LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


LA TRAMA DELLE BACCANTI
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La vicenda narrata nelle Baccanti si svolge, secondo l'unità di spazio e tempo che caratterizza tutte le tragedie greche, interamente a Tebe, anche se con alcune digressioni, basate sulla narrazione di testimoni oculari, su ciò che accade sul vicino monte Citerone.

Il primo personaggio a comparire sulla scena è lo stesso Dioniso, il quale spiega al pubblico il motivo della sua visita a Tebe. Essa è dovuta a un fatto personale: egli desidera punire la città che, pur avendo dato i natali a sua madre Semele, non ha voluto riconoscere che ella si fosse legata in amore con Zeus dando così la luce a lui, Dioniso, dio della vite e dell'ebbrezza. La vicenda si presenta dunque, sin dall'inizio, come la vendetta di un dio contro la stirpe reale della città di Tebe - e con ciò quindi verso la città stessa - per una mancanza da essa compiuta nei suoi riguardi. Essa segue quindi lo schema classico di tutte le tragedie greche, basate sul binomio colpa umana (hybris) / ira e punizione divina (phthonos theòn).

Egli è partito dalla Lidia assieme alle sue fedelissime Baccanti (seguaci del suo culto) ed è giunto attraverso varie peregrinazioni fino a Tebe, nella quale, prima tra tutte le città greche, intende manifestare la propria divinità. Il fatto che i tebani riconoscano la sua natura divina implica difatti che essi riconoscano anche l'innocenza di sua madre, l'essersi cioè ella veramente unita con Zeus, contro le accuse che sua sorella Agave - madre di Penteo, l'attuale re di Tebe - ha sparso contro di lei. Dopo Tebe, egli afferma, lui e il suo seguito continueranno il loro viaggio tra le città della Grecia, seminando anche lì scompiglio e diffondendovi i loro riti orgiastici.

Intanto, tutte le donne tebane sono state trascinate dall'estasi e dalla follia mistica sul monte Citerone, dove "abitano sotto gli alberi e tra le rocce che non hanno tetto", mentre gli stessi cittadini, posti di fronte al fatto prodigioso appena compiutosi, sono in qualche modo chiamati a prendere posizione: o contro o a favore il nuovo dio.

Proprio questo fatto dà lo spunto al primo episodio della tragedia: episodio nel quale vediamo Cadmo (padre di Agave e di Semele e nonno di Penteo) e l'anziano indovino Tiresia recarsi a rendere gli onori a questo nuovo dio, del quale - contro l'opinione di Agave, anch'essa tuttavia ora sulla montagna in preda all'estasi mistica, e di Penteo suo figlio - riconoscono la grandezza. La scena che ci si presenta ha un sapore ambiguo. Da una parte infatti la visione di questi due anziani signori che scimmiottano estasi a loro negate non può non avere un che di patetico e finanche di comico. Al tempo stesso però essa ha anche un che di sacrale, nella misura in cui una tale adesione ai riti dionisiaci (per quanto superficiale e al fondo opportunistica, soprattutto nel caso di Cadmo) può essere intesa come l'atto di sottomissione dovuto a una divinità.

Il cammino dei due verso il Citerone è tuttavia turbato dall'entrata in scena di Penteo, figlio di Agave nonché attuale re di Tebe, il quale redarguisce violentemente i due anziani signori per il loro comportamento infantile. Ha qui inizio un violento battibecco durante il quale i due vecchi rimproverano al giovane il suo ostinato rifiuto della nuova divinità, invitandolo - seppure con differenti ragionamenti - a ravvedersi.

Le loro argomentazioni sono difatti molto diverse tra loro. Cadmo si dimostra per così dire un politico consumato, la cui adesione ai riti bacchici ha motivazioni essenzialmente pragmatiche: rendere onore a Dioniso significa infatti per lui dare lustro sia alla città di Tebe, che alla casata di cui egli stesso fa parte. Si tratta evidentemente di un rovesciamento opportunistico delle precedenti posizioni, fino ad allora ufficiali.

Tiresia invece, più che come un profeta (quale dovrebbe essere), ci appare qui quasi come un filosofo. Ciò porta molti critici a svalutare tale personaggio, a vedere in esso l'ennesima denuncia da parte dell'autore della decadenza della polis, incapace di esprimere figure realmente sacrali perché oramai invischiata in una sterile temperie razionalista. Tuttavia, le osservazioni di Tiresia non mancano a mio avviso di lucidità e sottigliezza, ragion per cui mi sembra eccessivo e fuorviante ridurre il suo discorso a una semplice manifestazione di impotenza. Piuttosto, se una qualche simbologia vogliamo vedere in questo personaggio, egli potrebbe a mio avviso rappresentare la componente più "illuminata" del mondo ellenico, quella più ricettiva e meno prevenuta di fronte agli stimoli culturali esterni: l'opposto di Penteo e di Agave, insomma.

In particolare, Tiresia fa un'affermazione che verrà in seguito ribadita dallo stesso Dioniso, quando osserva che "anche nei riti di Bacco colei che è saggia non potrà essere corrotta". Egli dimostra così di avere una visione più lucida e meno superficiale sia rispetto a Cadmo, che riduce tutto a un mero calcolo di opportunità politiche, sia rispetto a Penteo, che bolla il misterioso straniero (dietro cui, ovviamente, si nasconde il dio) come un semplice ciarlatano e le baccanti come donnacce che si abbandonano ai piaceri sfrenati del sesso, "facendosi schiave delle voglie dei maschi".

Come infatti avremo di nuovo modo di sottolineare più avanti, Tiresia appare, tra i personaggi "alti" della tragedia, l'unico che non abbia una visione colpevolizzante e volgare dei riti bacchici. Il suo pensiero si pone qui in netta contrapposizione rispetto a quello di Penteo, che in essi vede invece solo dissoluzione e immoralità - e ciò a causa, soprattutto, della loro contrarietà all'etica maschilistica della polis.

Mentre i due vecchi riprendono la strada per il Citerone, Penteo riceve la visita di alcune guardie che gli consegnano incatenato il dio Dioniso. Esse tengono a informarlo del fatto che lo straniero non ha opposto loro alcuna resistenza e, mostrando verso quest'ultimo un'istintiva reverenza, sottolinenano di avere agito come hanno agito solo per obbedire agli ordini del loro sovrano.

Da qui in avanti l'azione tragica acquista per così dire una progressione e un ritmo "implacabili", che a me personalmente ricordano quelli di un'altra celebre tragedia greca: l'Edipo Re di Sofocle. Tutto ruota infatti attorno al progressivo disvelamento della potenza del dio Dioniso nonché, contemporaneamente, dell'errore e della follia suicida di Penteo, vittima sacrificale e inconsapevole del primo (la quale, in modo certamente non casuale, ci riporta alle origini stesse del teatro, a quei riti propiziatori basati sull'uccisione di un capro da cui con ogni probabilità esso era nato).

Inoltre, da qui in avanti l'opera acquista anche una dimensione fortemente allucinatoria. Come vedremo meglio avanti infatti, ciò che appare sulla scena tende molto spesso a rovesciarsi in un'immagine differente e finanche opposta, attraverso un turbinio di improvvise e sconcertanti rivelazioni. Tragedia del Caos e dell'apparenza ingannatrice, le Baccanti sono un'opera caleidoscopica, multiforme, nella quale è difficile se non impossibile distinguere il vero dal falso, il giusto dall'ingiusto, il bene dal male. Né è un caso quindi che molti studiosi abbiano definito quest'opera un "rompicapo insolubile".

Dopo la consegna del prigioniero al re Penteo, ha inizio tra i due una accesa discussione. Ancora una volta, Penteo si fa beffe dei riti di Bacco, promettendo infine allo straniero una morte atroce. Quest'ultimo afferma invece di avvertire vicino a sé la presenza del dio (che poi è lui stesso) e di sentirsi perciò sicuro di non correre nessun rischio. Come già aveva fatto Tiresia, anche il misterioso straniero osserva come i riti del nuovo dio, pur basati sul rinnegamento della ragione e sull'abbandono incondizionato al potere dei sensi, non possano per questo essere identificati con l'immoralità e con la corruzione. "L'immoralità - afferma egli beffardamente - esiste anche alla luce del giorno".

In questo modo, Dioniso cerca di sfatare un antico pregiudizio che identifica l'oscurità, prediletta dalle baccanti, con la corruzione morale e con la distorsione percettiva, adombrando implicitamente il fatto che possa essere invece proprio la luce, immagine stessa della ragione, a celare la Verità attraverso l'apparenza di forme luminose e ingannatrici. Si tratta - come si può vedere - di un vero e proprio rovesciamento del discorso tradizionale che vede la conoscenza come il risultato di un'indagine fondata su strumenti razionali (una convinzione questa, che già con il relativismo dei primi sofisti, di cui Euripide era stato in qualche modo discepolo, aveva iniziato a vacillare).

Questo secondo episodio si chiude con la profezia del misterioso straniero, che annuncia a Penteo che il dio presto gli presenterà il conto per i suoi crimini, mentre le guardie e lo stesso Penteo lo trascinano via per imprigionarlo.

Dopo un intermezzo corale, l'azione riprende con il ritorno di Dioniso sulla scena. Questi racconta al coro delle baccanti d'Asia come in realtà il dio non abbia avuto bisogno di liberarlo dalle catene di Penteo, dal momento che il re, pur credendo di incatenare lui, in realtà incatenava un animale della sua stalla, mentre lui in disparte assisteva divertito allo spettacolo! é questa la prima di una lunga serie di allucinazioni visive che avranno luogo sulla scena e che coinvolgeranno sia il personaggio di Penteo sia, nell'ultima scena, sua madre Agave. Come più avanti, anche in questo caso il passaggio dalla realtà all'allucinazione avviene in modo repentino e senza soluzione di continuità, al punto da apparire, più o meno come nei sogni, qualcosa di naturale che non necessita di spiegazioni. Né ciò è casuale, dal momento che il potere dell'inganno - o, forse dovremmo dire, il potere di disvelare una realtà diversa da quella materiale - appare la caratteristica peculiare della divinità di Bacco.

La narrazione di quest'ultimo continua poi con la caccia disperata di Penteo allo straniero (cioè a lui), con il suo accanirsi su un fantasma (che il dio avrebbe creato per difenderlo) che ne aveva le sembianze, ed infine con la rovina del Palazzo del re per una forte scossa di terremoto.

Entra infine in scena Penteo che, fuori di sé, riconosce il fuggitivo. Egli vorrebbe, prima di tutto, sapere da lui come abbia fatto a liberarsi. A questa domanda Dioniso risponde che è merito del dio che lo protegge. Ma questa nuova discussione è interrotta dall'arrivo di una guardia che riferisce al sovrano alcuni eventi prodigiosi cui ha assistito sul Citerone, e che riguardano le baccanti.

Tutto ha avuto origine dal tentativo di un gruppo di soldati di catturare una di queste, per compiacere il re. Esse erano addormentate e quindi facili prede, o così sembravano. La guardia descrive sbalordita gli avvenimenti inspiegabili che hanno avuto luogo al loro risveglio ("Una di loro, impugnato il tirso, colpì una pietra / e ne sgorgò una sorgente d'acqua fresca. / Un'altra smosse il suolo col nartece / e là il dio fece zampillare una fonte di vino ..."). Ma prima di descrivere questi fenomeni, fa un'osservazione che ribadisce il concetto già espresso da Tiresia e da Dioniso. Egli tiene a smentire la presunta immoralità delle baccanti, che descrive invece come "decorose e composte e non, come tu [Penteo] dici, / inebriate dal vino e dal clamor dei flauti."

Ancora una volta dunque, si sottolinea qui come il culto di Bacco non debba essere degradato a semplice depravazione morale, ma visto piuttosto - come si evince dal seguito del suo racconto - come un momento mistico di unione tra Spirito e Natura. Al contrario, è proprio la psicologia morbosa e contorta di Penteo a vedervi una corruzione che è invece sua propria.

La scena descritta dalla guardia ha assieme un che di selvaggio e di bucolico. Essa evoca una condizione idealizzata di armonia tra uomo e paesaggio che tanta parte avrà anche in futuro nella letteratura ellenistica e in quella romana ("Alcune stringevano tra le braccia un cerbiatto o un cucciolo / selvaggio di lupo e li allattavano ... Si adornavano / di corone d'edera, di quercia e di smilace fiorito"). Si avverte in questa rappresentazione tutto il rimpianto per una vagheggiata età dell'oro, per una stagione arcaica e, almeno nell'immaginazione dello scrittore e dei suoi spettatori, incontaminata dell'esistenza sociale degli uomini.

Ma la situazione si stravolge molto velocemente. Le baccanti iniziano infatti a celebrare i loro riti e tutto il monte, animali compresi, sembra essere colto da un sacro furore, coinvolto in una frenetica danza. Si colloca a questo punto il maldestro tentativo delle guardie di aggredire e catturare una baccante. Esso scatena la reazione incontrollata delle sue compagne le quali, riusciti a fuggire i loro assalitori, si riversano sugli animali e sui villaggi vicini rivelando la forza e i poteri assolutamente sovraumani delle seguaci del culto dionisiaco.

Il discorso della guardia si conclude con un'invocazione a Penteo, affinché apra le porte a questo nuovo dio, in ossequio alla sua potenza e magnificenza. Tale discorso inoltre, rimanda anche a un'altra tematica propria di quest'opera, già affrontata peraltro - e in modo più esplicito - in un precedente intermezzo corale. La sua "simpatia" per Dioniso infatti, è evidentemente quella istintiva del popolo, della gente semplice e "alla buona" che sceglie di vivere la vita giorno per giorno, attimo per attimo, rimanendo in gran parte estranea a quei valori tipicamente aristocratici di razionalità e autocontrollo di cui Penteo si fa invece alfiere.

In tal senso, mi sembra possibile rintracciare in quest'opera anche un tema di carattere sociale, oltre che culturale: Dioniso può infatti essere visto come rappresentante e interprete dello spontaneismo della gente comune, di quella "fede dei semplici", di quella "vita della folla più umile" che - dice altrove il coro delle seguaci di Bacco - "è la mia legge", in contrapposizione all'etica razionalista di derivazione aristocratica che ha improntato la cultura della polis classica, permeandola peraltro un po' a tutti i livelli socio-culturali. Ancora una volta dunque, possiamo osservare come quest'opera sia legata a filo doppio con la crisi della polis classica, con quell'inesorabile tramonto che, alla vigilia della sconfitta del 404, l'ateniese Euripide molto probabilmente già avvertiva distintamente.

Ma Penteo non intende certo ascoltare il consiglio della guardia. Anzi, il racconto terrificante delle gesta delle baccanti, capaci di annichilire senza difficoltà un intero villaggio di uomini in armi, e di fare a pezzi tori e vacche a mani nude, lo stimola ancor più alla battaglia. Egli decide allora di preparare l'esercito per scendere in campo contro di esse.

Il suo proposito dichiarato è quello di lavare l'onta dell'affronto subito dalla città ad opera delle sue stesse donne ("non possiamo più subire dalle donne ciò che subiamo"). Ma proprio in questo momento parossistico, in cui l'aggressività di Penteo sembra arrivare al suo culmine, ha inizio anche il totale cedimento della sua volontà a quella di Dioniso, nonché l'inizio di un calvario che culminerà con la sua morte.

Il ribaltamento avviene in modo repentino e senza che lo stesso Penteo - contrariamente al pubblico, che non può assistervi senza un brivido - ne abbia assolutamente coscienza.

PENTEO: "Portatemi le armi, e tu smettila di parlare", DIONISO: "Ah! Vuoi vederle riunite tutte insieme sul monte?", PENTEO: "Lo voglio, lo voglio: darei tutto l'oro del mondo."

Penteo è preso insomma da una smania irresistibile di assistere ai riti delle baccanti. Smania che egli giustifica a se stesso, dietro suggerimento dell'astuto Dioniso, con il pretesto di andare in perlustrazione per studiare il proprio avversario. Né egli oppone grande resistenza al proposito del suo carnefice di vestirlo come una baccante, colto com'è da una inconscia smania di emulare le sue stesse avversarie, da un desiderio irrefrenabile di immedesimarsi nella loro condizione!

Mentre egli entra in casa per vestirsi, Dioniso annuncia al coro la sua fine prossima. Quest'ultimo dal canto suo, festeggia l'evento con un canto di giubilo, che termina con una frase estremamente significativa: "...beato è soltanto l'uomo / che gode la sua felicità giorno per giorno."

L'azione riprende dopo questo breve intermezzo con il ritorno di Penteo sulla scena agghindato come una donna, oramai completamente irretito e soggiogato alla volontà di Dioniso. Il suo stato di confusione mentale ha ora assunto un carattere allucinatorio. Egli è preda di visioni di cui sembra non stupirsi affatto e che riconosce candidamente in faccia a Dioniso ("Mi sembra di vedere due soli in cielo / e due città di Tebe, due rocche dalle sette porte. / E tu che sei qui davanti a me, tu che mi guidi, ora mi sembri un toro: / sulla tua testa sono spuntate le corna."). Diviene allora fin troppo facile per il dio il compito di condurlo verso il proprio supplizio, tra beffardi complimenti e amichevoli rimbrotti per la sua acconciatura.

La scena che si presenta ha una potenza tragica assoluta, scaturente dall'accostamento tra la gioia (almeno apparentemente) inconsapevole di Penteo e la lucida volontà di morte del suo accompagnatore, da nemico improvvisamente divenuto per la sua vittima un mentore e una giuda fidata.

Dopo un ennesimo intermezzo corale che celebra l'imminente vendetta del dio e la sua tremenda potenza, entra in scena un secondo messaggero, che annuncia al coro la morte del re descrivendo il modo in cui essa è avvenuta.

Questi è il servitore che, assieme a Dioniso, ha accompagnato il re dalle baccanti e che è stato perciò testimone di tutto quel che è avvenuto da che i due si sono allontanati dalla città. Egli racconta di come, giunti nei pressi del luogo in cui si trovavano le menadi, Penteo chiedesse allo straniero di poterle vedere da un punto più favorevole, e di come questi - con forza sovrumana - agguantasse la cima di un albero e, portandola fino a terra, vi facesse salire la sua vittima. Quando quest'ultima, oramai intrappolata, non poteva più fuggire, egli scompariva improvvisamente mentre una voce dal cielo, evidentemente quella del dio stesso, avvisava le baccanti della presenza di colui che aveva osato farsi beffe di lui e dei suoi sacri riti, comandando loro di vendicarsi.

Divelto l'albero e scaraventato Penteo a terra, queste ultime - e per prima proprio sua madre Agave - si avventavano su di lui con furia selvaggia facendolo a brani.

Ora, avverte l'uomo, Agave sta tornando qui, alla sua casa ed esibisce radiosa la testa di suo figlio - che ella tuttavia, nel proprio delirio, crede essere quella di un semplice animale - come un trofeo di cui andare fiera! Prima di fuggire, per non dovere assistere a questa straziante scena, egli esprime in poche parole quella che è la morale stessa di tutta la tragedia: "Essere saggi (sophronein) e pregare gli dei: / questa è la cosa più bella" - morale che Penteo e sua madre hanno palesemente disatteso.

Entra ora in scena Agave, raggiante nel suo delirio allucinatorio. Ed anche il coro, che fino ad allora aveva espresso solo sentimenti di gioia, per un attimo pare vacillare nella sua sicurezza, impietosito da ciò che è costretto a vedere.

Ma presto ritorna anche Cadmo il quale, saputo di quanto appena avvenuto, ha raccolto assieme ad altre persone i frammenti, sparsi per tutto il Citerone, del corpo di suo nipote Penteo ricomponendoli poi nella loro forma originaria. Manca ancora ovviamente la testa, che si trova tra le mani di sua madre Agave.

Quest'ultima va incontro al padre esibendo orgogliosa un trofeo che - afferma ella in tono di affettuosa polemica - testimonia un'impresa di cui non sarebbero capaci nemmeno gli uomini della casa.

La reazione di Cadmo è composta e rassegnata. Egli comprende che l'unica cosa da fare è aiutare la figlia a rinsavire, pur sapendo che sarebbe meglio per lei perdurare nella sua attuale condizione di ignoranza che acquisire consapevolezza di quanto è realmente avvenuto.

Anche qui, come già in precedenza, si ha un ribaltamento improvviso dello stato di coscienza di un personaggio, anche se ora dall'allucinazione si passa alla realtà, e non viceversa. Il doloroso e repentino risveglio di Agave pare rappresentare anche quello di tutti gli altri personaggi del dramma (Penteo compreso), fino ad allora inconsapevolmente trascinati dal dio in un gioco tanto seducente quanto tragico nei suoi esiti.

Cadmo invita con lucida freddezza la figlia a fissare il cielo e poi le chiede se esso le sembri ancora quello di prima o se sia cambiato. Ella inizia a questo punto a rientrare in se stessa e a riacquisire lucidità. Chinatasi sul proprio trofeo riconosce la testa di suo figlio e comprende di esserne lei stessa l'assassina. La vendetta del dio è dunque oramai pienamente compiuta, poiché la tragedia è ora percepita nella sua realtà non più solo dagli spettatori ma anche dai suoi protagonisti.

Il dramma si conclude, come peraltro molti altri dello stesso autore, con l'apparizione di Dioniso il quale - finalmente liberato dalla precedente forma umana - annuncia a Cadmo e ad Agave le loro future sofferenze, al termine delle quali essi ritroveranno la pace e otterranno la riconciliazione con il dio che hanno offeso. Cadmo sarà trasformato in drago e assieme a sua moglie Armonia guiderà una schiera infinita di barbari, alla testa dei quali combatterà contro i greci, suoi conterranei; Agave e le sue sorelle inizieranno invece un lungo esilio.

I due si salutano piangendo e si apprestano a seguire i loro rispettivi destini, e l'opera si conclude con un lamento di Agave che maledice il Citerone ("Io voglio andare dove / l'immondo Citerone non mi veda / né io più veda l'immondo Citerone") che a me, personalmente, ricorda in qualche modo il commiato di Edipo nell'omonima tragedia di Sofocle ("Ah Citerone, perché mi accogliesti? O perché, dopo avermi accolto, non mi uccidesti subito? Così non avrei mai mostrato a tutti gli uomini da chi sono nato") e che probabilmente, nelle intenzioni di Euripide, sta a sottolineare proprio l'ispirazione sofoclea di quest'opera, forse non ultima dal punto di vista cronologico ma certamente conclusiva del suo lungo ciclo di tragedie.


a cura di Adriano Torricelli

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015