STORIA DEL MEDIOEVO
Feudalesimo e Cristianesimo medievale


L’ORDINAMENTO POLITICO DEGLI STATI ITALIANI DAL 1250 al 1500

I - II - III

Premessa

Nei secoli XI-XII l’Italia centro-settentrionale aveva visto svilupparsi il sistema comunale, con cui la borghesia aveva progressivamente sottomesso, sul piano economico, il contado e buona parte dei patrimoni ecclesiastici e feudali, costringendo gli aristocratici più deboli a trasferirsi in città, prestando servizio militare nella milizia, oppure vendendo le terre ai nuovi ricchi e svolgendo funzioni burocratiche (nobiltà di corte), oppure occupandosi di commercio.

Il passaggio dai Comuni alla Signorie si verifica quando il sistema di vita borghese presenta contraddizioni tali che la borghesia, tenendo in piedi le istituzioni tradizionali del Comune, avverte di non essere in grado di affrontare. Di qui l’esigenza di un governo forte, autoritario, che rendesse puramente formale la funzione dei parlamenti locali ed eliminasse molte rigide norme del corporativismo artigiano medievale, in virtù delle quali s’impedivano i facili guadagni. (1)

In particolare erano stati i minacciosi moti popolari urbani a impensierire la classe dirigente, che ad un certo punto preferì sostituire l’ordinamento repubblicano con la dittatura di un tiranno, che poteva essere un condottiero militare a capo di truppe mercenarie, un grande feudatario, un popolano influente, un podestà le cui mansioni erano state notevolmente ampliate e prolungate nel tempo. Non era importante né il modo in cui realizzare il colpo di stato né la provenienza sociale del tiranno, ma che si facessero gli interessi dei ceti più elevati.

Le Signorie si formarono in un contesto politico dominato da due partiti prevalenti: guelfo (i cui capi erano il papato e gli angioini) e ghibellino (i cui capi erano gli imperatori tedeschi). Sono queste due autorità (papato e imperatore) che riconoscono il titolo di vicario (principe, duca, marchese) a un signore di uno Stato territoriale, il cui potere diventa dinastico, ereditario, assoluto (tutte le nomine nei ruoli di prestigio vengono fatte dall’alto).

A questa trasformazione dei Comuni democratici in Signorie monarchiche contribuì parecchio la presenza delle compagnie di ventura, un sistema di eserciti mercenari pagati dai mercanti e dagli imprenditori arricchiti. Già all’inizio del XIV sec. i condottieri di queste compagnie avevano assunto un ruolo di primo nella vita italiana. Peraltro furono proprio le compagnie di ventura interamente italiane che, con una crociata pontificia del 1366, eliminarono dalla penisola tutte quelle di origine straniera (guasconi, bretoni…).

Quasi tutti i signori locali del XIV e XV sec. erano stati condottieri militari: i Malatesta, i Polentani, i Gonzaga, gli Scaligeri, gli Estensi, i Montefeltro e alcuni Visconti.

L’instaurazione delle Signorie determinò in generale l’aumento dell’oppressione fiscale, portando a un ulteriore impoverimento delle masse popolari della città e della campagna; e rafforzò il frazionamento dell’Italia, poiché i tiranni erano sovente in guerra tra loro per il dominio del mercato estero e per la conquista di nuovi territori.

Tuttavia va detto che la borghesia non ama la frammentazione, ma l'unificazione, sicché non si può sostenere che l'unità nazionale fu impedita dal grande sviluppo delle città bassomedievali. La borghesia ama la semplificazione dei commerci e non la diversificazione dei pesi, delle misure, delle monete, né può apprezzare che le proprie merci siano sottoposte a molteplici dazi e dogane a seconda dei territori che attraversano.

Se in Italia non avvenne l'unificazione nazionale nei secoli in cui si formò quella di Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo, non fu solo per colpa di una borghesia poco determinata, poco risoluta. Se fosse dipeso esclusivamente da lei, essa avrebbe potuto realizzarla anche prima, visto che i primi Comuni borghesi risalgono al Mille.

L'Italia comunale si seppe liberare dell'ingombrante presenza imperiale già alla fine del XIII sec. Se, dopo il dominio svevo, la chiesa non avesse chiamato gli Angioini, che occuparono tutta l'Italia meridionale (ad eccezione della Sicilia, da dove gli isolani li cacciarono con l'aiuto degli Aragonesi), e che protessero enormemente gli interessi del papato, che considerava il Mezzogiorno un proprio feudo, probabilmente avremmo avuto l'unificazione nazionale prima che altrove. Nel senso cioè che le varie borghesie urbane avrebbero saputo trovare il modo di coesistere, riducendo a un nulla il potere politico del papato, che in Italia ha sempre costituito la principale forza di tipo feudale.

Prima degli Angioini infatti la Chiesa era spalleggiata dai Normanni, ma con l'acquisizione dei territori meridionali da parte degli imperatori svevi, si aprivano scenari diversi dagli avvenimenti che effettivamente accaddero. Gli Svevi avrebbero potuto benissimo realizzare l'unificazione della penisola, eliminando lo Stato della chiesa, a condizione di cercare il consenso della città: cosa che però non fecero mai. Anzi, accadde proprio il contrario: fu il papato che riuscì a ottenere il consenso della borghesia in funzione antimperiale, scongiurando così il proprio accerchiamento geo-politico.

Fu proprio in quel periodo che la Chiesa si vide costretta a cedere alla borghesia ampie prerogative economiche, pur di scongiurare l'unificazione politica della penisola. La presenza angioina e poi quella aragonese nell'Italia meridionale, unitamente a quella feudale dello Stato della chiesa, segnarono il destino antiborghese nella metà della penisola.

Quanto alla borghesia delle grandi città, come Firenze, Pisa, Venezia, Milano e Genova, essa, non avendo trovato in nessun sovrano feudale qualcuno che potesse davvero difenderla nei suoi interessi economici, si accontentò di poter esercitare liberamente i propri traffici commerciali, limitandosi sul piano politico a sviluppare degli Stati di tipo regionale come appunto le Signorie e i Principati.

Cioè la borghesia italiana non riuscì a realizzare non solo alcuna monarchia nazionale di tipo assolutistico o costituzionale, ma neppure uno Stato di tipo federale, in cui, pur in presenza di un governo centrale, le varie realtà locali fruissero di ampia autonomia politica, amministrativa ed economica. Anzi, i vari Stati regionali erano perennemente in lotta tra loro, soprattutto quando cercavano di espandersi geograficamente. E ognuno di loro, pur essendo forte economicamente, cercava di appoggiarsi a forze straniere, quando ne avvertiva la necessità sul piano militare.

Questo per dire che l'unificazione nazionale avrebbe potuto sorgere anche dal basso, grazie alla volontà democratica della borghesia, che, per quanto "classista" fosse, era pur sempre più aperta e laica di quella clerico-feudale. Tale unificazione non fu certamente impedita dalla forte autonomia cittadina, sia perché la borghesia, da un lato, aveva già saputo difendersi dall'autoritarismo feudale degli Svevi, sia perché, dall'altro, aveva già saputo allargare le maglie ideologiche di una chiesa che, volendo restare a tutti i costi "politica", era sempre più costretta ad accettare vari compromessi che ne limitavano gli spazi di manovra.

Alla borghesia non restava che il compito di unirsi come "classe nazionale", al fine di eliminare il fardello dello Stato della chiesa e della presenza straniera nella penisola. Questa cosa però non riuscirà a farla, se non alla fine dell'Ottocento e grazie ad uno Stato regionale che non aveva neppure caratteristiche e tradizioni italiane, bensì francesi (anche nella lingua), uno Stato più autoritario che democratico, più militare che economico, ma sufficientemente intelligente da capire che, senza l'appoggio della borghesia, l'unificazione nazionale sarebbe stata impossibile, né avrebbe avuto senso cercarla con l'appoggio di una potenza straniera, la quale, inevitabilmente, raggiunto l'obiettivo, non si sarebbe certo fatta da parte.

I Savoia furono l'anello mancante di uno sviluppo borghese più economico che politico e di una presenza politica feudale che in Italia ostacolava un adeguato sviluppo economico borghese. Quando capirono che con la borghesia italiana si poteva compiere l'unificazione politica, rinunciarono all'alleanza con la Francia.

Firenze

Sui 90.000 abitanti di Firenze nel secolo XIV, circa 6 mila godevano dei diritti politici (la metà dei maschi maggiorenni), ma di questi soltanto poche decine di famiglia comandavano veramente. Essi eleggevano il governo della repubblica, il “priorato” o “signoria”, formato da sette uomini capeggiati da un “gonfaloniere” di giustizia. Il governo fiorentino, servito dalle truppe mercenarie comandate da “condottieri”, svolgeva una politica di conquista (dal 1351 al 1406 furono assoggettate Pistoia, Arezzo e Pisa).

Nei primi decenni del Trecento comincia a imporsi un governo signorile intenzionato a limitare di molto le prerogative del regime democratico-popolare, ma solo dopo la repressione del tumulto dei Ciompi (1378-82) venne instaurata la dittatura delle famiglie più ricche: Albizzi, Uzzano e Strozzi, e dal 1434 i più importanti banchieri d’Italia, i Medici.

I Medici cominciano a imporsi con Giovanni (1360-1429), che fonda nel 1397 una compagnia bancaria e commerciale, che col tempo diventerà una delle più importanti d'Europa (la principale finanziatrice del papato). Sfruttando gli insuccessi degli Albizzi nella guerra contro Lucca, Cosimo de’ Medici (1389-1464) ottenne che fossero cacciati dalla città e diventò di fatto il padrone dello Stato, che resse per 30 anni (1434-1464).

Pur allontanandosi in sostanza dai metodi repubblicani di governo, Cosimo formalmente rimase fedele alle forme repubblicane: sotto di lui la commissione governativa (o balia), i cui membri erano scelti dallo stesso Cosimo, eleggeva per un quinquennio i funzionari più importanti. Però nessun provvedimento statale veniva reso esecutivo senza l’approvazione di Cosimo. I Medici sostituirono la tassa personale con un’imposta sul reddito, al fine di rovinare i loro concorrenti, diminuendone l’importanza politica, e avere il consenso della popolazione non abbiente.

Il carattere tirannico del governo dei Medici divenne chiaro sotto il nipote di Cosimo, Lorenzo il Magnifico (1469-1492), con la completa sommissione alla sua volontà della commissione governativa dei Settanta. La corte di Lorenzo ostentava uno sfarzo mai prima visto (feste e tornei si succedevano senza interruzione) e ospitava scrittori, poeti e pittori di chiara fama. Sfruttando la propria posizione politica, i Medici si arricchirono per mezzo di grandi operazioni bancarie e il saccheggio diretto dell’erario statale. In politica estera essi si avvicinarono al papato, tanto che uno dei figli di Lorenzo diventò papa.

Venezia

Il potere in Venezia era esercitato dal patriziato cittadino, composto dai proprietari di terre, cantieri, saline, tessiture, vetrerie, banche. Alla testa della repubblica era il doge, che esercitava il potere esecutivo e comandava le forze armate. Il suo potere era molto limitato dal Gran Consiglio e dal Piccolo Consiglio, composti dagli esponenti del patriziato. L’organizzazione e l’arte della diplomazia veneziana erano considerate le migliori in Europa.

Il principale avversario di Venezia fu Genova, per il controllo dei traffici nel Mediterraneo orientale e la spartizione dell’Impero bizantino, che si stava sfaldando sotto la pressione musulmana. Le ostilità iniziarono verso il 1200 e terminarono solo con la caduta di Costantinopoli.

Tra gli ultimi decenni del XIV sec. e i primi del XV Venezia, guidata da una ristretta casta di militari e mercanti, riuscì a conquistare l'entroterra italiano, spostando il suo baricentro più ad occidente.

Alla fine del Trecento, per contrastare le mire espansionistiche del ducato di Milano, Venezia assunse compagnie di mercenari guidate da famosi capitani di ventura come il Gattamelata (Erasmo da Narni) o il Carmagnola (Francesco da Bussone), conquistando parte dei territori lombardi fino al fiume Adda. Entro il 1428 controlla di fatto Verona, Vicenza, Padova, Brescia e Bergamo. Altro motivo di questa espansione verso ovest era la necessità di produrre in proprio il grano e altri generi alimentari, in quanto temeva che l'avanzata turca potesse occupare i territori del Mezzogiorno che la rifornivano di questi prodotti.

Nel periodo che va dal 1433 al 1454 i Visconti e poi gli Sforza furono costretti a riconoscere a Venezia molti loro territori: con la Pace di Lodi (1454) Francesco Sforza riconobbe il confine veneziano all'Adda a ridosso di Milano, dove rimase pressoché invariato per secoli.

All'apice della sua potenza, Venezia controllava gran parte delle coste dell'Adriatico, varie isole ionie (da Corfù a Zante), molte delle isole dell'Egeo, inclusa Creta, e varie rotte commerciali nel Vicino oriente, con colonie mercantili a Bisanzio, Cipro e nel mar Nero. Il territorio della Repubblica nella penisola italica si estendeva fino al Lago di Garda, al fiume Adda ed anche a Ravenna, da cui riusciva ad influenzare la politica delle città della Romagna, allora sotto il dominio pontificio.

All'inizio del XVI secolo la Repubblica veneta era una delle principali potenze europee e la ricchezza dei traffici, l'abilità di diplomatici e comandanti militari e una buona amministrazione la ponevano ad un livello superiore a quello di altri Stati del tempo.

L'allargamento territoriale della Serenissima entrò in contrasto con l'idea espansionistica del pontefice Giulio II, che convinse i francesi del re Luigi XII, e l’imperatore Massimiliano d'Austria a formare un’alleanza nel 1504 diretta contro la Serenissima, un’alleanza che divenne quattro anni dopo la Lega di Cambrai, che comprendeva anche il re Ferdinando II d'Aragona, l’Inghilterra, la Savoia, Mantova e Ferrara, mentre Firenze rimaneva neutrale perché impegnata a piegare la resistenza di Pisa.

Battuta dai nemici stranieri e italiani, abbandonata dai nobili e ricchi borghesi delle sue città di terraferma, i quali diedero le chiavi di tutte le città ai francesi, la Repubblica fu duramente sconfitta da quest’ultimi, anche se poi contrattaccò e riconquistò Padova con l'aiuto del popolo, che non tollerava il malgoverno imperiale di Massimiliano.

Il predominio francese sul nord Italia fu sentito come una minaccia da Giulio II, che sigillò la pace con i Veneziani e nel 1511 Venezia entrò, con Inghilterra, Spagna ed Impero nella Lega Santa promossa dal pontefice contro la Francia. La lega costrinse alla ritirata l'esercito francese, ma i Veneziani, visto che Massimiliano reclamava il possesso dell'intero Veneto se la Repubblica non avesse pagato un forte tributo annuo di 30.000 fiorini e 200.000 per l'investitura, si orientarono verso la Francia per cacciare gli imperiali da Verona e dalla Lombardia Veneta, territori ancora sotto il dominio imperiale.

Alla fine delle guerre d'Italia tra francesi e spagnoli (1559), Venezia aveva consolidato il suo dominio territoriale, ma si trovava circondata da potenze continentali (la Spagna nel Ducato di Milano, l'Impero degli Asburgo a nord, l'Impero ottomano ad oriente), che le precluderanno ogni ulteriore espansione. La Repubblica Veneta fu la più lunga repubblica della storia italiana (circa 1100 anni): per secoli una delle maggiori potenze europee. Cadrà nel 1797 col Trattato di Campoformio voluto da Napoleone, che la barattò con gli austriaci per ottenere in cambio il riconoscimento del possesso della Lombardia.

Genova

Genova era governata dal patriziato cittadino insieme con l’aristocrazia feudale, anch’essa interessata al commercio marittimo. Era costantemente in lotta con Savona e periodicamente con Venezia (quest’ultima per il controllo dei traffici mediterranei orientali), e spesso combatteva contro la Catalogna, per il controllo della Sardegna, della Corsica e dei traffici mediterranei occidentali.

Il momento di maggior splendore di Genova fu quando, nella battaglia della Meloria del 1284, sconfisse la flotta pisana, dando inizio al declino economico e politico di Pisa.

Nel 1318 il governo della città dichiarò la propria “dedizione” a Roberto d’Angiò, re di Napoli e a papa Giovanni XXII.

Il passaggio dal Comune popolare al Dogato perpetuo avviene nel 1339. Ma già nel 1353 si verifica la prima dominazione dei Visconti sulla città. E nel 1396 vi è la prima dominazione francese con la Signoria di Carlo VI di Francia. La seconda dominazione dei Visconti sulla città inizia nel 1421 e termina nel 1436, ma riprende con gli Sforza nel 1463, durando, tra alterne vicende, sino al 1488.

Genova non ha mai avuto una famiglia davvero potente: le più note furono Doria, Fregoso, Fieschi e Adorno, perennemente in lotta tra loro. Il suo declino fu irreversibile dopo la caduta di Costantinopoli, anche se notevole fu la sua trasformazione da potenza marittima commerciale a potenza finanziaria.

Quando nel 1494 il re francese Carlo VIII scende in Italia, i genovesi appoggiano la politica sforzesca e vengono sconfitti dai francesi, che nel 1499 inaugurano la seconda dominazione sulla città. Nel 1528, dopo che gli spagnoli avevano preso il sopravvento sui francesi per il controllo della penisola italica, il doge Andrea Doria preferisce allearsi con Carlo V, ch’era Re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero. Savona viene assoggettata a Genova e quest’ultima nel 1528 torna ad essere una Repubblica indipendente e sovrana, in quanto il Doria rinuncia alla Signoria. Il declino della Spagna sarà fatale per le sorti di questa città, che avrà l’ultimo momento di splendore nella seconda metà del Cinquecento.

Milano

Milano, una delle più grandi città d’Italia e d’Europa (oltre 100.000 abitanti), diventò la capitale di un grande ducato feudale, con la trasformazione delle istituzioni comunali in uffici ducali nel 1277, allorché i Visconti (nobili ghibellini guidati dal vescovo Ottone) sconfissero i guelfi Della Torre, andati al potere nel 1241 col titolo di Capitani del popolo. Scomparvero tutte le tracce della libertà cittadina comunale.

I Visconti ottengono il titolo di “vicario imperiale” nel 1311, dall’imperatore Enrico VII di Lussemburgo. Assumono un carattere dinastico nel 1322. Il Principato nasce con Gian Galeazzo (1385-1402), che ottiene nel 1395 il titolo di “duca” dall’imperatore Venceslao di Boemia. Gian Galeazzo prevale nettamente su Pisa, Siena, Perugia e Verona. Ma quando cerca di occupare Bologna si trova a combattere i fiorentini. Pur vincendoli nel 1402, muore di peste. La politica espansionistica fu ripresa da Filippo Maria, ma questa volta, oltre a Firenze, si trovò contro anche Venezia, cui dovette cedere nel 1441 Brescia e Bergamo.

Nel 1450, quando Filippo Maria Visconti (1412-47), morendo, si trovò privo di eredi maschi, si ebbe un tentativo di restaurazione dei poteri comunali (Repubblica Ambrosiana), che però viene soffocato da Francesco Sforza, (comandante di una compagnia di mercenari al servizio dei Visconti), avvalendosi del fatto che Filippo Maria gli aveva dato in sposa la propria figlia. Del nuovo casato degli Sforza l’esponente più significativo sarà Ludovico il Moro.

Il ducato praticava una politica bellicosa: si impossessò di gran parte della Lombardia e mirò a espandersi vero est (ai danni della Repubblica veneta) e verso sud (ai danni di Genova, Piacenza, Parma, Bologna, Pisa, Siena, Perugia, Lucca). Fu l’alleanza militare di Firenze e Venezia a ridimensionare le pretese dei Visconti e degli Sforza.

Nel corso della signoria di Ludovico il Moro, nel 1499 Milano diventa la prima delle signorie italiane a cadere sotto gli attacchi della monarchia francese. Nella prima metà del Cinquecento si sviluppa la lotta per il predominio su Milano tra Francia da un lato e Asburgo d'Austria e Spagna dall'altro. Prevale alla fine Carlo V con la battaglia di Pavia nel 1525 e nel 1535 Milano e il territorio del ducato sono occupati dall'imperatore e inizia un periodo di 170 anni di dominazione spagnola.

Ferrara

Nella prima metà del Duecento Ferrara è teatro di una lunga guerra tra due fazioni: l’una era capeggiata dalla famiglia guelfa d’Este, che difendeva gli interessi dei feudatari del contado; l’altra era capeggiata dalle famiglie nobili ghibelline dei Salinguerra e dei Torelli, che difendevano gli interessi dei ceti mercantili e che avevano come nemici il papato e Venezia, i quali riuscirono, nel 1240, con una potente coalizione antiferrarese, a mandare al potere gli Estensi. Il libero Comune di Ferrara era vissuto per circa 150 anni.

Il marchese Azzo d’Este, per diventare podestà a vita, aveva dovuto far perdere alla città, a tutto vantaggio di Venezia, il ruolo di intermediaria dei traffici commerciali tra l’Italia settentrionale e l’Oriente. Ferrara veniva declassata a centro di approvvigionamento di materie prime a disposizione dell’economia della stessa Venezia.

Alla morte di Azzo d’Este il nipote Obizzo (1264-1308) diventa ufficialmente il primo signore della città, viene nominato dal papa Capitano generale e difensore dello Stato della Chiesa: il che significava essere il capo dei guelfi dell’Italia settentrionale. Egli si annette subito Modena e Reggio, che appartenevano al Sacro Romano Impero, e tollera solo le corporazioni e le associazioni utili al proprio Stato territoriale, dominando la città con grande durezza.

Il successore di Obizzo ottiene il titolo di “vicario” dal papa. Tuttavia nella seconda metà del Trecento ha luogo la guerra coi Visconti per il possesso di Modena e Reggio e nel 1385 esplode nella città una rivolta antifiscale, che viene soffocata nel sangue.

Nel 1471 Ferrara diventa un ducato e quindi la signoria si trasforma in principato monarchico nobiliare. Negli anni 1482-84 riesce a impedire d’essere conquistata dallo Stato della Chiesa e dalla Repubblica di Venezia, che in quell’occasione s’erano alleate. Tuttavia il destino di Ferrara fu quello di diventare una provincia di confine dello Stato pontificio (1598), che la fece entrare in una profonda crisi.

Stato della Chiesa

Lo Stato della Chiesa si presentava come un tipico Stato feudale capeggiato dal papa, che alla fine del XIV secolo era ritornato in Italia dopo la temporanea residenza ad Avignone (1309-77). Il suo ritorno fu caratterizzato da una serie di rivolte antipapali in molte città italiane e dalla nascita del grande scisma d'Occidente in cui i fautori del primato del concilio combatterono contro i fautori del primato pontificio (1378-1417).

Sono infatti i due Concili di Costanza (1414-18) e di Basilea (1431-49) che minacciano l'autorità pontificia, ma questa s'impone col Concilio di Ferrara-Firenze (1438-39) dopo aver ottenuto la sottomissione temporanea degli ortodossi bizantini. Sarà poi con Cesare Borgia che il papato avrà modo di sottomettere tutti i signorotti locali dello Stato della chiesa.

Regno di Napoli

Il regno di Napoli era governato dalla dinastia angioina, che nel 1443 venne soppiantata, in maniera abbastanza complicata, da un’altra dinastia straniera: la casa d’Aragona. Successe che, in assenza di eredi maschi, era salita al trono la nipote di Roberto d'Angiò, Giovanna, sposata con Andrea, fratello di Luigi, re d'Ungheria. I due coniugi, invece di unire le loro forze, avevano iniziato a contendersi il primato sul regno, al punto che nel 1345 Andrea venne assassinato e del delitto fu ritenuta responsabile proprio Giovanna. Ne seguì un conflitto con il fratello dell'ucciso, che scese in Italia con un suo esercito, costringendo Giovanna a fuggire da Napoli. Essa tuttavia poté farvi ritorno perché aveva appoggiato il papa durante il grande scisma d'Occidente, ma venne assassinata nel 1382 e il suo trono passò, per investitura dello stesso pontefice, al ramo di Durazzo della famiglia angioina. Tuttavia quando nel 1414 salì al trono una nuova regina, Giovanna II, la situazione si complicò ulteriormente, in quanto alla sua morte, nel 1435, Alfonso V d'Aragona (1396-1458) cercò di approfittarne per annettersi l'intero regno napoletano, trovando un insperato appoggio da parte del duca di Milano Filippo Maria Visconti. Questo nuovo asse visconteo-aragonese rimise in discussione gli equilibri politici stabiliti dalla pace di Lodi e permise ad Alfonso d'Aragona di uscirne vincitore, riunificando nel 1443 nella sua persona le corone di Napoli e della Sicilia.

Tratti tipici del napoletano erano l’arretratezza dell’agricoltura e il predominio della servitù della gleba. Una grande quantità di mezzi veniva dissipata per mantenere il lusso sfarzoso della corte, oppure veniva inghiottita dalle incessanti guerre, sia esterne che interne, contro i baroni meridionali in lotta per l’indipendenza. Tuttavia questo regno aveva una propria identità statale e confini stabili che risalivano alla dominazione normanna.

Approfittando di questa complessa situazione, le compagnie bancarie fiorentine e veneziane che servivano il re (prima francese, poi spagnolo), subordinarono ai propri interessi tutta l’economia del regno, assumendo il diritto di riscuotere le imposte e il monopolio del commercio del grano. Tutto ciò rappresentava un peso assai gravoso per i contadini meridionali, sfruttati dalle prestazioni gratuite di lavoro, dalle rendite fondiarie e dalle tasse di Stato.

L’inizio della decadenza economica dell’Italia

Nonostante la formazione di rapporti capitalistici, non era sorto in Italia un unico mercato nazionale, il che ostacolava il loro ulteriore sviluppo. Nella campagna la manifattura aveva avuto un incremento assai esiguo, e anche nei centri del commercio d’esportazione la manifattura era applicata solo in alcuni settori dell’industria, soprattutto in quello tessile. Inoltre continuavano ad esistere le corporazioni, cioè una forma di produzione ancora feudale. Nelle manifatture si impiegavano metodi di costrizione diretta, propri del modo di produzione del primo capitalismo: salari bassissimi, vincolamento dei salariati all’opificio, poteri giudiziari del padrone sull’operaio, ecc.

Nel XV secolo vi fu un ristagno della produzione manifatturiera causato dalla concorrenza dei paesi europei. Nell’agricoltura il mezzadro, oltre alla metà del raccolto, doveva consegnare al proprietario una parte di prodotti sotto forma di “donativi” obbligatori. I mezzadri indebitati divennero ancor più strettamente dipendenti dai proprietari, che li costringevano a coltivare anche le terre padronali, come nei rapporti feudali. Per la cattiva lavorazione del terreno il mezzadro poteva essere condannato a versare una parte supplementare del raccolto, e talvolta veniva privato della terra.

L’ampliamento del sistema della mezzadria ricevette forma legale in contrapposizione al lavoro salariato libero, mettendo così in grado i proprietari terrieri cittadini di avere a loro disposizione una forza-lavoro costante e a buon mercato. Inoltre i proprietari limitarono l’autonomia economica del mezzadro, proibendogli di vendere il grano prima che il padrone avesse ricevuto la somma dell’affitto, e obbligandolo a ricevere le terre e il bestiame da lavoro solo dal suo padrone. I mezzadri che cercavano di fuggire venivano imprigionati.

In tal modo il processo della reazione feudale, iniziato in Italia nella seconda metà del XV secolo, significava non soltanto il ritorno alla servitù della gleba, ma anche il mantenimento della mezzadria, che prese forme oberanti.

Alle cause interne della decadenza economica dell’Italia si unirono anche fattori esterni. Già alla fine del XIV secolo, il processo della lotta tra i vari Stati italiani venne complicato dagli avvenimenti politici esterni, che determinarono serie conseguenze per l’Italia. Alla fine del XV secolo, in seguito alle grandi scoperte geografiche, e innanzitutto alla scoperta della via marittima per l’India e per l’America, che spostò le vie del commercio mondiale sulle coste dell’Atlantico, l’Italia perdette la sua importanza nel commercio mondiale.

In quello stesso secolo si formarono in Europa forti Stati centralizzati, ciascuno con una propria industria manifatturiera in pieno sviluppo. Alla fine del XV secolo, la decadenza economica del paese venne ulteriormente aggravata dalle invasioni straniere di Francia e Spagna.

Note

(1) Il compito primario di ogni corporazione di arti e mestieri era la difesa del monopolio dell’esercizio del proprio mestiere. Ogni corporazione tutelava la qualità dei propri manufatti: infatti i regolamenti interni imponevano un rigido controllo sull’uso delle materie prime, gli strumenti di lavoro, le tecniche di lavorazione e gli standard qualitativi previsti. Esisteva anche il principio dell’uguaglianza tra i soci, che in teoria doveva impedire azioni di concorrenza sleale tra i membri della corporazione. In realtà lo svolgimento delle attività era vincolato a un ordine gerarchico, che distingueva gli appartenenti alla corporazione in maestri (che possedevano le materie prime e gli attrezzi e vendevano le merci prodotte nella propria bottega), apprendisti e semplici lavoranti (garzoni), creando una notevole disparità economica tra gli iscritti. Le corporazioni rivendicavano una competenza esclusiva nelle materie di loro competenza, come le cause tra i membri e le infrazioni commesse verso i regolamenti. Ogni arte inoltre aveva un proprio statuto ed era strutturata secondo vari organismi di rappresentanza, che col tempo tesero a diventare sempre più ristretti. Gli appartenenti alle Arti Maggiori erano imprenditori, importatori di materie prime, esportatori di prodotti finiti, banchieri, commercianti e professionisti come giudici, notai e medici; gli appartenenti alle Arti Minori erano tutti i maestri d’opera e i loro lavoranti occupati nella lavorazione del ferro, cuoio, legno, e nel settore alimentare in genere. Ci furono anche dei mestieri che non raggiunsero mai la condizione di arte indipendente. Il popolo minuto (salariati) non apparteneva a nessuna delle arti: solo quando si sollevava (come nel tumulto dei Ciompi del 1378) riusciva a ottenere, a volte, la formazione di nuove Arti. Il coinvolgimento nella vita politica cittadina delle Arti minori fu spesso ostacolato dalle Arti Maggiori. In Italia le corporazioni vennero definitivamente abolite dal regime napoleonico.

Fonti


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Storia medievale
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Aggiornamento: 06/01/2016