LA GRECIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Storia ed evoluzione della Grecia classica


ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE BACCANTI DI EURIPIDE
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Cabanel Alexandre, Nymph and Satyr

Qui avanti, cercherò di riassumere quelli che mi sembrano essere gli aspetti di maggiore interesse all’interno e attorno all’opera trattata.

Ciò che di essa mi affascina maggiormente, è il fatto che se da una parte si pone (come abbiamo già notato in precedenza) come un consapevole tentativo di ritorno al passato, alle origini del teatro e allo spirito ancestrale e prerazionale da cui esso era sorto, per altri aspetti pare invece anticipare (in modo evidentemente inconsapevole) molte componenti della sensibilità sociale e artistica del periodo ellenistico.

Oltre all’intrinseca forza di suggestione che il testo porta in sé, mi pare dunque che anche le considerazioni di carattere storico che mi accingo a fare possano spingere i lettori moderni ad interessarsi a quest’opera.

1 - Un confronto con le Eumenidi di Eschilo

Praticamente nessuna delle tragedie rimasteci ha per protagonisti, o comunque per personaggi principali, degli dei: le uniche due eccezioni a questa regola sono costituite dalle Baccanti di Euripide e dalle Eumenidi di Eschilo.

Ma Eumenidi e Baccanti non sono legate tra loro solo dall’analogia appena sottolineata, ovvero dal fatto di mettere in scena come (co)protagonisti del dramma degli dei, costringendoli a interagire con gli uomini e – nel caso delle Eumenidi – ad accettarne i decreti. Anche ad una lettura superficiale infatti, appare chiaramente come esse siano tra loro per molti versi opposte e speculari sul piano dei contenuti. A un’analogia semplice se ne aggiunge quindi una per differenza, per così dire.

Ma prima di entrare nel merito di un confronto, mi pare opportuno riassumere brevemente la trama della tragedia di Eschilo che qui ci interessa. Opera conclusiva dell’unica trilogia giunta fino a noi (l’Orestea), le Eumenidi ci presentano un Oreste prigioniero, dopo l’assassinio della madre Clitemnestra, delle antiche dee della vendetta familiare, le Erinni, che proprio sua madre ha scatenato contro di lui dall’oltretomba. Avendo agito per ordine di Apollo, Oreste è sotto la protezione di quest’ultimo, il quale tuttavia non è in grado da solo di neutralizzare gli attacchi delle dee che lo perseguitano (“vecchie fanciulle nate in un tempo lontano”). L’opera si delinea quindi come una lotta tra le antiche divinità ancestrali e terrestri, le Erinni, portatrici di un’idea ancora primitiva di giustizia, e le più giovani divinità olimpiche, rappresentate da Apollo e da Atena.

La situazione drammatica subisce una svolta quando Oreste, dietro consiglio dello stesso Apollo, si reca ad Atene, la città della dea Atena, dove viene istituito un tribunale per giudicarlo. Tale tribunale determina (seppure con il margine di un unico voto, dato in ultimo proprio da Atena) l’assoluzione dell’imputato dal crimine di matricidio.

Nella scena conclusiva, le Erinni – pur sconfitte in tribunale – vengono solennemente scortate dal popolo ateniese in un luogo sotterraneo, adatto alla loro natura di divinità infere, dal quale convertite in Eumenidi (ovvero in divinità tutelari) veglieranno sui destini della città.

È facile accorgersi di come quest’opera segua in qualche modo una parabola opposta a quella descritta in precedenza: in essa difatti sono le divinità solari, Atena e Apollo, portatrici di un’idea moderna di giustizia, a prevalere su quelle terrigene e arcaiche, rappresentanti della legge ancestrale della vendetta. L’ordine e la razionalità hanno dunque qui la meglio sul disordine e sull’oscurità, mentre l’umano (nella sua dimensione politica) si avvicina al divino al punto da imporre ad esso – come si è visto – sia i propri mezzi di giustizia (il tribunale) che le proprie decisioni (il proprio verdetto).

Approfondiremo meglio tra poco le tappe e le modalità di questo avvicinamento. Ciò che vogliamo ora sottolineare invece, è come le Baccanti rappresentino il momento culminante di un percorso concettuale opposto a quello eschileo, così ben rappresentato dalle Eumenidi. In quest’opera di Euripide difatti, trova espressione in una forma estrema una tendenza già presente nel suo predecessore, Sofocle: quella, per così dire, a porre una distanza incolmabile tra uomo e dio. Tendenza della quale è un esempio chiarissimo l’Edipo re, un dramma in cui il peccato dell’eroe tragico non è prodotto né della sua intenzionalità (agendo egli in modo del tutto inconsapevole, ed essendo inoltre predestinato alla colpa) né di quella dei suoi avi (ovvero di una maledizione gravante sul suo ghenos, come nel caso dell’Orestea). Tale opera, al pari delle Baccanti, sembra dunque un manifesto dell’”incomunicabilità” tra uomo e dio, ovvero dell’impossibilità per il primo di comprendere le motivazioni alla base delle decisioni del secondo.

Se quindi l’Orestea, e in particolare la tragedia conclusiva di essa, le Eumenidi, rappresentano in qualche modo un’idea umanizzata del divino, attraverso l’avvicinamento di quest’ultimo ai criteri etici e conoscitivi (basati sulla ratio) dell’uomo, le Baccanti al contrario rappresentano forse l’espressione più estrema della separazione tra dimensione umana e dimensione divina a cui i tragici posteriori a Eschilo siano giunti.

Il pathei mathos di matrice eschilea (ovvero la possibilità dell’uomo di giungere alla conoscenza attraverso il dolore) non ha qui semplicemente più senso: l’uomo non può infatti in nessun modo comprendere il dio, assoggettarlo ai suoi parametri conoscitivi. Egli deve al contrario rassegnarsi al fatto di non poterlo comprendere. È questa l’idea di pietà religiosa che inizia ad emergere (o forse sarebbe meglio dire, a riemergere) a partire dalle tragedie di Sofocle, trovando infine a mio giudizio una delle sue espressioni più chiare nelle Baccanti di Euripide. Secondo questa tendenza, è proprio la pretesa dell’eroe tragico di sapere ciò che ne costituisce l’elemento di hybris, di tracotanza, il mancato riconoscimento della potenza e della trascendenza divine. L’unico sapere concesso all’uomo infatti è – socraticamente – il sapere di non sapere.

La crisi della razionalità (e della civiltà) classica si manifesta dunque principalmente, nel genere letterario della tragedia, nel sovvertimento della concezione religiosa eschilea del rapporto tra umano e divino, secondo l’inversione di tendenza appena descritta.

2 – Il percorso dell’idea di sophrosyne

Il termine sophrosyne stava a indicare nei periodi più antichi della storia greca l’idea della saggezza, una qualità consistente essenzialmente nella temperanza, nella moderazione e nel retto comportamento dell’uomo che, consapevole della propria inferiorità rispetto agli dei, ne accetta i decreti con rassegnazione. Tale qualità si portava dietro, come logica conseguenza, un comportamento equilibrato, che rifugge dagli eccessi e che quindi, in qualche modo, potremmo definire “razionale”. Un tale concetto non era dunque strettamente legato all’idea di sapere (sophia), identificandosi essenzialmente con un atteggiamento etico.

Quando, di ritorno dalla guerra di Troia, Aiace Oileo impreca contro gli dei per le difficoltà del suo rimpatrio (tanto che Poseidone per vendetta lo fa affogare), si comporta in modo arrogante e stolto, dando prova così di non essere saggio. La sua colpa non deriva da un’assenza di conoscenza, ma dall’incapacità di seguire un comportamento improntato a moderazione.

Già a partire dall’epoca arcaica tuttavia (VII secolo a.C.), l’idea di sophrosyne comincia ad assumere un significato nuovo, in coincidenza con l’evoluzione della cultura greca in un senso sempre più razionalistico. La saggezza come istanza etica inizia infatti da allora a essere concepita sempre di più come complementare a una conoscenza di tipo teorico, riguardante la natura profonda delle cose. Non può insomma esservi più saggezza senza che vi sia al contempo sapienza: il saggio deve essere sapiente! Certo, egli resta pur sempre innanzitutto colui che agisce in modo retto, ragionevole, restando cioè lontano dagli eccessi, nel giusto mezzo. Ma la sua saggezza non può comunque più prescindere dalla conoscenza, dalla sophia.

Una tale trasformazione del concetto di sophrosyne, massimamente visibile qualora si considerino le manifestazioni del pensiero filosofico (dai Pitagorici, a Eraclito, per arrivare a Socrate e, ancor più in là, a Platone), è presente anche, seppure senza dubbio in una forma diversa, nell’opera di Eschilo.

Né ciò deve stupirci, dal momento che questi non era un filosofo ma un drammaturgo, ragion per cui la conoscenza cui aspirava non aveva né poteva avere un carattere teoretico. Essa era piuttosto una consapevolezza che si collocava al termine di un’esperienza di dolore (l’evento tragico) e che consisteva essenzialmente nel riconoscimento delle leggi etiche alla base del Cosmo da lui precedentemente violate (pathei mathos). Pur non ponendosi dunque egli (come Eraclito, Parmenide, ecc.) il problema di sviluppare una teoria cosmologica, né (come Socrate o Platone) di definire in termini precisi e razionali l’essenza della Verità, della Giustizia, del Bene, ecc., il suo fine era pur sempre quello di giungere alla comprensione dell’origine profonda del dolore umano, ovvero delle leggi che regolano il rapporto tra uomo e dio.

Già a partire da Sofocle tuttavia, la fiducia nel poter giungere a una – sia pur imperfetta – comprensione dei fondamenti etici del Cosmo, pare essere svanita. L’eroe sofocleo (sia egli Edipo, Aiace, Creonte…) si trova condannato a una solitudine, a un’emarginazione totale che è sì conseguenza di un peccato originario, la sua superbia o dismisura, ma che resta comunque inspiegabile in termini razionali, umani. Egli si trova cioè gettato in un universo di dolore senza che ciò possa, quantomeno secondo i criteri della ragione umana, essergli imputato. Il che implica che la Giustizia divina, l’ordine che presiede alle sorti del Cosmo, restino per lui un enigma indecifrabile.

Né questa profonda sfiducia è superata da Euripide, il quale infatti, pur indagando le ragioni (aitiai), i moventi psichici alla base del crimine e del peccato umano, sembra considerare quest’ultimo più come un destino che possiede il singolo individuo, che non come una scelta consapevole e ad egli realmente imputabile. L’accecamento, la perdita della giusta via (sophrosyne) resta dunque anche per Euripide un fatto inspiegabile e misterioso, come il Male che attanaglia la vita degli uomini.

Il caos allora dilaga, e la fiducia nell’esistenza di un ordine alla base dell’Essere finisce per affievolirsi, senza pur tuttavia mai scomparire del tutto. Resta infatti sempre viva malgrado tutto, e nonostante alcuni momenti di scoramento e di dubbio, una timida fede nell’esistenza di un ordine superiore e trascendente, dovuto agli dei, seppure per sua natura incomprensibile per l’uomo.

È solo con le Baccanti che, a mio avviso, questa fede viene definitivamente, ovvero esplicitamente, accantonata. In essa infatti il divino perde quei connotati di ordine e di moralità che fino ad allora Euripide aveva cercato di attribuirgli, e ciò proprio nel momento in cui esso viene fatto coincidere sulla scena con Dioniso: dio dell’estasi sensuale e dell’eccesso, del Disordine rigeneratore.

Euripide pare insomma, in questa tragedia, abbandonare del tutto l’idea di sophrosyne quale era stata fino ad allora universalmente concepita, cioè come moderazione e continenza, da intendersi peraltro come virtù essenzialmente civili o politiche.

Penteo manca infatti di sophrosyne proprio nella misura in cui rimane ostinatamente ancorato a valori di moderazione e di razionalità. E tale appunto è la sua colpa, simile peraltro a quella di Edipo: il fatto di presumere di sapere. Egli continua nel corso dell’opera a credere incondizionatamente in tali valori (e ciò, evidentemente, anche dal momento che essi sono il fondamento ideale dell’organismo politico di cui è sovrano), anche quando si rivelano ormai la negazione stessa della saggezza.

Il mondo difatti – come gli dimostra Dioniso – non è retto da Sapienza e Ordine, neppure da un ordine e da una sapienza incomprensibili all’uomo in quanto divini, bensì piuttosto da un eterno Caos distruttore e rigeneratore. E assieme all’idea di un tale Ordine, crollano tutta una serie di altre certezze, a loro volta intrinseche alla civiltà classica, che né Sofocle né lo stesso Euripide avevano mai osato (quantomeno mai così radicalmente) porre in discussione.

Le Baccanti appaiono dunque come l’esito estremo di un processo – quello della disgregazione del razionalismo e dell’umanesimo classici – i cui inizi risalgono, per quanto riguarda la tragedia, a Sofocle. Tale opera rappresenta l’assoluto trionfo del dionisiaco sull’apollineo, della spontaneità priva di regole sulla ragione regolatrice: una caratteristica che la rende qualcosa di assolutamente originale all’interno dell’intero panorama delle tragedie classiche, e non solo di esse.

Come notò lo stesso Nietzsche, essa pare costituire, nelle intenzioni dell’autore, una sorta di tardivo ravvedimento, un tentativo di ritorno alle origini spirituali del teatro, a quei rituali ancestrali e irrazionali che vedevano nell’uccisione di un capro lo strumento per propiziarsi la divinità. Più di qualsiasi altra tragedia dunque, le Baccanti lasciano intravedere in chi le ha scritte un nostalgico desiderio di ritorno al passato, e ad un passato molto lontano, quasi mitico.

3 – La rivincita degli esclusi

Fin qui abbiamo considerato soprattutto gli aspetti che di quest’opera rimandano in qualche modo al passato: alle origini del teatro, da una parte; a un periodo storico remoto e idealizzato, ancora lontano dalle pastoie del razionalismo e del classicismo, dall’altra.

Ma le Baccanti possono, a mio avviso, essere lette anche come una – seppur inconsapevole – prefigurazione degli sviluppi ellenistici della civiltà greca.

---  Implicazioni ideologiche e sociali dell’opera  ---

Innanzitutto è necessario che io riassuma le principali tematiche socio-culturali affrontate all’interno di quest’opera; in un secondo momento, cercherò di mostrare le ragioni per cui credo si possa scorgere in essa una prefigurazione di alcuni aspetti della successiva età ellenistica.

Come già si è mostrato, Dioniso, col suo radicale “anticlassicismo”, libera forze tradizionalmente compresse all’interno della polis greca: le donne, ovvero più in generale l’elemento femminile, da una parte; l’impulso spontaneistico, tipico delle classi più umili, verso l’abbandono sensuale e il superamento dell’opposizione tra Uomo e Natura, dall’altra.

Quanto alle donne, il maschilismo e la misoginia dei greci è un fatto universalmente noto. Esso risale ancora alle origini della loro civiltà ed è ben visibile già in Omero. Ciò probabilmente perché quella greca fu, sin dai suoi albori, una società segmentata e anarchica, priva di centri di potere forti, nella quale di conseguenza grande importanza rivestivano il valore e la forza fisica individuali. Proprio per questa ragione la donna, già in antico, tese ad essere esclusa o comunque posta ai margini della vita sociale. Ma fu con lo sviluppo della polis arcaica e poi classica, e con l’identificazione sempre più rigida tra cittadino e soldato, che essa ne rimase definitivamente tagliata fuori.

Non è dunque certamente casuale il fatto che, nelle tragedie rimasteci, alquanto ricorrenti siano figure di “eroine” negative, quali Clitemnestra, Medea, Fedra o Deianira, né che proprio queste ultime riescano a impressionare maggiormente lo spettatore moderno per la loro forza e incisività. La donna nel mondo classico fu infatti avvertita, se possibile ancor più intensamente che nei periodi precedenti, come una pericolosa incognita per l’ordine sociale, e per tale ragione radicalmente screditata.

Paradossalmente – si nota qui per inciso – fu proprio la società spartana (senza dubbio, la più maschilista in assoluto) quella in cui la donna riuscì integrarsi maggiormente nel tessuto sociale. Se difatti da una parte la totale intolleranza di tale società verso l’elemento femminile la costrinse a maschilizzarsi, a reprimere la propria natura onde assomigliare il più possibile agli uomini, dall’altra essa riuscì in tal modo, a conquistare una stima e un’autonomia assolutamente impensabili per donne ateniesi.

Insomma, la civiltà classica portò alle estreme conseguenze la componente di misoginia tipica delle società arcaiche, in particolare elleniche, esasperando ulteriormente un’antica diffidenza verso il sesso femminile dovuta alla mancanza di qualità fisiche e morali considerate tipicamente virili, quali la forza, il coraggio, l’intelligenza, ecc.

Non può stupire dunque, in questa logica, il fatto che il disprezzo ostentato da Penteo verso Dioniso sia dovuto in primo luogo proprio all’aspetto e al portamento femminili di quest’ultimo, accusato peraltro di essere un abile seduttore e corruttore di donne. Ed anzi, è proprio la fisionomia “effeminata” di Dioniso ciò che suscita l’immediata avversione di Penteo verso di lui, come dimostrano chiaramente le affermazioni che egli fa appena il dio gli viene presentato: “Hai proprio un corpo ben fatto, Straniero, / o almeno così direbbero le donne: non è per loro che sei venuto a Tebe? / E guarda quei riccioli lunghi (certo non sei un lottatore!), / che ti lambiscono le guance, come traboccano di desiderio”. A tale elemento si aggiungono poi, come vedremo avanti, l’origine barbara del misterioso straniero e l’assenza in lui di quei “solidi principi morali” di cui Penteo si ritiene alfiere.

Quale scacco allora per il re di Tebe, accorgersi che le baccanti sono in realtà molto più forti dei suoi eserciti. E ciò non perché esse si siano “maschilizzate”, come le donne spartane, bensì al contrario perché, alleandosi con il dio dell’ebbrezza e della vite, hanno acquisito un potere del tutto sconosciuto agli eserciti della città-stato.

Anche il popolo ha poi la sua parte in questo dramma. L’affermazione che quella democratica ateniese fosse una società improntata a valori fondamentalmente aristocratici ed elitari, non può a tutta prima non apparire strana e perfino contraddittoria. Eppure, anche se ovviamente la realtà dei fatti è molto più sfumata e complessa, una tale affermazione tutto sommato è veritiera. L’accettazione del popolino nelle fila della cittadinanza infatti, andò di pari passo con la crescita del benessere e del livello culturale dei suoi componenti. Non fu tanto quindi – almeno tendenzialmente – la società ateniese a popolarizzarsi, quanto piuttosto il popolo a omologarsi, nei limiti del possibile, agli ideali dell’aristocrazia.

Una tale elevazione fu resa possibile in gran parte dalla schiacciante superiorità politica e militare di Atene sugli altri stati greci. Da tale fattore derivò ad Atene quella grande prosperità che permise ai suoi membri di dedicare gran parte del proprio tempo alla diffusione dei modelli aristocratici di comportamento e di pensiero anche tra le classi più umili (attraverso, peraltro, un processo in gran parte veicolato proprio dal teatro). Fu dunque il progressivo avvicinamento dei ceti plebei (prima di quelli più ricchi, poi anche di quelli poveri) alle élite dominanti, ciò che diede vita alla polis in generale e alla democrazia ateniese in particolare.

Ma con la crisi della polis classica, anche i principi che vi erano a base cominciarono presumibilmente a vacillare. È dunque probabile che, in concomitanza con tale crisi, iniziassero a riprendere vigore atteggiamenti e idee (d’estrazione popolare) rimasti in passato maggiormente nascosti e sopiti. Sempre nella nostra opera infatti, è evidente – né la cosa secondo me deve stupire – come il culto spontaneistico della Natura di cui Bacco è espressione sia essenzialmente retaggio delle classi basse, più che di quelle alte. L’adesione sincera allo spirito dionisiaco è qualcosa che troviamo, a mio avviso, solo e sempre tra i personaggi socialmente umili, con l’unica eccezione (peraltro non priva di problemi) di Tiresia. Ma né Penteo, né Agave, né Cadmo sono capaci di ‘simpatia’ per Dioniso, e ciò anche laddove – come nel caso di Cadmo – si impegnino per dimostrarla.

Del resto, la natura popolare dei riti bacchici è qualcosa su cui anche il coro delle baccanti asiatiche insiste più volte: solo un cuore semplice, umile, incolto – esse sottolineano – può accogliere davvero Bacco. (“Chi segue l’immenso perde l’attimo presente… [Dioniso] odia chi non si cura / di vivere felice / nel giorno luminoso e nelle notti amiche / serbando nell’anima e nel cuore / una saggezza intatta dalla superbia degli uomini. / La fede dei semplici, / la vita della folla più umile: / questa è la mia legge.”) La razionalità, l’attitudine al dominio su se stessi e sugli altri non possono infatti non inaridire quella spontaneità, quell’impulso al gioco, al vivere pienamente l’attimo presente, che è la radice più profonda del dionisismo. (Afferma ad esempio la guardia alla fine del suo lungo monologo: “Non so chi sia questo dio, mio signore, / ma aprigli le porte della città: egli è grande e potente. / Ho anche sentito dire che ha donato agli uomini / la vite che cancella il dolore. / E dove non esiste il vino, non esiste l’amore.”)

È chiaro insomma, come l’affermazione di Dioniso come nuova divinità rappresenti – almeno in quest’opera – una forma di riscatto degli ultimi, un’occasione per far prorompere componenti della vita sociale che, già forse a partire da Omero, iniziarono ad essere emarginate dalla cultura e dalla vita ufficiali.

Infine, ma non ultimo per importanza, troviamo il motivo dell’Oriente, del cosiddetto mondo barbaro. In questo caso però, non dobbiamo tanto ragionare su di esso, quanto piuttosto sull’idea che di esso avevano i greci e che – guarda caso – altro non era, in sostanza, che l’immagine rovesciata di se stessi.

Il fatto che Dioniso e il suo seguito di baccanti abbiano un’origine straniera (xenoi) è subito posto in evidenza dallo stesso Dioniso, laddove – proprio in apertura – racconta del viaggio che, attraverso svariate terre barbare, lo ha portato fino a Tebe e in Grecia.

E del resto, il rifiuto che Penteo oppone al dio, si sostiene proprio in gran parte sulla sua origine barbara. (Come prova tra l’altro il seguente scambio di battute: “DIONISO: Già ogni terra straniera celebra i suoi [di Dioniso] riti. PENTEO: Per forza: [i barbari] sono più sciocchi dei greci”.)

Si può dire dunque, che le antitesi precedentemente prospettate (uomo-donna; popolo-aristocrazia) vengano in qualche modo ricomprese in un’antitesi originaria: quella tra Greci e Barbari. È proprio il mondo barbaro difatti, il luogo da cui gli impulsi disgregativi sopra analizzati provengono. In altri termini, tanto il riscatto della donna quanto quello dello spontaneismo popolare sono avvertiti in quest’opera come il prodotto di una contaminazione culturale rinnovatrice, esterna al mondo greco.

Del resto, il tema dell’Oriente portatore di un sapere magico, misterioso e disgregatore della vita e delle istituzioni della polis classica non è affatto nuovo a Euripide. Si pensi, a questo riguardo, a quella che è senza dubbio la sua opera più celebre, la Medea, nella quale peraltro tali suggestioni si associano a un altro tema ricorrente e fondamentale in molte tragedie greche: quello della donna scardinatrice dell’ordine sociale e portatrice di morte.

Una differenza essenziale tra Medea e Dioniso tuttavia vi è, e consiste nel fatto che Medea, a differenza di Dioniso, non è una divinità ma una semplice mortale. Le azioni da lei compiute dunque, possono essere considerate come follia e peccato (hybris); al contrario la follia bacchica ha un carattere divino che ne rende impossibile l’identificazione con la hybris umana. Piuttosto, nelle Baccanti, è proprio il moralista Penteo ad essere classificabile come peccatore e sovvertitore dell’ordine divino!

---  I segni dell’Ellenismo  ---

Ma in che modo le tematiche appena analizzate preludono agli sviluppi ellenistici della civiltà greca?

Innanzitutto, l’Oriente. Con le conquiste geografiche di Alessandro Magno e poi con la nascita dei grandi stati ellenistici, sorti dalla disgregazione dell’impero alessandrino, l’Oriente entrò prepotentemente nell’orizzonte fisico e spirituale dei greci. Già sottomessi da alcuni decenni dai macedoni, essi videro così ampliarsi ulteriormente i confini del loro mondo. Tutto ciò, se da un lato diede loro ulteriori occasioni di sviluppo economico e di arricchimento spirituale, dall’altro li costrinse per così dire a perdere la propria verginità e a mescolarsi con differenti etnie e culture.

Anche se i greci e i macedoni invasero le regioni orientali in veste di conquistatori, occupandovi quindi – specie inizialmente – soprattutto dei posti di privilegio, e fondando inoltre in quei territori centinaia di città-stato indipendenti sul modello delle loro terre d’origine, tutto ciò non poté comunque dispensarli del tutto dal confondersi con le popolazioni indigene, dando così vita a culture miste, diverse a seconda delle regioni.

A partire dal periodo ellenistico insomma, non esisté più (se non forse in Grecia, regione che tuttavia conobbe un impressionante tracollo economico e culturale) una civiltà puramente greca, bensì una serie di civiltà ibride, contenitori di popoli e culture anche molto differenti tra loro (tra le quali peraltro, quella ebraica). E nonostante un tale melting pot culturale fosse in qualche modo tenuto insieme, a partire dall’uso di una lingua comune a tutte le regioni (la cosiddetta koinè), da una matrice di stampo ellenico, in tale situazione l’identità greca non poté non diluirsi pesantemente, dando vita così a un tipo fino ad allora inedito di civiltà.

Uno degli effetti di questa nuova situazione fu la diffusione, tra gli stessi conquistatori occidentali, di una temperie misticheggiante e irrazionalistica. Le cause di una tale trasformazione non sono facili da definire con esattezza. In essa svolsero comunque sicuramente un ruolo primario lo spaesamento culturale e la profonda crisi di coscienza dei popoli greci, da sempre abituati a condurre un’esistenza rigidamente separata dal resto del mondo, oltre che a organizzarsi sulla base di strutture socio-politiche di dimensioni infinitamente inferiori rispetto a quelle dei nuovi stati ellenistici.

Ma nell’affermazione di tali tendenze un ruolo di primo piano giocò certamente, soprattutto sui tempi lunghi, anche la contaminazione e la fusione tra i greci e gli occidentali in genere e le popolazioni indigene orientali, da sempre abituate all’amaro fardello della sottomissione allo Stato e al Sovrano (dispotismo orientale) e fortemente inclini quindi al fatalismo e al misticismo.

Infine, rimane da affrontare il tema più difficile, quello della donna. A anche se, per quel che ne so, non è assolutamente possibile parlare d’emancipazione femminile, è comunque  accertato che tutto sommato la condizione sociale delle donne conobbe in questo periodo un notevole miglioramento.

Le ragioni, al solito, furono quasi certamente più di una. Da una parte probabilmente, vi fu l’influenza esercitata sui conquistatori dalle società ospitanti, caratterizzate rispetto a quelle elleniche da un assetto decisamente meno patriarcale e maschilista.

Dall’altra, un ruolo essenziale fu giocato dalla trasformazione delle condizioni di vita, e quindi delle tendenze culturali, dei greci propriamente detti. Soprattutto, si assisté in questo periodo a un notevole “imborghesimento” della vita sociale, concomitante peraltro con lo sviluppo di grandi arterie di scambio internazionali e di grandi interessi commerciali, oltre che con la dissoluzione della città-stato, istituto le cui ridotte dimensioni rendevano possibile un’identificazione tra il singolo e la comunità, ponendo così le basi dei valori del sacrificio e della gloria personali (gli ideali eroici alla base della polis classica, insomma).

Al contrario, in questi nuovi organismi politico-territoriali, tanto vasti quanto impersonali, gli eserciti erano oramai esclusivamente formati da soldati mercenari e l’antico patriottismo cedeva inevitabilmente il passo a un più marcato individualismo, a una concezione più privata ed edonistica dell’esistenza. In questa nuova temperie, anche la donna – e prima di essa, l’elemento femminile – acquisì un significato maggiormente positivo rispetto al passato. Anche se ad esempio non si può assolutamente parlare di “spirito dionisiaco”, in questi periodi si assisté comunque tanto nell’arte figurativa quanto nella letteratura a una notevole rivalutazione delle categorie del femminino, del piacevole e del decorativo, contro l’antico rigorismo classico, ben esemplificato nell’architettura dorica, espressione di ideali eminentemente virili.

Se prima la donna era considerata l’anello debole della catena familiare e sociale, ora essa, pur restandole ancora precluse molte sfere della vita sociale (e in primis quella politica, retaggio ancora esclusivamente maschile), acquisisce una nuova dignità. Le donne vedono insomma mitigata la precedente condizione di recluse in casa e acquisiscono nuovi diritti e nuove occasioni di affermazione sociale.

Anche da questo punto di vista dunque, l’opera qui analizzata si rivela, quantomeno in una certa misura, profetica di tendenze che saranno proprie degli sviluppi ellenistici della civiltà greca.

Per i motivi sopra esposti, credo si possa dire che le Baccanti costituiscono un’opera del tutto eccezionale nel panorama culturale greco (cosa questa, che già gli antichi avevano ben capito, se è vero che tra essi, al contrario che tra noi moderni, era una delle tragedie classiche più celebri e più spesso rappresentate).

Uno dei principali motivi dell’eccezionalità di quest’opera, prodotto di un genio della tarda classicità ateniese, risiede a mio avviso, oltre che nella sua poesia senza tempo, anche nel fatto di apparire (per così dire) contemporaneamente rivolta verso il passato, ovvero verso i periodi più remoti e ancestrali della storia greca, e verso il futuro, ovvero verso i suoi sviluppi ellenistici e romani.

Nota

Per le citazioni dal testo di Euripide, mi sono avvalso della traduzione di Giorgio Ieranò, nella collana dei Classici Greci e Latini dell’editore Oscar Mondadori, 1999. A tale edizione devo inoltre alcuni spunti interpretativi utilizzati in questo mio scritto.

Per le Eumenidi invece, mi sono avvalso della traduzione dell’Orestea di Norma Samantha Fanoli, presente nell’edizione BUR, collana SUPERCLASSICI, del 1997.

Di altri spunti e di altre informazioni presenti in questo scritto infine, sono debitore all’introduzione di Mario Vitali alle tragedie di Euripide, Alcesti, Medea, Baccanti, presente nell’edizione Bompiani tascabili del 1991.

Fonti: Baccanti - www.homolaicus.com/letteratura/euripide/baccanti/


a cura di Adriano Torricelli

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Antica
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Aggiornamento: 01/05/2015