Storia della democrazia diretta

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


LA DEMOCRAZIA DIRETTA
un'altra rivoluzione è possibile

Di Mario Adinolfi

LE RADICI DELLA DEMOCRAZIA: ATENE, 508 a.C.
(l’inizio della storia, Rousseau e la Costituzione del 1793, Marx, i direttisti moderni)

Studiosi e dotti, che ovviamente ignoreranno o irrideranno questo lavoro, fanno fatica ad indicare una data in cui far partire la storia della democrazia. C’è, certamente, la storia della parola “democrazia”: come molti sanno il vocabolo democrazia proviene dal greco demokratia, composto da demos e da kratia. Demos aveva il valore di popolo, in opposizione al re e alla nobiltà, ovvero - nelle antiche città-stato come Atene - i cittadini liberi che formavano l’assemblea del popolo. Kratia, da kratos (collegata alla base krat da cui nasce il nostro grazia) indicava la forza, la potenza, e, nell’ambito della politica, la signoria, il potere. Il concetto e la parola democrazia ci giungono dunque dall’antica Grecia: già Erodoto, il padre della storia, nel V secolo avanti Cristo utilizzava la parola democrazia nel senso di governo popolare. E alla storia greca dobbiamo rifarci per scrivere una brevissima descrizione dei colori che ebbe l’alba della democrazia.

ATENE, 508 a.C.

Alla base della società greca primitiva intorno all'800 a.C. si collocavano le famiglie riunite in clan e in tribù. Durante i sec. IX e X a.C. con l’espansione commerciale e coloniale un gran numero di Greci si erano resi indipendenti dai legami terrieri arcaici, segnando l’inizio del declino della classe aristocratica.

Nel 630 a.C. ad Atene venne suscitato un primo tentativo di tirannide da parte di Cilone che sfruttò una condizione di malcontento popolare.

In un passato mitico il primo sincretismo politico, di natura vagamente democratica, fu considerato attuato da Teseo. Costui, sette secoli prima di Clistene, si configurò come un basilèus a cui venne attribuita, in parte dalla tradizione, il ruolo di creatore di una prima democrazia, per aver ceduto almeno una parte dei poteri al démos. Il primo vero passo verso la democrazia può essere considerato l’opera attuata da Dracone (VII sec. a.C.) che mise per iscritto le leggi di una tradizione orale, per volere degli aristocratici. Quando però l’Attica fu scossa da una crisi agraria che causò disordini civili, venne nominato per la città di Atene un aisymnetes affinché regolasse la situazione politica e sociale.

Essendo stato nominato Solone (ca.594/3 o 592/1 a.C.) per questa carica, dunque, si avviò l'arché democratico, ovvero l'inizio evolutivo di questa forma di governo.

Dall’intermezzo costituito dalla tirannide di Pisistrato (561 a.C.) che donò splendore artistico alla città di Atene, si passò alla riforma di Clistene (508 a.C.) che rappresenta una forma più popolare (demotikoteria) rispetto a quella di Solone: proprio la riforma di Clistene del 508 a. C. è da noi direttisti considerata l’atto di nascita della democrazia nel mondo occidentale, anche se molta strada sarebbe ancora stata fatta ad Atene. Arrivò infatti successivamente il momento della democrazia radicale, contrassegnato dall'abbattimento dell'areopagocrazia, periodo centrale e di equilibrio politico nella concezione aristotelica. L'avvento della democrazia radicale (462/1 a.C.) fu segnato dalle figure di Efialte (fautore della riforma del 462) e Pericle.

Circa mezzo secolo più tardi (nel 411 a.C.) si arrivò al secondo grande trauma della democrazia, di segno opposto al precedente: il governo dei Quattrocento, favorito dai sostenitori della pátrios politeía, una posizione moderata che proponeva l'accostamento Clistene/Solone, tipico di una concezione politica che voleva salvare i tratti più moderati e conservatori della costituzione democratica. In forme assai più aspre si presentò il colpo di Stato dei Trenta tiranni, che da un lato ripeté, dall'altro aggravò, in senso negativo, l'esperienza dei Quattrocento. Ma vediamo più nel dettaglio, anche se molto rapidamente, i tratti caratteristici delle riforme finora elencate.

L'età di Solone

Per prima cosa Solone nel 594 a.C. procedette alla classificazione della popolazione in base al censo in cinque categorie dando così un ordine ed un senso anche alla cavalleria e alla fanteria che già esistevano, ma senza una precisa collocazione in ambito sociale. Basandosi sul censo Solone diede a chiunque la facoltà di migliorare il proprio livello di vita e fornì l'autocoscienza necessaria per sfruttarla. Solone inoltre stipulò delle norme che regolavano l'accesso alle cariche pubbliche:

  • l'arcontato era accessibile solo alle prime due classi,
  • il consiglio (boulè) era accessibile solamente alle prime tre classi;
  • l'assemblea popolare era invece di pubblico dominio.

Per quanto riguarda il demos Solone sciolse i debiti e migliorò le condizioni di milioni di hektemoroi che diventarono:

  • thetes, i senza terra, che secondo Aristotele furono liberati solo dalla schiavitù perché non furono supportati da nessuna riforma fondiaria;
  • piccoli agricoltori indipendenti o vasai entrando a far parte delle fila del demos che aveva comunque i suoi diritti tra cui il partecipare all'assemblea popolare e il diritto di voto passivo.

Anche se l'attività politica-sociale era ancora riservata agli aristocratici e la coscienza politica giunse tardi alle fasce più basse della popolazione l'assemblea assunse un carattere proprio facendosi scudo di una nuova responsabilità richiesta ad ogni singolo membro nella votazione per alzata di mano; il ruolo positivo del popolo rispetto alla vita politica si accentuò nel momento in cui Solone creò un tribunale non aeropagita.

Fu un costituzionalista e cercò con le sue opere di trasmettere quest'ordine di idee anche agli Ateniesi; voleva che ciascuno agisse in conformità alla legge e che per gli Ateniesi la costituzione istituita da lui fosse il codice: infatti è il magistrato che deve essere servo della legge, non il padrone e il popolo doveva controllare il suo operato.

L'età di Pisistrato dal 561 a.C.

Pisistrato apparteneva al partito delle Colline cioè la parte radicale dei tre partiti ateniesi (esistevano anche quello della Costa cioè i moderati e quello della Pianura cioè dei conservatori). La maggioranza dei suoi seguaci era composta da thetes o contadini poveri riscossi dai fallimenti economici della riforma di Solone ed egli contava molto sul fatto che tra gli stessi soloniani erano presenti dissapori.

All'epoca di Pisistrato i cittadini ateniesi non fecero nulla per bloccare la loro coscienza politica, ma al contrario si sentirono partecipi e lo stesso sviluppo della città presentò delle problematiche non evidenziate o non considerate da Solone. L'organizzazione statale non fu di fatto ritoccata, anzi la centralizzazione di governo favorì la crescita di importanza delle istituzioni e fornì al demos un'ulteriore consapevolezza di sé, nonostante gli affari rimanessero nelle mani degli aristocratici.

Pisistrato contro il fenomeno di controllo della fratria aveva istituito dei giudici vaganti e agì in modo da creare nel popolo l'interesse nazionale piuttosto che quello direttamente aristocratico.

L'idea di appartenenza ad un popolo fu ulteriormente rafforzata dalla coniazione di monete i cui beneficiari furono le dee Atena e Demetra o il dio Dioniso e dalla loro identità nazionale e dall'idea di cittadinanza.

L'età di Clistene

Clistene proveniva dal partito aristocratico creatosi dopo l'espulsione di Ippia da Atene ed era di stampo democratico e dalla testimonianza di Erodoto ("...aggiunse il demos alla sua fazione....") sappiamo che si guadagnò l'appoggio del popolo.

Clistene è ricordato per il nuovo sistema tribale e per l'ostracismo, oltre che come fondatore della democrazia.

L'unità amministrativa divenne il deme secondo cui si divise l'Attica e i settanta demes vennero poi combinati in trenta blocchi di territori o trittyes che furono assegnati per sorteggio alle nuove dieci tribù.

Nel VI sec a.C. il consiglio fu composto da 500 membri ( 50 per ciascuna tribù) e l'assemblea non era più di dominio aristocratico, ma ogni anno veniva scelto in ogni tribù il proprio sindaco o demarchos, un consiglio e i funzionari. Alla base del deme era presente il concetto democratico proprio nel fatto che tutti i suoi membri fossero considerati uguali sotto tutti i punti di vista e in particolare perché tutti si potevano riconoscere come membri di uno stato.

L'importanza di una nuova struttura tribale e di nuovi scopi politici potrebbe avere due ipotesi:

  • il miglioramento dell' efficienza del sistema governativo;
  • la salvaguardia dei propri interessi aristocratici o l'eliminazione di certe pericolose associazioni che avrebbero potuto minacciare la pace interna dell'Attica o la potenza degli Alcmeonidi.

Riguardo a ciò rimane il dubbio che Clistene abbia diviso i trittyes con fiera intenzione di spezzare la forza aristocratica ed eliminare le ribellioni in quanto egli favorì notevolmente il popolo tentando di distruggere i vincoli di fedeltà esistenti cioè le fratrie.

Ma nonostante questo la riforma di Clistene viene etichettata dagli storici con le parole isonomia e isergoria, ma non demokratia! In realtà la sua è stata davvero una prima pietra, su cui poi si sono poggiate le costruzioni successive.

La riforma costituzionale di Clistene aprì le porte al demos che progressivamente prese coscienza di sé e in seguito alla vittoria sui Persiani a Maratona nel 490 e a Salamina nel 480a.C.si instaurarono in Atene due fazioni politiche: i moderati di Aristide e i progressisti di Temistocle (vincitore di Salamina) e quest'ultimo salì al potere, ma dopo l'ostracismo subito, fu sostituito da Pericle.

L'età di Pericle

Nel 462 a.C. il partito conservatore, filospartano ed antipersiano, guidato da Cimone, venne sostituito nel governo di Atene da quello democratico e antispartano che faceva capo ad Efialte. Costui provvide a ridurre immediatamente le competenze dell’Areopago ai soli reati di sangue, così da ridurre il potere degli aristocratici che rispetto al 508 a.C., venivano ormai ritenuti servi del demos, il quale era ormai profondamente convinto della sua forza e della sua importanza.

Da questa consapevolezza nacque una nuova definizione alla politica: oltre a isegoria e a isonomia si parla finalmente di demokratia! Efialte venne assassinato, e la guida del partito passò in mano a Pericle.

Pericle proseguì nel piano di riforme democratiche ottenendo, per prima cosa, che i giudici popolari fossero indennizzati per le loro funzioni: questo segnò una svolta nella vita politica, ampliando la sfera dei cittadini coinvolta direttamente nella vita politica.

Momento fondamentale del suo governo fu il trasferimento sull'Acropoli del tesoro della Lega, gestito direttamente dall’assemblea ateniese e sfruttato poi per l’abbellimento della città. Il progetto, apertamente demagogico, implicò l’impiego nella flotta, come rematori, di grandi masse di cittadini fino ad allora disoccupate e garantì a tutti gli inabili e ai disagiati un sussidio in denaro.

Il positivo periodo dei quasi cinquant’anni che intercorsero fra Salamina e il 432 a.C. (indicato con il nome di Pentacontaetia), durante i quali la civiltà attica conobbe il massimo splendore, si concluse bruscamente e per sempre al momento dello scoppio del conflitto peloponnesiaco. L’urto con Sparta fu voluto da Pericle. La guerra, che venne generata da un netto contrasto politico e si fondò su una complessa rete di alleanze, determinò l’insorgere di sospetti, diffidenze e discordie fra i cittadini.

La politica ateniese iniziò quindi un lungo periodo di instabilità associato a un processo di progressivo deterioramento soprattutto morale, che vide sempre più frequentemente sostituiti agli interessi della collettività quelli di un partito politico o, peggio, quelli personali; in ciò il movimento culturale della sofistica ebbe una responsabilità notevole.

La democrazia ateniese si avvitò, così, in una crisi che, alla morte di Pericle nel 429 a.C., aprì alla fine la porta, dopo la guerra del Peloponneso, all’abolizione della costituzione democratica e alla dittatura dei cosiddetti Trenta Tiranni nel 404 a.C.

Ma il regime così instaurato era solo una dispotica oligarchia, e non di rado l’opposizione ad essa divenne facile scusa per perpetrare abusi, per cui dopo pochi mesi un ennesimo intervento armato dei democratici, guidati da Trasibulo, riportò ancora una volta in Atene una costituzione di tipo pericleo (403 a.C.). Ma vediamo ora come funzionava, nel concreto, la democrazia ateniese.

La teoria costituzionale della democrazia ateniese è molto semplice: il popolo è sovrano (kurios). Sieda nell’Assemblea o nei tribunali, è il sovrano assoluto di tutto ciò che concerne la città e i cittadini sono liberi e uguali sotto l’egida della legge.

A) Partecipazione all’Assemblea o Ecclesia

Per far parte dell’Ecclesia erano necessari due requisiti:

  1. essere cittadino ateniese: una legge del 450 a. C., voluta da Pericle, stabiliva che divenisse cittadino solo chi fosse nato da padre e madre ateniesi (mentre prima, e nella maggior parte delle altre poleis, bastava che fosse cittadino il padre);
  2. essere maggiorenne. La maggiore età si acquisiva a diciotto anni, per via dell’iscrizione sui registri del demo (i demi erano le unità territoriali più piccole in cui era stata divisa l’Attica dalla riforma di Clistene – 508 a. C. -, dotate di autonomia dal punto di vista amministrativo. Questa frammentazione del territorio statale di Atene era dovuta alla sua estensione - più di 2400 kmq, all’incirca come l’attuale Granducato di Lussemburgo). Non sempre questi registri erano sicuri: infatti molti meteci (che erano gli stranieri che si stabilivano ad Atene ma erano privi dei diritti politici) riuscivano a farsi iscrivere e quindi a partecipare ai lavori dell’Assemblea che si tenevano sulla collina della Pnice. Questa, nonostante le sue modeste dimensioni, bastava largamente, poiché molti Ateniesi spesso preferivano non assentarsi da casa, non rinunciando così a delle giornate lavorative.

B) Riunioni e funzionamento dell’Assemblea

In origine, l’Ecclesia si riuniva una volta per pritania, ovvero dieci volte all’anno; ma, col passare del tempo, vennero aggiunte tre sedute supplementari per pritania. Ogni assemblea aveva il proprio ordine del giorno, tuttavia, nel caso di una sventura pubblica o di un evento imprevisto che esigessero un provvedimento urgente, potevano essere indette assemblee straordinarie.

La seduta incominciava di buon mattino quando un segnale era dato da una bandiera sventolante sulla Pnice. Così la polizia sbarrava le strade che conducevano all’Agorà e spingeva i cittadini verso la collinetta della Pnice, cui si accedeva per una ripida scalinata e che poteva raccogliere fino a 6000 persone. Presidente dell’Assemblea era l’epistate dei pritani (presidente anche della Bulè), designato dall’estrazione a sorte ogni giorno, che, dopo una cerimonia religiosa in onore di Zeus, dava inizio alla seduta.

Si incominciava con la discussione delle proposte di legge della Bulè, i probuleumata: ogni cittadino poteva prendere la parola e proporne emendamenti, salendo su una tribuna e mettendosi sul capo una corona di mirto, simbolo d’inviolabilità. Dopo la discussione, i pritani indicevano le votazioni per alzata di mano (epicheirotonìa) e il presidente, proclamatone il risultato, poteva togliere la seduta.

C) Poteri dell’Assemblea

All’Ecclesia competevano svariate funzioni:

  • le relazioni estere,
  • il potere legislativo,
  • il potere giudiziario e il controllo del potere esecutivo, con la nomina di tutti i magistrati.

In materia di politica estera l’Assemblea, sotto la direzione della Bulè, decideva della pace, della guerra e delle alleanze e nominava gli ambasciatori. Per quanto riguarda invece il potere legislativo, l’Ecclesia non si arrogava il diritto di abolire formalmente le leggi e votarne di nuove, ma trovava le forme necessarie per legiferare attraverso decreti. Il popolo era anche supremo giudice, ma delegava il potere giudiziario ai tribunali, intervenendo direttamente solo nelle questioni più delicate e importanti.

D) Riunioni straordinarie dell’Assemblea

Nel V secolo, in circostanze di particolare importanza, si riuniva anche l’Assemblea plenaria, convocata nell’agorà, divisa per tribù e considerata come rappresentante l’intera città. Il minimo di unanimità era un voto espresso da seimila suffragi.

L’Assemblea plenaria era convocata per designare chi dovesse essere bandito per ostracismo, per conferire l’adeia, cioè l’impunità o la grazia, o nel caso di collazione del diritto di cittadinanza. Il bando per ostracismo venne decretato per la prima volta nel 487 e, con gli anni più frequentemente, nelle circostanze gravi e nelle guerre perché non vi fossero continui dissensi in merito alla difesa nazionale e nella politica interna, e servì così alle fazioni opposte a decapitarsi a vicenda. L’operazione dell’ostracophorìa si effettuava in seduta plenaria durante la sesta pritania: il voto veniva espresso per mezzo di pezzi di coccio, ostraca, e il condannato doveva lasciare l’Attica entro dieci giorni e per dieci anni, salvo eventuali amnistie.

E) Composizione del Consiglio dei Cinquecento o Bulè

La Bulè, organizzata dalla riforma di Clistene (508 a. C.), era un organo composto da cinquecento membri detti buleuti, sorteggiati, come afferma Tucidide, "per mezzo della fava" tra i demoti aventi più di trent’anni che si presentassero come candidati. Questi solitamente non erano in grande numero, dal momento che, nonostante venissero retribuiti, dovevano comunque sacrificare un’intera annata agli affari pubblici.

Prima di entrare in carica i buleuti dovevano prestare giuramento e cingevano la corona di mirto, segno della loro inviolabilità, mentre, al termine dell’annata, il Consiglio intero doveva rendere conto al popolo del proprio operato. La Bulè era convocata dai pritani e si riuniva nel Buleuterio, situato a sud dell'agorà. Ma come l’Ecclesia, non poteva sedere in permanenza per un’intera annata; per il disbrigo degli affari ordinari aveva bisogno di una giunta direttiva controllata a turno da una delle dieci tribù per una decima parte dell’anno: essa era costituita da cinquanta pritani (ovvero 1/10 dei buleuti) e presieduta da un epistate (sorteggiato ogni giorno tra i pritani) che teneva per ventiquattro ore le chiavi dei templi dove si trovavano i tesori, gli archivi e i sigilli dello Stato.

Questa giunta aveva il compito di mettersi in relazione con l’Ecclesia, con i magistrati, gli ambasciatori e gli araldi stranieri; convocava in caso di urgenza il Consiglio, l’Assemblea, gli strateghi e aveva a disposizione le forze di polizia. Nell’esercitare le sue molteplici funzioni la Bulè nominava poi diverse commissioni speciali: per controllare le entrate all’Assemblea, per sorvegliare l’amministrazione marittima o per la consacrazione e le celebrazioni dei misteri (commissioni di ieropi).

F) Poteri della Bulè

A un tempo organo preparatorio-esecutivo e magistratura suprema, aveva tre mezzi per esercitare i suoi diversi poteri:

  • presentava all’Assemblea i probuleumata che servivano di base ai decreti del popolo;
  • promulgava decreti per far eseguire le decisioni prese dall'Assemblea;
  • collaborava direttamente, col consiglio o con l’opera, con le altre magistrature.

La Bulè aveva attribuzioni importanti anche in campo finanziario, poiché sorvegliava l’impiego del denaro pubblico e si occupava degli appalti delle imposte, delle concessioni minerarie, delle locazioni dei terreni sacri, della costruzione e conservazione delle opere pubbliche (come si deduce dai conti sui lavori dell’Acropoli nell’età di Pericle).

Infine, fra le sue molte funzioni giudiziarie, si occupava della procedura rapida per punire i reati contro la sicurezza dello Stato: l’eisangelìa. Un tempo chi giudicava i reati per eisanghelìa contro la costituzione era l’Areopago: una legge di Solone gli riconosceva questo diritto. Ma, dopo la riforma di Efialte (462 a. C.), la competenza in materia di questi crimini passò al Consiglio, che divenne così un organo centrale della democrazia ateniese.

ROUSSEAU, IL PADRE DEL DIRETTISMO MODERNO

Come ogni classificazione, la scansione della storia per grandi fasi rischia di risultare eccessivamente schematica e riduttiva generando il pensiero che l’incessante fluire degli anni sia invece un costante contrasto tra secoli "l’un contro l’altro armati".

Detto questo è però vero che alcune fratture si verificano e che spesso idee e progetti obliati per secoli, riemergono contemporaneamente nella riflessione filosofica e nella pratica politica. L’ideale democratico scompare o almeno si attenua dopo l’esperienza ateniese disperdendosi nell’incessante nascere e morire di imperi, come quello di Alessandro, e di regni.

In seguito l’egemonia di Roma, sia nella sua esperienza repubblicana che nel successivo principato, pur influenzata dalla cultura greca (come testimoniano i celebri versi di Orazio "Graecia capta ferum vincitorem cepit"), resta sostanzialmente estranea ad essa nella riflessione e nella prassi politica.

Polibio, che pure loda la costituzione romana, la definisce come mista, ovvero tale da costituire una sintesi, nelle sue istituzioni, di democrazia, aristocrazia e monarchia; lo stesso Cicerone, nel delineare il suo ideale di Stato, parla della necessità di un moderatore e mediatore, una sorta di garante super partes della stabilità e della tranquillità della vita civile.

Del resto anche gli storici dell’età imperiale, e Tacito in particolare, nel far riferimento alla Repubblica come ideale polemico rispetto ala decadenza presente, non ne prospettano il ritorno né, tantomeno, esaltano di essa gli aspetti democratici, ma, piuttosto, il clima di libertà politico-culturale da cui era caratterizzata.

Il Medioevo si muove nella dialettica tra Papato e impero, troppo preoccupato, forse, di trovare un ordine e di conservare intatte le fragili strutture economico-sociali create nei secoli di particolarismo e assenza del potere centrale, per poter pensare alla riflessione o rischiare nuovamente una dispersione anarchica del potere.

L’ideale democratico rinasce dunque nell’età moderna nei "sogni" dei maggiori pensatori. E’ praticamente impossibile un percorso che tenga conto degli innumerevoli contributi a tale dibattito che riguarda non solo gli ideali democratici, ma anche la loro compatibilità con altri ideali, soprattutto liberali, con i sistemi esistenti, con le diverse concezioni dello Stato.

Nel Seicento Baruch Spinoza scrive che la democrazia è la forma di organizzazione sociale naturale, il governo tipo, perché è il governo del popolo esercitato dal popolo e quindi il regime politico più "ragionevole" e più "libero". Se infatti società, stato e governo formano una unità inscindibile nel pensiero di Spinoza, la democrazia è il regime che consente il maggior rispetto per la libertà naturale degli individui perché in essa "nessun individuo trasferisce il suo diritto naturale a un altro individuo... Egli lo trasferisce alla totalità della società di cui fa parte; gli individui rimangono così tutti uguali, come poco prima nello stato di natura".

A Spinoza dobbiamo, dopo due millenni di buio, il riaccendersi della fiammella della democrazia. Ma il pensatore a cui noi direttisti dobbiamo l’impianto filosofico fondamentale della nostra azione è Jean Jacques Rousseau.

Prima di prendere in considerazione la nascita di quella che Rousseau chiama la società giusta, la cui genesi è descritta nel celebre Contratto sociale, è forse opportuno prendere in considerazione la situazione originaria dell'uomo; solo a partire dall'analisi dello stato di natura così come è inteso dal filosofo ginevrino sarà possibile rilevare le differenze esistenti non solo tra questo stadio della vicenda umana, ma anche tra il pensiero dei contemporanei di Rousseau rispetto al suo.

Innanzitutto, Rousseau critica esplicitamente l'idea di stato di natura propugnata dai giusnaturalisti: come emerge già nella prefazione al Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1753), non è corretto cercare di conoscere lo stato originario dell'uomo proiettandovi per analogia i vizi, le passioni e gli impulsi all'azione che sono invece propri dell'essere sociale dell'uomo stesso e che quindi non si addicono a definire una situazione in cui l'uomo vive invece isolato e per questo indipendente dai suoi simili. Ciò ha portato a fraintendere anche il motore della genesi dello stato sociale, la quale sembra postulare, da parte degli individui, dei "poteri intellettuali" assolutamente incompatibili con la primitività della situazione in cui tale genesi si collocherebbe.

L'uomo naturale di Rousseau, infatti, vivendo a stretto contatto con la natura stessa e in pressoché totale solitudine, non ha la necessità di programmare la propria esistenza oltre l'immediato presente: non sarebbe in grado, dunque, di compiere quelle supposizioni e quei ragionamenti astratti che stanno alla base del pactum istitutivo dello Stato così come esso è prospettato in Hobbes o Locke.

Anche il conflitto con i propri simili (il bellum omnium contra omnes hobbesiano) è un problema estraneo all'uomo naturale di Rousseau, sia per l'esistenza atomizzata che questi conduce, sia perché non vi sarebbero passioni di predominio a guidare la sua condotta: la spinte fondamentali che il ginevrino crede di scorgere alla base dell'azione degli individui nello stato di natura sono essenzialmente due: l'amore di sé, che solo in un secondo tempo si trasforma in amor proprio, ossia la tendenza all'autoconservazione, e la pietà, ossia la capacità di rifiutare moralmente la sofferenza e la morte di ogni essere sensibile e specialmente di altri esseri umani

Se dunque da un siffatto stato di natura è improbabile che scaturisca una qualsiasi autorità statuale, è necessario che l'uomo progredisca per avere delle ragioni valide per associarsi coi propri simili e costituirsi in Stato.

A differenza degli animali, destinati a non evolversi in quanto a capacità intellettuali e tecnologiche, l'uomo invece è dotato, secondo Rousseau, sia dalla volontà e dalla capacità di scelta, sia della cosiddetta perfectibilité (facoltà di perfezionare se stesso e la propria esistenza); è significativo come il filosofo ginevrino dissenta a questo proposito dalla tesi, largamente diffusa in ambito giusnaturalistico, secondo la quale la cifra distintiva dell'uomo rispetto all'animale risiede nella naturale tendenza alla socialità: Rousseau contesta il semplicismo di questa tesi, così come implicitamente nega, in questo modo, la possibilità di realizzare l'ideale del cosmopolitismo illuminista, il quale implicherebbe una naturale socievolezza da parte dell'uomo.

Quali sono allora le conseguenze della volontà e della perfettibilità dell'uomo? Sono queste due capacità che spingono l'individuo a ricercare e a perseguire sempre maggior benessere attraverso l'attività economica, il lavoro, il progresso in generale. Se da un lato ciò rappresenta un perfezionamento della vita umana, nondimeno tale processo deve essere interpretato anche in negativo: il rovescio della medaglia è rappresentato dalla corruzione delle relazioni sociali, della morale e dello spirito dell'umanità: la proprietà privata, in particolare, crea disuguaglianza e quindi rivalità, invidia, cupidigia e così via. Il conflitto non appartiene dunque alla natura stessa dell'uomo, ma è un prodotto secondario della sua inevitabile uscita dallo stato di natura, nella misura in cui la natura stessa non riesca più a supplire ai bisogni "secondari" dell'uomo in continua progressione.

E' di fronte a questa situazione che appare necessario istituire in patto costitutivo della società e delle leggi che consentano la coesistenza più o meno pacifica delle ambizioni individuali.

Il contratto sociale

La necessità impellente di giungere a una conciliazione tra le diverse parti in conflitto provoca la nascita di una entità statale, che si costituisce sempre a partire da un patto. Quest'ultimo non necessariamente dà luogo a una società giusta, in quanto, scaturito dalla sopraffazione, non sempre rappresenta una soluzione conforme al bene comune.

Viceversa, indipendentemente dalla valutazione morale del patto che si istituisce, è indubbia la cesura storica che esso rappresenta: è a partire da esso che l'uomo esce dal suo stato originario per divenire uomo sociale in tutto e per tutto, dipendente dagli altri e non più dotato di assoluta indipendenza; l'uomo diventa quindi un essere morale, nella misura in cui qualsiasi categoria morale implica il vivere in società: Hobbes sbagliava a considerare gli uomini per natura cattivi, poiché ogni vizio o virtù deve avere un oggetto su cui dirigersi, cosa che non accade nella solitudine dello stato di natura.

Il contratto sociale può scaturire dunque da diverse esigenze, a seconda delle quali la società che costituisce sarà giusta o sostanzialmente iniqua.

La via cattiva è quella che parte da rivendicazioni inerenti alla componente materiale dell'uomo, prima fra tutte quella della tutela della proprietà privata. Lo stato nascente si fonda sull'egoismo e sulla diseguaglianza: l'iniquità di un sistema simile è palese e difficilmente esso potrà rispondere, sul lungo periodo, al bisogno di sicurezza di uomini trincerati dietro a reciproche ostilità. La libertà che in questo modo verrebbe assicurata al singolo (sempre che non ci si trovi in uno stato assoluto di tipo hobbesiano) è semplicemente quella di godere del proprio patrimonio, è il diritto a un ambito privato nel quale lo Stato non possa interferire: si cerca quindi di ricalcare quell'autonomia che distingueva l'uomo naturale, senza rendersi conto che questi è irrimediabilmente cambiato e trasformato in un essere sociale.

La via buona è quella descritta da Rousseau nel Contratto Sociale: essa dà luogo a una società giusta, poiché nasce dalla constatazione dell'illibertà che si è venuta a creare col progresso dell'uomo, senza per questo pretendere di ritornare allo stato di natura (la regressione è per Rousseau un fatto non utopico, ma totalmente impossibile). La soluzione prospettata nel Contratto sociale è praticabile anche a partire da una situazione di società iniqua come quella descritta sopra, in quanto non nasce uno stato legittimo dalla rinuncia alla propria libertà così come non può nascere per natura un'autorità cui trasferire i propri diritti in cambio di sicurezza pubblica e privata.

La società giusta

Lo stato prospettato nel Contratto sociale è quello che autenticamente è in grado di restaurare la libertà perduta con l'uscita dalla solitudine naturale; tale libertà, però, non sarà più quella assoluta del primitivo, ma quella relativa dell'uomo inserito in un contesto sociale.

Il patto non risiede dunque nel trasferimento della libertà del singolo a un sovrano esterno: nella società giusta è l'individuo a alienare i propri diritti alla società nel suo insieme, di cui egli stesso fa parte. Ciò equivale alla rinuncia al proprio io particolare a favore di un io comune all'interno del quale la stessa libertà possa trovare esplicazione: in verità l'uomo aderente al contratto sociale è libero proprio perché non sottoposto all'arbitrio altrui, ma alla volontà generala che egli stesso concorre a formulare e a esprimere attraverso la legge.

L'obbedienza al corpo sovrano non rappresenta quindi una costrizione, in quanto l'individuo non fa che obbedire a se stesso, al suo "io comune".

Allo stesso tempo l'uomo diventa un essere morale, proprio perché entro lo stato sociale ha modo di essere libero e di non subire più la volontà altrui. Affinché però tutti non debbano obbedire ad altri che a se stessi, è necessario che tutti rinuncino completamente alla propria libertà particolare: l'uguaglianza tra i contraenti che si costituiscono in corpo sociale è, da questo punto di vista, condizione necessaria.

Analogamente, l'uguaglianza tra i membri dello Stato è anche uno dei fini dello Stato stesso: la disuguaglianza è concessa fino a quando nessuno si trovi a dover dipendere da un altro (privato), poiché in tal caso il sottomesso perderebbe la propria libertà, la quale è invece il fine immediato del contratto.

Si può quindi affermare che, sebbene lo stesso Rousseau parta da una posizione che molto deve alla tradizione del contrattualismo moderno, tuttavia il valore che egli assegna al contratto è profondamente diverso; nella misura in cui al contraente non è richiesto di avocare ad altri la propria libertà (pactum subiectionis) ma di obbedire a se stesso riversando il proprio potere individuale sul sovrano di cui egli stesso fa parte.

Il sovrano

L'individuo inserito nella società del Contratto sociale si trova quindi scisso nelle sue componenti principali: da un lato l'io materiale, privato, destinato a essere comandato e per questo conteggiato tra i sudditi; dall'altro l'io comune, spirituale, in grado di vedere l'interesse generale oltre le passioni individuali di cui è invece portatore l'io materiale.

Per questa sua facoltà di comprendere che cosa sia il bene comune, quegli uomini spiritualizzati che sono i cittadini fanno parte del sovrano, ossia di quell'organo deputato a esprimere la volontà generale attraverso leggi valevoli per tutti i membri dello Stato.

Tutti sono contemporaneamente sudditi e sovrani, da cui si deduce che, per mantenere questa coincidenza, la sovranità (che ovviamente appartiene al popolo) non può essere né alienata, in quanto in tal caso qualcuno sarebbe solo suddito, perdendo la propria libertà, né divisa, perché allora non risponderebbe più alla volontà generale.

Rousseau nega quindi la possibilità di separare i poteri dello stato: se tutto il potere individuale dei singoli è confluito nel sovrano, e questo non può essere diviso, allora il governo e la magistratura non possono esistere come dipartimenti del sovrano, bensì come sue emanazioni.

Esiste inoltre un'ulteriore impedimento alla definizione del governo quale costola del sovrano: poiché il sovrano esprime il proprio essere prodotto dalla confluenza delle volontà private nell'attività legislativa e tale attività mira sempre al generale, mai al particolare, non può far parte del sovrano il governo che, presiedendo all'applicazione delle leggi sui sudditi, si volge al particolare piuttosto che al generale.

Le leggi

Le leggi, nello Stato di Rousseau, sono emesse dal sovrano in conformità con quella che è definita volontà generale.

Si tratta di un concetto piuttosto complesso, che può essere letto sotto una triplice luce:

  • Dal punto di vista logico, la volontà generale si applica sempre a un fine, mentre quella individuale tende a un mezzo; ciò equivale a dire che, mentre la volontà particolare tende a un oggetto particolare e legato alla sfera della materialità, quella generale tende all'universale e per questo meglio si presta ad estrinsecarsi sotto forma di leggi di portata generale. Per questa ragione quando la volontà generale tende a un oggetto particolare (ad esempio all'interesse di un gruppo), essa diventa cattiva e occorre correggerne la rotta. Rousseau è però ottimista da questo punto di vista: all'interno del sovrano la volontà generale è destinata a prevalere per il reciproco elidersi delle volontà particolari opposte.
  • Dal punto di vista giusnaturalistico un apparente antenato della volontà generale del filosofo ginevrino si può riscontrare in Hobbes; si tratta però - vale la pena ripeterlo -, di una parentela solo superficiale, in quanto Hobbes concepisce la volontà generale esclusivamente come finzione giuridica: i contraenti del pactum subiectionis avocano la propria volontà a un sovrano esterno, fingendo che le leggi che da quel momento saranno promulgate da quest'ultimo corrispondano alla propria volontà, quando in realtà un contratto simile non può che provocare l'arbitrio del sovrano legibus solutus. Viceversa Rousseau proclama a chiare lettere illegittimo quel regime nel quale il popolo si consegni a un sovrano rinunciando alla propria libertà: in primo luogo perché nessuno può voler cadere in schiavitù di qualcun altro, in secondo luogo perché, anche se costretto a farlo, il suddito non perde quella libertà originaria che gli consente di ribellarsi legittimamente al proprio tiranno. La volontà generale di Rousseau non è una finzione, ma un'entità metafisico-morale.
  • Dal punto di vista teologico, la volontà generale coincide con la volontà legislatrice di Dio, analogamente a quanto accadeva all'epoca della teologia fisica, dove era l'ordine gerarchico e meraviglioso del cosmo a manifestare il volere della divinità.

Rousseau chiama volontà generale in senso proprio ed eccellente la volontà del sovrano in uno Stato: egli esclude quindi la possibilità che esista un a volontà generale sovranazionale, che accomuni l'intero genere umano.

Rousseau in un certo senso, dunque, nega la legittimità o almeno la praticabilità dell'ideale cosmopolita illuministico, ma non scade in un nazionalismo vuoto di senso: la sua posizione è anzi assunta per coerenza con le premesse generali della sua opera: la specie umana non può costituire una società e quindi avere una volontà generale, in quanto essa è semplicemente una aggregazione di individui portatori di interessi personali i quali non formano un corpo sociale definibile come sovrano.

Oltretutto, l'illuminismo cosmopolita postulava, alla base dell'aggregazione stessa, una naturale socievolezza degli uomini che, si è visto, Rousseau non scorge nemmeno nel passaggio da stato di natura a stato sociale.

Il problema è ora quello di definire come rintracciare, disciplinare e tradurre in legge la volontà generale.

Vale la pena ripetere che la volontà generale non è la volontà determinata dalla somma delle singole volontà degli individui, ma è la volontà del corpo che li comprende. La differenza tra volontà individuale e generale non è quantitativa ma qualitativa. Ottimisticamente, Rousseau ritiene possibile identificare tale volontà mediante la consultazione diretta di tutti i cittadini (la sovranità non può essere né delegata né alienata), i quali, dal canto loro, saranno dotati di virtù sufficiente a preferire l'interesse dello Stato al proprio.

La volontà generale emergerà grazie all'elisione delle volontà individuali contrastanti ed estranee al bene comune.

L'ideale di società di Rousseau è dunque quello di una comunità piccola, i cui cittadini possano riunirsi tutti contemporaneamente nello stesso luogo (non devono vivere sparpagliati su un territorio troppo vasto); l'attività politica dovrebbe poi essere tanto frequente da abituare il popolo alla sua pratica corretta, cioè a scorgere il bene comune al di là di quanto dettato dagli impulsi materiali dell'io individuale.

La concezione della volontà generale di Rousseau vieta poi l'esistenza di partiti politici o gruppi di pressione ed incanalamento del consenso popolare che si accordino a spese dell'unità: gruppi del genere altererebbero il numero delle volontà individuali rendendo difficile la loro reciproca elisione; fortunatamente ciò si verifica solo quando il corpo dello Stato non è più compatto, cosicché il cittadino si dimostra o apatico, o incapace di tutelare alcunché oltre al suo privatissimo interesse.

La volontà generale, quindi, non solo è misticamente connotata come assoluta, inalienabile, indivisibile, infallibile e così via: essa si basa sul presupposto etico che sia la virtù civica a muovere il cittadino, e che tale virtù gli sia stata insegnata dalla convivenza sociale stessa.

Sovrano e magistrato

La volontà generale è una prerogativa del popolo, in quanto esso solo detiene la sovranità. Gli atti del sovrano devono essere solo leggi, aventi cioè oggetto generale: l'applicazione della legge, atto che implica una discesa nel particolare, è compito del governo.

Secondo Rousseau il governo non è un potere, in quanto la sovranità è indivisibile, ma una emanazione del potere detenuto dal popolo sovrano; più precisamente esso è il corpo intermedio che funge da collegamento tra il popolo come sovrano (che promulga le leggi) e il popolo come suddito (che ubbidisce alle leggi).

Il rapporto tra potere legislativo ed esecutivo è spesso posto in relazione con quanto Rousseau sostiene a proposito dell'azione dell'uomo in generale: quest'ultima, infatti, ha sempre due cause: una morale, cioè la volontà, ed una fisica, ossia la forza materiale (puissance). Il governo, appunto, mette in pratica con la propria forza la legge, collegando così i cittadini riuniti del sovrano con i sudditi isolati che eseguono le prescrizioni legislative.

Per questo suo carattere di medium il sovrano non può essere così debole da non avere autorità sui sudditi presi singolarmente, ma non deve nemmeno essere così potente da intervenire sul lavoro dei cittadini come corpo riunito nel sovrano.

La forza del sovrano dipende è inversamente proporzionale alla fatica che deve sostenere per riunire i suoi membri in un corpo; per comprendere questo concetto occorre tener conto del fatto che nella persona del magistrato (membro del governo) convivono tre diverse volontà generalmente in conflitto tra loro:

  • La volontà propria dell'individuo, la quale mira al vantaggio privato.
  • La volontà di corpo della magistratura, generale in rapporto ai singoli magistrati, ma particolare rispetto a quelle del popolo.
  • La volontà generale ed infallibile del sovrano, sempre tesa al bene comune.

In un regime correttamente funzionante, sia la prima che la seconda volontà dovrebbero essere subordinate alla terza.

Tuttavia, la volontà individuale diminuisce con l'aumento del numero di coloro che compongono il corpo di cui l'individuo fa parte. Segue che il governo più forte è quello monarchico, in quanto volontà particolare e di corpo coincidono, mentre quello più debole è quello democratico, dove, partecipando al governo tutti i cittadini, il divario tra volontà particolare e di corpo è il massimo; saranno quindi necessari più sforzi da parte del governo per tenere uniti i suoi membri.

Rousseau specifica però di non entrare qui nel merito della rettitudine del governo, ma solo in quello della sua forza: è evidente, infatti, che il governo di tutti è anche quello in cui volontà popolare e volontà di corpo si avvicinano fino a sovrapporsi.

Il governo ideale dovrà dunque essere esteso il più possibile, per evitare conflitti tra la volontà di corpo e quella generale, ma anche il più possibile concentrato, in modo che le volontà individuali non costringano il governo a un gran dispendio di energie per tenere uniti i suoi membri.

Rousseau individua dunque tre forme di governo a partire dal numero di coloro che, all'interno dello Stato, detengono il governo. La sovranità resta in tutti i casi, almeno a livello teorico, prerogativa inalienabile del corpo civile nella sua totalità: se distinzione ci deve essere tra le forme politiche, essa non può riguardare l'aspetto del legislativo, ma unicamente quello del governo che, come si è già visto, non è una parte dell'unico potere sovrano, ma un'emanazione di quest'ultimo.

Le tre forme di governo individuate da Rousseau sono la democrazia, l'aristocrazia e la monarchia. I limiti tra una e l'altra sono però piuttosto labili, al punto da poter prospettare soluzioni di tipo misto che accorpino gli elementi migliori di ciascuna.

In secondo luogo Rousseau non si dichiara apertamente a favore di una forma piuttosto di un'altra: ciascuna delle tre, infatti, è la migliore se applicata nel contesto sociale e ambientale più adatto. Ad esempio, la democrazia, che implica la possibilità da parte dei cittadini di riunirsi con una certa frequenza, necessita di un territorio non troppo vasto e di un popolamento non rarefatto.

Il governo democratico

In un governo democratico il sovrano coincide con il principe, cioè il potere legislativo appartiene al popolo intero esattamente come quello legislativo.

Lo stesso corpo promulga le leggi e ne permette l'applicazione, dirigendo la sua attenzione ora all'universale, ora al particolare. Le stesse persone si trovano coinvolte sia come cittadini dotati di sovranità, sia come magistrati, sia come sudditi obbligati, come individui singoli, a obbedire alle stesse leggi di cui presiedono all'esecuzione.

Un vantaggio innegabile di questo sistema risiede nella necessaria concordia tra intenzioni del legislativo e applicazione della legge stessa, poiché, evidentemente, nessuno interpreta la legge meglio di chi l'ha promulgata.

D'altro canto Rousseau mette le mani in avanti: nella democrazia cose che devono rimanere distinte non lo sono: la volontà legislativa rischia di corrompersi nella misura in cui le medesime persone si occupino contemporaneamente di questioni particolari come membri dell'esecutivo. Il rischio rilevato dal filosofo ginevrino sta nel continuo spostamento dell'attenzione dall'universale della legge al particolare del governo.

Conseguenza immediata sarebbe l'abuso di potere da parte del governo stesso, fatto che porterebbe alla rovina stessa dell'istituzione democratica.

Viceversa, se il governo non abusasse del suo potere all'interno della democrazia, tale governo non avrebbe più ragione d'essere, perché, come sostiene Rousseau, "un popolo che governasse sempre bene, non avrebbe bisogno di essere governato".

Altre obiezioni mosse dal filosofo al regime democratico muovono da ragioni eminentemente pratiche: il legislativo può riunirsi pochi giorni all'anno per emanare le leggi, mentre l'ordinaria amministrazione del governo obbligherebbe i cittadini, che nel regime democratico rousseauiano occupano tutti una magistratura, a restare perennemente riuniti.

Ciò equivarrebbe a distogliere tutti i cittadini dalle loro occupazioni private, in primo luogo dall'attività produttiva necessaria alla sopravvivenza e al benessere dello Stato stesso. La democrazia può esistere dunque solo in quelle società (come la polis greca) in cui tutte le attività materiali siano demandate agli schiavi; lo stesso Rousseau ha però dimostrato l'inammissibilità non solo etica ma anche logica dell'istituto della schiavitù.

D'altro canto, nel caso in cui il governo sia affidato a delle commissioni, la democrazia si trasformerebbe in oligarchia, in quanto il potere esecutivo passerebbe nelle mani del più forte e agile di quei gruppi.

Per quanto riguarda più propriamente le precondizioni necessarie all'istituzione e al mantenimento dello Stato democratico, oltre alla già menzionata scarsa estensione del territorio, Rousseau ricorda anche la conoscenza reciproca che deve esistere tra tutti i cittadini, la semplicità dei costumi e, molto rilevante, l'eguaglianza materiale (il lusso è ritenuto fattore incompatibile con la democrazia).

Come Montesquieu, Rousseau indica anche la virtù come una condizione indispensabile per la democrazia, ma proprio per questo è molto scettico circa l'applicabilità della forma democratica agli Stati umani: piuttosto lapidaria a questo proposito è la sentenza, contenuta in chiusura del cap. 4 del libro III del Contratto Sociale:

"Se ci fosse un popolo di dèi, si governerebbe democraticamente. Un governo tanto perfetto non si addice agli uomini".

Questo avviene proprio perché difficilmente l'uomo riesce a avere quelle virtù che Rousseau indica come necessaria alla democrazia; già nel semplice contesto dello Stato generato dal contratto sociale, indipendentemente dalla forma di governo, l'uomo fatica a mettere tra parentesi il suo io individuale in nome del bene comune: a maggior ragione faticherà a farlo laddove ha la possibilità di partecipare direttamente anche all'attività dell'esecutivo.

La democrazia richiede dunque che le qualità umane che Rousseau giudica alla base della creazione dello Stato siano presenti nella cittadinanza elevate all'ennesima potenza.

LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

La democrazia è nata da una concezione individualistica secondo cui la società è un prodotto artificiale della volontà degli individui; alla formazione di tale concezione hanno concorso tre eventi: il contrattualismo del Sei-Settecento, la nascita dell’economia politica, ovvero di un’analisi della società e dei rapporti sociali il cui soggetto è il singolo individuo, la filosofia utilitaristica da Bentham a Mill.

Partendo dall’ipotesi dell’individuo sovrano che, accordandosi con altri individui ugualmente sovrani, crea la società politica, la dottrina democratica aveva immaginato una società senza corpi intermedi, caratteristici della società corporativa delle città medievali. Quello che è avvenuto negli stati democratici è perfettamente l’opposto: soggetti politicamente rilevanti sono diventati sempre più i gruppi, grandi organizzazioni, associazioni, sindacati, partiti, e sempre meno gli individui. I gruppi, non gli individui sono i protagonisti della vita politica, con la loro autonomia rispetto al governo centrale.

Il modello ideale era insomma quello di una società centripeta, la realtà è quella di una società centrifuga che non ha un solo centro di potere, la volontà generale di Rousseau, ma ne ha molti e merita il nome di società policentrica. Il modello dello stato fondato sulla sovranità popolare che era stato ideato a immagine e somiglianza della sovranità del principe, era quello delle monadi di Leibniz, mentre la società reale è pluralistica.

Altra promessa non mantenuta dalla democrazia rappresentativa è la sconfitta del potere oligarchico. Il principio ispiratore del pensiero democratico è sempre stato la libertà intesa come autonomia, cioè capacità di dare leggi a se stessi, secondo la definizione di Rousseau, che dovrebbe avere come conseguenza la perfetta identificazione tra chi pone e chi riceve una regola di condotta, e quindi l’eliminazione della tradizionale distinzione tra governanti e governati. Invece la democrazia rappresentativa oggi è sempre più legata allo schema di élites dominanti e ristrette che governano le moltitudini. Naturalmente la presenza di élites al potere non cancella la differenza tra regimi democratici e autocratici e Schumpeter sostenne che la caratteristica di un sistema democratico non è l’assenza di élites, ma la presenza di più élites in concorrenza tra loro per ottenere il voto popolare.

Il problema resta quello della formazione delle élites, oggi sempre più inaccessibili e basate su un modello sociale sostanzialmente neo-feudale: nelle élites si entra per nascita o per censo e la mobilità sociale è estremamente ridotta.

La democrazia, se non è riuscita a sconfiggere le oligarchie, tanto meno ha potuto occupare tutti gli spazi in cui si prendono decisioni per un intero gruppo sociale. A questo punto la distinzione che interessa non è solo quella tra potere di molti e potere di pochi, ma quella tra potere discendente e ascendente. La situazione attuale è un tradimento degli ideali democratici che sono nati per legittimare e controllare le decisioni politiche in senso stretto, dove il singolo viene considerato come cittadino e non nella molteplicità dei suoi ruoli all’interno della società. Se dopo la conquista del suffragio universale è ancora possibile un avanzamento della democratizzazione questo deve avvenire con il passaggio alla democrazia diretta e nella conseguente trasformazione della democrazia politica in democrazia sociale. Sino a quando infatti i due grandi blocchi di potere dall’altro esistenti nella società avanzata, l’impresa e l’apparato amministrativo, non subiscono un processo di democratizzazione, il processo di democratizzazione non potrà dirsi compiuto.

Fonte: democraziadiretta.tripod.com/LA_DEMOCRAZIA_DIRETTA.htm

Vedi anche Il senso della democrazia diretta e Democrazia il dio che ha fallito

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018