LA STORIA ANTICA
dal comunismo primitivo alla fine dello schiavismo


LA RIVOLUZIONE URBANA

I - II

Carro da guerra dell'impero Hittita

Quando il marxismo sostiene che per realizzare la transizione dal comunismo primitivo alle civiltà schiavistiche sono state sufficienti delle progressive determinazioni quantitative (relative a mezzi e ambienti di lavoro), fa semplicemente un discorso "borghese", anche se poi usa la stessa interpretazione storica per far credere necessaria la transizione dal capitalismo al socialismo.

Questo modo deterministico di vedere le cose (che alla borghesia ovviamente piace solo quando è rivolto al passato), schiaccia la sovrastruttura sotto il peso della struttura economica e riduce la libertà umana a un nulla.

Ora, se si può accettare l'idea che dallo schiavismo al colonato romano vi siano stati dei condizionamenti oggettivi che hanno reso inevitabile quella transizione, cioè se è possibile accettare l'idea che da una condizione molto gravosa dell'attività lavorativa si possa passare a una più sopportabile, in forza di mutamenti sociali, politici o economici indipendenti dalla volontà di chi vive sfruttando il lavoro altrui, e che lo costringono, per continuare a fruire delle sue tradizionali posizioni di rendita, a modificare il suo rapporto con l'oggetto della propria ricchezza (nella fattispecie rendendo l'ex-schiavo più libero di autogestirsi); non si può però accettare l'idea che, per le stesse motivazioni di natura oggettiva, una parte della comunità, che fino a un determinato momento della propria esistenza ha vissuto in maniera libera, decida di porsi in maniera servile nei confronti dell'altra.

Il passaggio dalla libertà alla schiavitù non può essere avvenuto in maniera spontanea o pacifica, senza che nessuno se ne accorgesse. Se lo si pensa, o si è cinici o si è in malafede, e comunque sia ogni predisposizione ad accentuare gli automatismi è sempre il riflesso di un'incapacità ad affrontare le contraddizioni sociali, le situazioni di crisi: ci si affida di più alle analisi economiche che non all'azione politica.

P.es. se si volesse sostenere che la "rivoluzione urbana" è sorta semplicemente perché si volle passare dall'agricoltura "secca" a quella "irrigua", sfruttando non più la sola acqua piovana, ma anche e soprattutto quella fluviale, imbrigliando con canali e bacini le periodiche esondazioni, si direbbe una sciocchezza, poiché le comunità di villaggio esistevano anche prima in quei territori, e se avessero potuto prevedere, anche solo vagamente, che il passaggio dall'agricoltura secca a quella irrigua avrebbe comportato, in maniera contestuale, la perdita della loro libertà e quindi la loro riduzione in schiavitù nei confronti delle città, probabilmente si sarebbero chieste se davvero fosse così importante avere delle eccedenze, se davvero la stanzialità meritasse d'essere considerata, sempre e in ogni caso, migliore del nomadismo, se un'economia di prelievo, unita alla caccia e alla pesca, fosse del tutto imparagonabile a un'economia produttiva vera e propria.

Possibile che nessuno si sia mai chiesto nulla sul nesso "eccedenze - classe dirigente", quando fino a quel momento le poche eccedenze di cui la comunità poteva disporre non avevano affatto generato una stratificazione sociale così antidemocratica? Possibile che di fronte a una pericolosa scarsità di eccedenze, la prima soluzione proposta sia stata quella di ridurre la libertà personale e collettiva per garantire una maggiore sicurezza economica?

Non ci saranno certo voluti dei secoli prima di capire che il lavoro aveva subìto una trasformazione nettamente penalizzante per il mondo rurale. Non può essere stato un caso che tutte le civiltà cosiddette "fluviali", fortemente urbanizzate, sorte nei pressi del Nilo, del Tigri e dell'Eufrate, dell'Indo, del Gange, dei fiumi Giallo e Azzurro, del Mekong, del Giordano ecc., siano state schiavistiche.

Evidentemente qualcuno doveva aver capito che se si volevano ottenere, con sicurezza, non solo le stesse eccedenze di un tempo, ma addirittura fino a cinque volte di più, occorreva creare una situazione molto diversa da quella dell'agricoltura secca, una situazione in cui il lavoro dei contadini avrebbe dovuto essere sfruttato infinitamente di più, attraverso dei tributi obbligatori (non solo economici ma anche militari), con cui mantenere tutta una serie di persone che non lavoravano direttamente la terra, ma organizzavano il lavoro altrui.

Per permettere una cosa di questo genere, che fece nascere la classe privilegiata dei funzionari e dei sacerdoti, la popolazione dovette per forza essere ingannata attraverso la religione: non poteva bastare una necessità di ordine economico. E' per questo che i miti van studiati non meno delle strutture produttive e distributive.

* * *

Se si guarda l'autosussistenza delle famiglie dei villaggi neolitici dal punto di vista di quella che sarà la successiva organizzazione delle strutture urbane vere e proprie, non si può che considerarla negativamente, come un limite che andava assolutamente superato. Ed è indubbio che in questa transizione l'agricoltura acquistò un peso che prima non aveva.

E' noto che la prima città vera e propria fu Uruk (ma non è escluso che un giorno si dica Gerico), sorta verso il 3500 a.C. nella pianura di Sumer, in un'area resa fertile dalle periodiche piene del fiume Eufrate, controllate da una fitta rete di canali e bacini creati dai contadini.

L'organizzazione dei lavori pubblici era nelle mani dei sacerdoti del tempio di Eanna (o Inanna), dèa dell'amore e, guarda caso, anche della guerra. Quindi appare evidente che dal villaggio-neolitico alla città-stato è esistita una transizione tutt'altro che indolore.

Uruk non solo si costituì come "Stato" ai danni delle comunità agricole precedenti e circostanti, ma determinò anche il sorgere di una cosa fino ad allora senza precedenti: la formazione di colonie per controllare i commerci a lunga distanza.

La trasformazione avvenne sulla base di esigenze oggettive (nel caso dell'agricoltura secca è noto che per farla piombare nella carestia era sufficiente un'esondazione o eccessiva o insussistente), alle cui esigenze però si diede una risposta che se sul piano tecnico-produttivo appariva razionale, su quello etico-sociale fu a dir poco devastante, in quanto favorì internamente i privilegi di casta, di ceto e di classe, nonché, e soprattutto, la guerra contro i "nemici" esterni.

Non si può esser teneri con gli intellettuali che realizzarono un mutamento così perverso, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Non si può considerare la loro religiosità un aspetto incidentale, irrilevante, che non avrebbe potuto impedire in alcun modo lo svolgersi di questa transizione. Molti storici non si rendono conto che vi è una differenza sostanziale tra una religione vissuta secondo i crismi della superstizione e un'altra vissuta sotto l'insegna del clericalismo.

Nel Neolitico la religione era inoffensiva, patrimonio di tutti; nel regno sumerico fu invece uno strumento di oppressione nelle mani delle classi dirigenti, i cui templi venivano gestiti come centri del potere religioso e insieme politico, in quanto strumento di raccolta delle eccedenze. Prima ognuno era sacerdote di se stesso, nella propria ignoranza e nell'uguaglianza di una povertà comune; ora invece qualcuno, nella propria pretesa scientificità, diventa sacerdote per altri, il cui lavoro viene sfruttato per accumulare eccedenze, formare un potere centralizzato e favorire determinati ceti dirigenti.

Ancora oggi, in maniera abbastanza incredibile, non pochi storici sono convinti, sulla questione delle eccedenze, che fu proprio il sistema di irrigazione che permise ai contadini di lavorare, ottenendo un surplus che poteva tranquillamente essere utilizzato anche per mantenere le classi non direttamente impegnate nella produzione alimentare. Si ritiene infatti che la vera ricchezza di una città-stato non provenga direttamente dal mondo rurale, bensì dagli artigiani e dai mercanti, cioè da chi svolge attività imprenditoriali o commerciali.

Ecco perché - si afferma - questo alto tenore di vita suscitò le invidie e gli appetiti di quegli agricoltori che vivevano sugli altipiani o di quei popoli nomadi delle steppe e dei deserti. Ecco perché le città furono costrette a circondarsi di mura imponenti.

La cosa incredibile sta appunto in questo, che ancora oggi non si riesce a vedere come strettamente connessi lo sviluppo mercantile di una città con lo sfruttamento della campagna circostante e l'oppressione dei popoli limitrofi, rimasti a uno stadio meno avanzato di produttività economica.

Gli storici tendono a vedere nella "rivoluzione urbana", conseguente a quella agricola, un progresso senza precedenti, dal quale, in definitiva, dipende la nostra stessa civiltà, che di quelle civiltà antiche ha ereditato, per così dire, il "meglio".

Inevitabilmente questo modo semplicistico di guardare i fatti storici, li porta a considerare in maniera molto negativa le battute d'arresto di queste civiltà urbane primordiali. Per "battuta d'arresto" non si deve intendere il fatto che tra loro si combattevano di continuo (poiché, se fosse solo per questo, gli storici non avrebbero nulla da eccepire, in quanto danno sempre per scontato che nelle guerre chi vince erediti inevitabilmente il meglio di chi perde. Viene escluso a priori che in queste guerre colossali possa essere andato perduto qualcosa di decisivo per colpa del vincitore). Dunque le vere "battute d'arresto" non sono questi scontri epocali tra civiltà relativamente simili, sostanzialmente equivalenti, la cui effettiva diversità, quella che ha poi deciso la vittoria o la sconfitta dell'una o dell'altra civiltà, riguardava soltanto l'organizzazione politico-militare o il livello della tecnologia a disposizione.

La vera "battuta d'arresto" si ha quando una civiltà urbanizzata viene sconfitta da un'altra - che gli storici stentano pure a definire "civile" - di tipo rurale, non-urbanizzato, non capace di praticare in grande stile i traffici commerciali o di realizzare imponenti opere pubbliche, una civiltà che in sostanza non conosceva tutti quegli aspetti fondamentali che caratterizzano lo sviluppo di una civiltà simile alla nostra.

Ecco perché si giudicano in maniera del tutto negativa le distruzioni delle civiltà urbanizzate da parte delle popolazioni nomadi, non evolute, prive di scrittura ecc. Rarissimamente si mettono in stretta relazione gli effetti provocati da una civilizzazione urbana, commerciale e schiavistica o servile, con le cause scatenanti l'aggressione da parte di popolazioni che per secoli han dovuto subire quegli effetti. Aggressioni del genere vengono ritenute imprevedibili, imponderabili, completamente indipendenti dal livello di benessere delle civiltà urbanizzate. I nomadi - dicono sempre gli storici - attaccano gli stanziali non perché oppressi dallo stile di vita di quest'ultimi, ma perché gelosi delle loro ricchezze, quelle ricchezze che loro non sono mai stati in grado di produrre autonomamente.

Lo storico infatti dà per scontato che il miglior stile di vita è quello più simile al proprio, cioè a quello che sta vivendo mentre scrive il suo manuale: uno stile che ovviamente, come un aspetto naturale della vita, è basato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e del lavoro altrui, sulla prevalenza degli aspetti imprenditoriali e commerciali rispetto a quelli dell'autosussistenza e dell'autoconsumo. L'autosufficienza di un villaggio vien sempre vista negativamente.

Lo storico infatti vuol fare "storiografia" coi "regni" e con gli "imperi", non con le "comunità di villaggio": di queste si può parlare solo come premessa di ben altro.

Ma la cosa ancora più incredibile è che gli storici si rifiutano di dare spiegazioni convincenti sul fatto che civiltà molto avanzate siano state sonoramente sconfitte da altre molto meno evolute. Le spiegazioni che offrono sono sempre delle mezze verità, proprio perché, in ultima istanza, non riescono ad accettare l'idea che quando una civiltà basa la propria ricchezza su rapporti oggettivi di sfruttamento, la sua compagine sociale, invece di rafforzarsi, inevitabilmente s'indebolisca. Non riescono ad accettare l'idea che in una civiltà molto avanzata, chi patisce lo sfruttamento faccia combutta col nemico esterno, non faccia nulla di rassicurante per difendere la propria civiltà. Gli storici non riescono a capacitarsi che una civiltà avanzata non riesca a trovare i modi e i mezzi per persuadere gli sfruttati a non vedere i nemici esterni come propri liberatori.

Le civiltà basate sullo sfruttamento e l'oppressione tendono inevitabilmente a indebolirsi di fronte ai nemici esterni, proprio perché creano continuamente nemici interni. Si autodistruggono proprio mentre si riproducono: sono costrette a far fronte a contraddizioni sempre più macroscopiche e quindi sempre più irrisolvibili; sono costrette a impegnare ingenti risorse per mantenere apparati economicamente improduttivi (eserciti, polizie, burocrazie...) che servono solo per controllare le masse e per far fronte alle minacce che vengono dall'esterno.

Non si sottolinea mai con sufficiente energia il fatto che quando le popolazioni esterne, straniere, meno evolute, decidono di attaccare quelle più avanzate, con l'intenzione di distruggerle politicamente o di saccheggiarle delle loro risorse, ciò avviene solo dopo che con infiniti sacrifici, e quindi dopo moltissimo tempo, si sono acquisiti quegli strumenti bellici utili a realizzare lo scopo. Questo perché non è semplice distruggere delle civiltà in cui una parte della popolazione vive l'esperienza militare come una professione. Bisogna essere capaci di arrivare agli stessi livelli, o quasi, confidando nell'aiuto di alleati interni, quelli che vedono le loro proprie classi dirigenti come i veri "nemici" da combattere.

Sono proprio questi alleati interni che rendono meno urgente il bisogno di affidarsi alla potenza tecnica dei mezzi militari. Generalmente infatti è chi sa di essere nel torto che si affida a questi mezzi, onde supplire alla mancanza di consenso sociale.


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 01/05/2015