è reticente. Le premesse del successo sembravano esserci tutte. Non si può incolpare il sistema, di sicuro non quello del Ventennio, anche se qui lo fa. Ma se le responsabilità sono soggettive, di suo padre, perché non dirle? È semplice: perché suo padre, quando scrisse L’amstir, era ancora vivo, e anche se Galli non viveva più con lui, non voleva scrivere qualcosa che gli facesse dispiacere e che quindi contribuisse a peggiorare i rapporti già difficili che aveva avuto e che continuava ad avere con lui. Certamente l’ultimo verso, quello dei vestiti usati, era piuttosto duro, ma suo padre, essendo la poesia apparsa su pubblicazioni specializzate, non l’avrebbe mai letta. Quanto la morte del padre abbia inciso sulla decisione di pubblicare La pazìnzia solo nel 1976, pur avendo pronte le sue poesie sin dalla fine degli anni Sessanta, non lo sapremo mai.

Ci si può comunque chiedere perché non evitare del tutto di scrivere qualcosa su suo padre. Qui invece la risposta è più difficile: forse perché psicologicamente non poteva, essendo stato il rapporto con lui un nodo fondamentale di tutta la sua vita, un conto aperto mai risolto, che troviamo presente in tutte le raccolte.

Vi è poi una strana e toccante poesia, senza data, ma scritta intorno al 1976, essendo questo l’anno della precedente poesia: E’ tu vèc, dedicata al figlio Andrea, che, stando al contesto, appare più grande dei tredici anni che avrebbe dovuto avere. Si lamenta di sentirsi trascurato e conclude dicendo che suo figlio sta ripetendo lo stesso errore che lui aveva fatto con suo padre. In un solo verso viene sintetizzato il vero significato della vita: dare affetto e ricevere affetto.

Tuttavia Galli ancora non ha spiegato il motivo per cui non riusciva ad avere un atteggiamento affettuoso nei confronti di suo padre. Solo nella poesia J últm’ an, del gennaio 1976, comincia a dirlo, molto timidamente, evitando di far capire che il vecchio in questione era suo padre, morto da un quinquennio.

Improvvisamente veniamo a scoprire ch’era un dongiovanni, un casanova: “Tr’ al grinfi ad cla trója / ch’la i magna tót i bajóch / l’aveva da ardùsas, vèc indarlì [doveva ridursi, vecchio rimbambito]”, sembra che gli dica la moglie. Dunque gli piaceva la bella vita, gli piaceva spendere, gli piacevano le donne.

Finché arriviamo all’aprile del 1978. Ancora Galli non ha il coraggio d’intitolare la poesia facendo riferimenti a suo padre, ma dal contenuto lo si comprende in maniera sufficientemente chiara. In un certo senso sembra che si penta d’aver scritto, fino a quel momento, delle cose negative su di lui. Ora cerca di rimediare, ma non prima d’aver premesso che suo padre era una persona molto difficile da trattare, almeno quando era in casa.

La seconda parte della poesia, che redazionalmente è stata intitolata come il primo verso: Pazìnzia pr’i tuzun, è molto commovente. Sembra voglia far capire che, ora che è morto, non riesce ancora a sopportarlo, ma non nello stesso modo di quando era vivo. Non vi riesce perché, ritrovando nel cassetto i ferri del mestiere di suo padre, gli viene un groppo in gola, e si chiede il motivo per cui il rapporto con lui sia stato così infelice. La poesia viene commentata a mano dallo stesso Galli in un opuscoletto scritto da Gianfranco Lauretano: “Memoria del padre barbiere di cui gli umili ferri costituiscono un lascito capace di incrudelire il rimorso per un disamore e un gelo durati tutta la vita”.

Dare affetto, ricevere affetto: lui avrebbe voluto darlo a suo padre, ma non riusciva a riceverlo. Lo riceve però adesso che è morto, attraverso i ferri del mestiere di lui, che gli ricordano l’esigenza di un amore mancato e a cui teneva moltissimo e che troverà una compensazione nel bisogno che Galli aveva di conservare nei suoi faldoni ogni più piccolo dettaglio che lo riguardasse.

Ma Galli non è stato solo un “figlio della Resistenza”, è stato anche un “figlio del Sessantotto”: ha vissuto un doppio scontro generazionale, etico e politico, con un padre fascista e umanamente egocentrico.

Nella poesia Un ba’ cme te (luglio 1978) Galli, questa volta, lo dice chiaramente: “D’un ba’ cme te a fasam senza”. Democrazia contro Autoritarismo: ecco il significato dei versi in cui dice che è “mei sta vita da cumbàtar dé par dé / senza savé cum la andrà a finì, / piotòst che fè la pigurina [la pecorella]”.

La pretesa “esperienza” di chi dice di saperne di più, perché più anziano, più uomo di mondo, non è motivo sufficiente per imporre un rapporto autoritario. Un babbo così assomiglia a un qualunque esponente del mondo clericale: lo dice nella poesia immediatamente successiva, senza titolo.

Nell’estate nel 1981 scrive due poesie enigmatiche, una dal titolo Zent’an. I suoi figli dovevano aver festeggiato il suo sessantesimo compleanno, ma lui s’immagina d’averne cento, cioè di sentirsi vecchissimo. L’ultimo verso vuole essere riepilogativo di tutta la sua vita ed è un rendiconto assolutamente negativo, ma non se ne spiegano le ragioni.

In quella successiva, senza titolo, parla di un babbo che ha perduto il figlio e di qualcuno che dovrà dirgli che, non essendo la morte la fine di tutto, il figlio lo aspetta in cielo, e il padre ci crede e si sgozza con un rasoio per andarlo a trovare… Poi la poesia viene conclusa in una maniera ancora più criptica: “Apéns ch’a n’avreb pèsa sin ch’a chèmp / s’ a fós stè me a díjal” [“Penso che non avrei pace finché vivo / se fossi stato io a dirglielo”].

A dirgli cosa? Che suo figlio era in cielo? In realtà sembra voler dire il contrario, come spesso succede nelle sue poesie. Ad essere già morto è il padre e il figlio non ha fatto in tempo, non ha trovato il modo su questa terra di chiarire le cose con lui e vorrebbe poterlo fare in cielo, il più presto possibile, anche a costo di suicidarsi. Inverte il ruolo dei protagonisti perché ancora non si sente sicuro di dir le cose esplicitamente, e comunque spiega al lettore che non arriverà mai a suicidarsi, non tanto perché non crede in nessun aldilà, quanto perché ritiene quel gesto una forma di debolezza, un piacere che non vuol concedere alla morte (chiamata “gnafa” nella poesia La sfida). La morte è sicuramente una liberazione dal male di vivere, ma non tutti i modi di morire sono uguali.

Finalmente però, e siamo sempre nel 1981, è giunto il momento di fare i conti col proprio padre, almeno a livello poetico, e stavolta Galli è un fiume in piena, ha smesso di essere reticente o soltanto allusivo, involuto.

Galóz e’ barbir è una delle sue poesie più lunghe. Anzitutto mette subito in chiaro che nel padre c’era una specie di ambivalenza esistenziale tra un comportamento gioviale, allegro in pubblico e uno invece introverso, scontroso in casa propria.

Ed ecco il peggio: gli piacevano le donne e le baldorie con gli amici, al punto che da giovane, in due carnevali, s’era mangiato una casetta sulle mura che gli avevano lasciato i suoi genitori. Cosa che gli rinfacciava sempre la suocera Angiolina quando trovavano da litigare; quella nonna che mise in piedi, da giovane, un laboratorio artigianale di fabbricazione di imbottite nella casa della Valdoca di sua proprietà, dove appunto i Galli vivevano, e da dove furono costretti ad andarsene per un decennio, in quanto l’attività produttiva necessitava di maggiori spazi.

Istruzione Galóz ne aveva avuta poca, però non era un “imbezel”, perché il suo lavoro lo conosceva bene e s’era fatto una buona clientela. Ma, nonostante questo, aveva dovuto subire una sconfitta ingloriosa sul piano professionale: cosa già detta nella prima poesia dedicatagli, L’amstir, dove negli anni Cinquanta il giovane Walter aveva dato la colpa al sistema in generale, che non premiava gli artigiani in proprio.

Galli non mette in relazione l’insuccesso del padre né con la caduta del fascismo, né con la sua condotta dispendiosa. Si limita a sostenere che le sbandate furono saltuarie e sua moglie le aveva accettate, perché quella volta la donna, in casa, aveva meno voce in capitolo.

L’autoritarismo del padre gli aveva fatto sempre soggezione, ma qui Galli si trattiene, non dice tutto. Vuol dare di suo padre un’immagine tutto sommato accettabile. Anzi, addirittura tende a identificarsi con lui: gli ultimi anni della vita del padre gli paiono somiglianti ai suoi (è lagnoso, pauroso, malinconico), che però ne ha appena sessanta.

E conclude dicendo che è morto a 81 anni, d’un colpo secco (gli stessi anni in cui anche Galli vivrà). Ossia è morto improvvisamente, senza dare a lui, al figlio, la possibilità di dirgli ciò che ancora non aveva avuto il coraggio di dirgli, come dirà nella poesia Se dadbón adlà (dicembre 1994).

Nel novembre del 1989, in quella splendida, perché molto commovente, poesia intitolata Du vécc, Galli s’immagina la propria morte e vede suo padre da vecchio, che gli volta le spalle e tiene la testa bassa. Lui vorrebbe che si girasse, che lo guardasse in faccia, che gli dicesse, anche solo con un cenno del capo, che sta aspettando proprio lui, per potersi riconciliare una volta per tutte. Ma è solo una speranza, un sogno.

In quell’anno, a 68 anni, Galli si sentiva abbastanza depresso: la poesia non gli aveva dato le soddisfazioni sperate, poiché lui mirava in alto, e anche con la pittura i risultati erano stati scarsi. Qualcosa di nuovo però stava venendo fuori dalla sua fertile mente: la passione per le commedie dialettali. Negli anni 1984-85 aveva iniziato a interessarsi di teatro, e con un certo successo, prima con Plauto, poi, nel 1991, con Čechov. Non aveva nessuna intenzione di darla vinta alla “Gnafa”.