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Walter Galli e l’amstir della prostituta

Nell’opera omnia di Walter Galli, edita dal Ponte Vecchio, esistono due poesie aventi come titolo L’amstir (Il mestiere). Erano state incluse nella prima silloge La pazìnzia, pubblicata nel 1976.

La prima (ufficialmente scritta nel 1959, ma probabilmente degli anni 1954-56) si riferisce a suo padre, che di mestiere faceva il barbiere; la seconda invece (datata novembre 1961) parla di un’anonima prostituta.

Quindi stesso titolo generico per due mestieri molto diversi, uno dignitoso, l’altro no, benché il poeta dica, da un lato, che il padre era stato per mezzo secolo a dir di sì “sora dal bèrbi”[1], e alla fine (era morto nel 1971 a ottantun’anni) era ridotto così male da indossare i vestiti usati del figlio; dall’altro invece, parlando della prostituta, la dipinge con una certa fierezza, come se lei avesse fatto un lavoro qualunque, necessario per poter campare e che solo per salvare le apparenze aveva tenuto nascosto al figlio.

Il sostantivo “amstir”, nella consueta descrizione lapidaria che Galli dà dei fatti, viene usato, secondo l’etimologia maschilista del dialetto, ereditata dalla lingua italiana, in due accezioni molto diverse: un qualunque mestiere apparso, quando si fa riferimento a un uomo (“avere un mestiere”); un mestiere specifico, quando ci si riferisce a una donna (“fare il mestiere”). È lo stesso che dire “vivere la vita” e “fare la vita”.

Galli però, essendo molto parco nell’uso degli aggettivi e alieno da quei facili moralismi della poesia dialettale d’un tempo (p.es. di Giustiniano Villa, Massimo Bartoli, Giovanni Montalti…), ha ribaltato le cose, lasciando al lettore il compito di esprimere giudizi. E noi lo faremo, parteggiando con chi sostiene che Galli è un “realista simbolico” e non un “espressionista”.

In particolare diventa molto significativo mettere a confronto la versione definitiva della poesia sulla prostituta con quella originaria apparsa nel bimestrale “La situazione” (agosto 1961, n. 21-22), che per comodità chiameremo “versione A” (quella originaria) e “versione B” (quella definitiva).

versione A

Burdél, l’è j ultum spraz.
U s’ fa qualch quèl cun i camion
dop mezanota alé vajun,
a e’ lun a vagh a Furlé, int una ca’.

Ció l’è fadiga! A n’ò pió vèint an
ch’a fasivi la fila dria ca’.

Che dé ch’a m truvì mórta da quèlca pèrta
avrò finì.

Zarchì de’ mi burdèl e gijal pù;
che me a n’ò miga rubé gnint a nissun.

agosto 1961

versione B

Burdell l’è j ùltum sprazz.
U s’ fa qualch quèl cun i camion
dop mezanòta, spessa e’ cavalcavia,
quel ch’ven ven. E’ lun a fagh e’ marchè
a Furlé in ca’ d’un’amiga.

Cióu, l’è fadiga;
a n’ò pió vent an, ch’a fasivi la fila...

Che dé ch’a m’ truvarì mórta amazèda
da quèlca pèrta cun la bursetta svùita,
avrò pu’ finì.

E’ pió e’ sarà pr’e’ mi Gigin
Ch’u n’ saveva gnint.

novembre 1961

 

Ragazzi, sono gli ultimi sprazzi. / Si fa qualcosa coi camion / dopo mezzanotte lì in giro. / Il lunedì vado a Forlì in una casa. / Oh è fatica! Non ho più vent’anni / quando facevate la fila dietro casa. / Il giorno che mi trovate morta da qualche parte / avrò finito. / Cercate mio figlio e diteglielo pure; / non ho mica rubato niente a nessuno.

 

 

 

Ragazzi, sono gli ultimi sprazzi. / Si fa qualcosa coi camion / dopo mezzanotte, dietro il cavalcavia, / quel che viene viene. / Il lunedì faccio il mercato / a Forlì in casa d’un’amica. / Eh sì, è dura; / non ho più vent’anni, che facevate la fila… / Il giorno che mi troverete morta ammazzata / da qualche parte con la borsetta vuota, / avrò pure finito. / Il peggio sarà per il mio Gigin / che non sapeva niente.

Chiunque è in grado di notare che, pur avendo a che fare con due versioni scritte a distanza di pochi mesi, pare di trovarsi di fronte a due donne dalla mentalità abbastanza diversa, se non addirittura opposta. Questo per dire che le date messe da Galli alle sue poesie vanno forse prese con una certa cautela, nel senso che se quella dell’opera omnia può essere attendibile, sarebbe meglio anticipare di alcuni anni quella della “Situazione”.

In entrambe è una prostituta che parla in prima persona, ed è una di quelle che deve accontentarsi di andare, dopo la mezzanotte, coi camionisti (qui citati con una bella metonimia), essendo ormai non più giovane: i suoi sono gli “ùltum sprazz”.

Per renderla più realistica, rispetto a quella della “versione A”, Galli ha introdotto alcuni particolari: anzitutto il “cavalcavia”, che negli anni ’50-’60 non poteva essere che quello posto sull’incrocio tra viale Europa e viale Cavalcavia (una zona frequentata da prostitute fino agli anni Settanta) e ha voluto precisare che la disponibilità nei confronti di quel genere di clienti era totale, ancorché sofferta: “quel ch’ven ven”.

In entrambe le versioni la donna dice che il lunedì, essendo giorno di mercato, andava a Forlì, dove effettivamente una volta erano soprattutto gli uomini, che, giungendo dalle campagne circostanti, facevano affari e acquisti. Ma nella “versione B” esiste un nuovo particolare: a Forlì lei va a esercitare il mestiere presso un’amica, e vi è anche una deliziosa ironia, facilmente riscontrabile nella differenza che Galli pone tra “a vagh a Furlé” e “a fagh e’ marchè a Furlé”.

Di fronte alla donna che si lamenta di questo andirivieni settimanale, di questi ripieghi dovuti all’età, che le costano una certa “fadiga”, il poeta, che non è un moralista (di sicuro non nella “versione A”), appare comprensivo e non sta a disquisire sul tipo di mestiere.

Quando la donna si giustifica dicendo di non avere più vent’anni, al tempo in cui erano gli altri ad andarla a cercarla, vien spontaneo chiedersi dove esercitasse il mestiere prima di frequentare il cavalcavia di Cesena e il mercato di Forlì. Ed ecco una risposta che troviamo nella “versione A”: “dria ca’”, cioè in casa propria, senza però che i clienti passassero dalla porta principale. Che fosse quel bordello privato della Valdoca, posto tra via Roverella e via Braschi, dove la tenutaria effettivamente aveva un figlio? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che Galli parla di prostituzione in altre poesie: p.es. in La Mara.

Si ha però impressione che nella “versione B” il poeta, resosi conto d’aver messo un particolare compromettente, che avrebbe potuto permettere una certa identificazione, abbia preferito restare sul generico, sostituendo la casa con tre puntini di sospensione, a meno che tale sostituzione non sia dipesa da una considerazione puramente estetica, in quanto nella “versione A” la parola “ca’” viene ripetuta due volte: in tal caso dovremmo pensare la stessa cosa per la parola “burdèl”.

Se invece siamo in presenza di una sorta di autocensura, dobbiamo pensare ch’essa sia scattata poco prima di pubblicare la Pazìnzia, quando cioè era venuto il momento di presentarsi alla collettività cesenate e non più solo a un piccolo pubblico di intellettuali quale quello offerto dalla rivista “La situazione”. Se infatti esisteva una fila di ragazzi che andavano a casa di lei, la sua notorietà era assodata.

Forse quindi si può azzardare, in via del tutto ipotetica, che da un lato Galli aveva aggiunto un particolare inventato (il cavalcavia) per rendere più realistico il personaggio; dall’altro però aveva tolto un particolare ancora più realistico (la casa) per rendere il personaggio meno individuabile.

Di sicuro qui non si comprende né con chi la donna stia parlando né dove lo stia facendo. Sembra un monologo teatrale, come quelli di Raffaello Baldini, in cui un’attrice si rivolge, cercando complicità, a una sorta di “pubblico-burdél”, che rappresenta la clientela d’una volta, quella migliore, nei cui confronti lei ricorda i bei tempi e giustifica l’obbligo d’andare coi camionisti.

Tuttavia, come è giusto che sia, la parola burdél viene usata in entrambe le versioni in maniera generica, asessuata. È una parola che in dialetto può riferirsi a chiunque stia ascoltando una persona che parla. Anche in italiano si usa la parola “ragazzi” nella stessa maniera. In questo momento la donna potrebbe rivolgersi a chiunque: alla sua amica di Forlì, alle sue colleghe di strada, alla “buon costume” che pattuglia la zona, persino a se stessa, davanti a uno specchio. Sembra addirittura che i clienti siano gli stessi d’un tempo (“facevate la fila”).

Impossibile immaginare dove il poeta possa aver sentito parlare una tale prostituta, che peraltro sembra aver a cuore, pur rivolgendosi a un pubblico, che il figlio resti all’oscuro del suo mestiere. Qui si può soltanto osservare che dalla prima alla seconda lirica la questione del “figlio” diventa assolutamente centrale, proprio perché è attorno a questa figura assente che si gioca l’eccezionale maestria poetica di Galli.

Nella “versione A” la donna dice che finirà il suo mestiere quando la troveranno assassinata da qualche parte. Nella “versione B” invece viene precisato il motivo del delitto: lei cercherà di difendersi quando un cliente le ruberà i soldi dalla borsetta. Impressionante la differente scelta della frase con cui lei conclude la sua ipotetica tragedia: “avrò finì” nella “versione A”, che è espressione secca dura amara fatalista; “avrò pu’ finì” nella “versione B”, in cui appare palese la concezione della morte come “catarsi”: l’omicidio servirà per sottrarla a un mestiere schifoso.

E ora si faccia attenzione al finale, poiché qui sembra d’aver a che fare con due persone abbastanza diverse, segno d’una inequivocabile evoluzione nella personalità di Galli, la cui rapidità (stando alle due date in questione) pare davvero curiosa.

Nella “versione A” coloro che troveranno il cadavere della prostituta dovranno cercare suo figlio e rivelargli il particolare mestiere della madre, spiegandogli però che lei era una donna del tutto onesta, moralmente pulita, perché non aveva “rubé gnint a nissun”. Impossibile non rendersi conto che qui la madre ha molto più importanza del figlio, il quale, se non vuole apparire peggio di lei, non potrà non avere comprensione.

Ovviamente qui non è neanche il caso di disquisire su come sia stato possibile che la donna avesse potuto tenere il figlio all’oscuro di un mestiere che aveva esercitato per così tanto tempo, e parrebbe altresì un controsenso, in relazione all’età della donna, pensare che il figlio non sapeva nulla perché ancora troppo piccolo. Non c’era bisogno di farla morire (né in maniera così cruenta) perché il suo burdèl (la cui parola può qui indicare un figlio di qualunque età) lo venisse a sapere, a meno che non fosse stato messo in un collegio o comunque non vivesse più con la madre. La poesia va presa per quello che è.

Nella “versione B” Galli, dopo aver attribuito al figlio di lei il soprannome Gigin, per rendere il dramma (qui molto teatrale) più realistico, benché non sia possibile identificare alcun Luigi, riprende lo schema della “versione A”, in cui il figlio dovrà essere avvisato che la madre, trovata morta, faceva la vita.

Il finale però è molto più toccante. La madre infatti ritiene che la vera tragedia non stia nell’omicidio in sé (che anzi viene visto come una liberazione), ma proprio nel fatto che il figlio, essendo stato all’oscuro di tutto, non potrà consolarsi sapendo (come nella “versione A”) che la madre prostituta era eticamente onesta. Quindi per il poeta il figlio è diventato molto più importante della madre.

Cerchiamo ora di concludere. Nella “versione A” la madre possiede un’etica economica da persona onesta, fiera di sé, non avendo dovuto chiedere pubblici sussidi per poter campare e far crescere il figlio; nella “versione B” ha invece una pietà filiale molto più intensa, anche se Galli ha voluto introdurre il furto della borsetta per rendere più realistica la motivazione dell’omicidio.

Il passaggio dall’una all’altra versione appare tuttavia poco convincente. Si ha infatti l’impressione che Galli abbia voluto spiegare nella “versione B” il motivo dell’etica economica presente nella “versione A”, dove si era limitato a far credere al lettore che la donna era stata ammazzata perché probabilmente derubata. Ha cioè compiuto un’operazione di tipo moralistico che ha reso la poesia meno diretta, meno incisiva.

Ma c’è un altro aspetto controverso. La donna della “versione B” mostra un senso di colpa destinato a non trovare facile soluzione. Sembra una lirica rivolta a un pubblico diverso da quello della “versione A”, dove la prostituta appare sì più superficiale, ma anche più orgogliosa, più fiera di sé: sa di aver venduto il corpo (e di ciò si vergogna nei confronti del figlio), ma non ha venduto l’anima, non ha perduto la propria integrità morale. Anzi, in un certo senso, ha saputo dare dignità a una cosa che per gli altri non l’aveva.

La “versione A” pare essere destinata a un lettore dalla mentalità più netta ed essenziale, il quale deve capire che, pur in mezzo a situazioni molto difficili, l’importante è salvaguardare il valore dell’onestà di fondo. Qui si resta fermi al dramma ma con maggiore realismo.

Nella “versione B” invece la donna si vergogna completamente della sua vita ed è più sensibile, più tenera e travagliata, e sembra rivolgersi a un pubblico preoccupato (lei inclusa) che con quel delitto non si possano più salvare le apparenze, per cui la tragedia diventerà inevitabile, e sarà durissima da sopportare da parte del figlio.

Insomma Galli aveva compiuto su di sé una torsione intellettuale di non poco conto. Per cercare di rendere la poesia più accettabile a un pubblico cristiano-borghese aveva deciso di aggiungere quattro dettagli (il cavalcavia, l’amica forlivese, la borsetta vuota e il nomignolo Gigin), senza rendersi conto che proprio in questa maniera la poesia perdeva d’efficacia, di immediatezza, senza acquisire affatto maggiore realismo. Galli aveva voluto affinare i suoi canoni estetici cercando una sorta d’immedesimazione forzata con la sua protagonista femminile, emulando Flaubert quando diceva d’essere madame Bovary. Ha preferito un finale esistenziale, pur sapendo benissimo che la frase finale della “versione A”: “me a n’ò miga rubé gnint a nissun” viene usata, in dialetto, anche in contesti extraeconomici.


[1] Nella versione pubblicata in Fiore della poesia dialettale, a cura di Mario dell’Arco (Roma 1961), usa addirittura la parola “inchin”.


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Aggiornamento: 02/10/2012