Il candore di Dino Buzzati

Il CANDORE di Dino Buzzati

I - II

Dario Lodi


Dino Buzzati (1906-1972) è noto soprattutto per il romanzo “Il deserto dei Tartari” (prima edizione 1940). La vicenda del tenente Giovanni Drogo, inviato nella misteriosa Fortezza Bastiani, è emblematica della personalità dello scrittore. Il tenente aspetta invano l’assedio dei Tartari. Essi arrivano quando lui è ormai malato mortalmente. La morale della vicenda parla di impotenza umana nei confronti della realtà. Nei confronti del destino, diceva lui, intendendolo in modo ben più angoscioso di come lo intendevano i greci. Nel caso di Buzzati, infatti, entrava in gioco la questione religiosa, magari non molto sentita dal nostro scrittore, ma di certo avvertita in quel senso spirituale che un’intelligenza fine sa percepire alla perfezione, o quasi (la perfezione non sembra appartenere al mondo umano).

La dinamica insita in questo romanzo fece pensare a Kafka. Ma fra lo scrittore bellunese (di S. Pellegrino di Belluno per la precisione) e quello praghese esistono differenze vistose. Kafka è nella storia, Buzzati ne sta fuori e la descrive. Le implicazioni, nel secondo caso, sono come casuali e caratterizzate da un timore sotterraneo di coinvolgimento diretto che rende la narrazione una cosa guidata con la speranza di evitare un deragliamento, ovvero la caduta in una delusione senza rimedio. In altre parole, in una disperazione inguaribile per chiara sconfitta di sé, del proprio essere. Il nostro scrittore ha una tesi a priori che conta di far valere ma che nel contempo teme gli sfugga di mano per la scoperta, strada facendo, di un’incostanza razionale, non tanto nella tesi, quanto in tutto ciò che egli propone, che qualunque uomo propone. L’angoscia kafkiana è essenziale, quella di Buzzati è libresca, per quanto sincera. Quest’ultima caratteristica non è un difetto. È un difetto non svilupparla adeguatamente.

Lo scrittore bellunese è in realtà un giornalista e dal giornalismo – che conosce a menadito – si stacca malvolentieri. Tutto ciò significa che Buzzati avanza la sua teoria, ma non le dà modo di evolversi in quanto ha già pronta una tesi che non tiene conto di dinamiche, positive o negative, che caratterizzano la personalità umana. L’uomo di Buzzati non conosce l’autoinganno che lo salva (si fa per dire) da problematiche assai più complesse. L’uomo di Kafka, al contrario, lo conosce e non lo evita perché lo vive in prima persona. Si sa come va a finire ne “Il castello” e ne “Il processo”, ma l’autore praghese non si sottrae ugualmente all’esito, riuscendo a coinvolgerci nell’angoscia perché vera, lucida, per quanto allucinata. Il giornalista di Belluno non entra nel merito delle sue turbe, bensì le trasforma in una sorta di filosofia su cui riflette librescamente, sostenendo più un malessere che un autentico male di vivere.

Buzzati, anche drammaturgo pittore e musicista (suonava molto bene pianoforte e violino), mostra maggiore abilità nei racconti (fra i numerosi, la raccolta intitolata “Il crollo della Baliverna” del 1954, “Sessanta racconti” del 1958, “La boutique del mistero – 31 storie di magia quotidiana” del 1968 e il curioso “Poema a fumetti” del 1970; quest’ultimo probabilmente ispirato dal grande disegnatore inglese Arthur Rackam, morto nel 1933). Nei racconti, il taglio giornalistico funziona molto bene e consente alla morale, pur quasi sempre scontata, di incidere meravigliosamente. Il racconto, essendo contenuto (la brevità in fondo è una benedizione), risulta particolarmente congeniale alla sua scrittura, che qui non è mai notarile. Buzzati si lascia andare al fiabesco, al surreale, non ha spazio per languori eccessivi né per malinconie ferali. Il Nostro è stato un giornalista rispettoso del lettore. Collaborava al Corriere della Sera sin da adolescente, poi fu nel giornale per anni, come cronista e inviato, buono per ogni occasione (fu persino al seguito del Giro d’Italia, con Coppi e Bartali). Proveniva da una famiglia agiata. Il padre era un noto giurista, la madre una nobildonna. Buzzati era cresciuto nella lussuosa villa di famiglia in mezzo ai libri, di cui sarà un divoratore per tutta la vita. Era stato amico di Leo Longanesi, che l’aveva convinto a cambiare il titolo “La fortezza” ne “Il deserto dei Tartari”, e di Indro Montanelli. Fra le sue collaborazioni, quella con Luciano Chailly, diretto d’orchestra (per i suoi drammi) e con Fellini (si occupò della sceneggiatura de ”Il viaggio di G. Mastorna”, film che però non fu fatto). Buzzati adorava l’alpinismo, che praticava con successo. Le sue ceneri riposano sulle Dolomiti.

A conferma della sensibilità del Nostro, questa volta meglio espressa perché personale, trattandosi di un monologo (che bene o male costringe a interventi diretti) abbiamo il romanzo “Un amore” del 1963: l’architetto Antonio Dorigo, quasi cinquantenne, scapolo impenitente, frequenta una casa d’appuntamenti. Un giorno gli viene presentata una ragazza, studente minorenne, Laide (nomen omen, ma quello vero è Adelaide, nome d’origine tedesca che viene da Adele e che significa nobiltà d’animo: Buzzati, nella sostanza, è attratto da entrambi) di cui s’innamora. Ma la ragazza non accetta la corte, lo frequenta solo per interesse. Dorigo è disperato. Ma quando pensa che tutto sia perduto, ecco il miracolo. Il romanzo ha una svolta inaspettata: si conclude con i due a letto come marito e moglie e con lei che gli annuncia che presto avranno un figlio.

La metafora è palese: solitudine, incontro, speranza, delusione e la vita che invece trionfa. C’è un candore in tutto questo che rende Buzzati vicino a noi e ai sogni che stanno in ogni essere umano: ecco, lui descrive e interpreta tutto questo (in quest’occasione si prende, insomma, un doppio ruolo) con una fiducia che supera ogni proposito di rassegnazione. Quasi una provvidenza manzoniana, infine accettata.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019