Le opere di Abelardo

Gli universali

Le opere di logica di Abelardo (Logica ingredientibus, 1113-1120; Logica nostrorum, 1121; Dialectica, 1136) sono quelle forse più importanti per la filosofia medievale.

Gli auctores di riferimento sono Porfirio, Aristotele e Boezio.

Sul problema degli universali Abelardo sostiene che l’universale è non una rex, ma una vox; vale a dire che non ha esistenza oggettiva ma solo nel nostro discorso.

A differenza dei nominalisti che ritenevano il nome un semplice appellativo, egli sostiene invece la funzione significativa dei nomi stessi. I nomi in sintesi, non semplicemente alla cosa che essi denominano, ma al concetto che suscita nella mente di chi ascolta.

L’Universale è un concetto distinto da quello della cosa singola per le sue caratteristiche di astrazione.

La dialettica

Nell’opera Sic et non, Abelardo fa riferimento alle opinioni dei Padri rispetto ad una determinata questione dividendole in favorevoli e contrarie e cercando una soluzione personale nella molteplicità delle opinioni.

Il fine è quello di offrire una soluzione nei punti in cui le sacre scritture non sembrano dare una soluzione univoca. Partendo dall’assunto che la Bibbia non può errare, se contrasto vi è deve imputarsi ad errore da parte dei Padri che esprimono opinioni e non verità indiscutibili.

Il metodo di Abelardo consiste nel verificare se un autore in opere successive smentisce ciò che ha affermato invece in precedenza; bisogna poi evitare di attribuire ad un autore dottrine che siano invece solo riferite, è infine necessario prestare molta attenzione all’uso dei termini, perché spesso in autori diversi i medesimi termini assumono significati distinti.

Abelardo non pretende di arrivare alla soluzione ma solo di offrire una conoscenza verosimile del mistero della divinità usando la ragione come mezzo per evitare che i dogmi della fede cristiana

Vengano superficialmente definiti come assurdità. Anche nelle dottrine di alcuni filosofi pagani Abelardo vede la possibilità di un accordo con i principi cristiani.

Così è ad esempio per i platonici e i neoplatonici.

Citiamo da Tornatore:[1] “l’applicazione della dialettica  al campo della teologia non era tuttavia priva di ogni rischio sul piano dell’ortodossia religiosa. Abelardo infatti trattando della creazione del mondo secondo una analisi puramente razionale, giungeva ad ammettere che Dio nell’atto della creazione non è libero ma soggetto a necessità. Egli così argomenta: Dio non può compiere che ciò che compie perché Egli fa ciò che vuole.

Ciò che infatti Dio vuole si identifica con il bene ragion per cui, il nostro mondo risulta il più perfetto tra quelli che potevano essere creati. Dio perciò non poteva creare un mondo migliore di quello che ha prodotto proprio perché la sua volontà nell’atto di produrre l’esistente è sempre volta al bene.”

L'Etica 

Per Abelardo non è possibile definire categoricamente il bene e il male in quanto il valore di un’azione non dipende da principi astratti ma dall’essere interiore: è l’intenzione che definisce un atto.

Su basi analoghe poggia la distinzione tra vizio e peccato: il primo ha origine nella natura, in una particolare inclinazione al male; il secondo si ha quando la volontà si volge a favorire quella inclinazione preesistente.

Ne consegue una denuncia aspra della degradazione morale del clero, il rispetto solo formale di molte regole e norme. Così anche gli infedeli che non conoscono i comandamenti, non peccano in quanto non agiscono sulla base di una cattiva intenzione.

Ma allora se il peccato nasce solo dall’intenzione, che dire del peccato originale? Coerentemente Abelardo risponde che non si può considerarlo un vero e proprio peccato: inevitabile la condanna del concilio di Sens.

[1] Tornatore e altri, Filosofia, Torino, 1996, p. 781

Vedi anche le riflessioni di Galarico