Che cos'è l'intercultura

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CHE COS'E' L'INTERCULTURA?

"Intercultura" dovrebbe voler dire rapporto tra due o più culture che comporta l'arricchimento reciproco. Ma un arricchimento reciproco di valori, usi, costumi, tradizioni implica la possibilità e anzi la necessità di una reciproca modificazione. Si è quel che si è, ma quando si viene a contatto con qualcuno diverso da noi, si diventa quel che si diventa.

Oggi tuttavia quando noi parliamo di "intercultura" dobbiamo per forza intenderla come frutto di una situazione economica basata su rapporti iniqui tra Stati forti e Stati deboli o, se si preferisce, tra "sviluppo" (capitalistico) e "sottosviluppo" (coloniale o neocoloniale, intendendo con questo termine una dipendenza soprattutto di tipo economico).

Sono più le cosiddette "culture altre" (cioè non occidentali, non capitalistiche) a integrarsi con noi, che non noi con loro. Le "culture altre" vengono da noi come "perdenti", come già sconfitte dal confronto culturale (che prima di essere "culturale" è economico, tecnologico, militare).

Non è un confronto alla pari, proprio perché l'intercultura è soltanto il frutto di un processo di immigrazione unilaterale, da Sud a Nord, e ora anche da Est a Ovest.

Chi viene da noi non è particolarmente interessato a conservare la propria cultura, al massimo tende a conservare la propria religione e, finché gli riesce facile, conserva la propria lingua. Se i figli degli stranieri sono nati in Italia, tendono a non ricordare neppure la lingua dei propri genitori.

Quando i processi immigratori sono definitivi, senza soluzione di continuità, cioè da Sud a Nord e da Est a Ovest, l'intercultura non è che un'integrazione all'interno della cultura dominante.

L'intercultura sarebbe un processo d'integrazione reciproca se i processi migratori non fossero irreversibili, e se fossero bidirezionali.

Nella storia delle civiltà non esistono processi d'intercultura democratici: sono tutti avvenuti in maniera forzata, causati da motivi oggettivi: miseria, fame, persecuzioni politiche o religiose, tratta di schiavi...

Se vogliamo ch'esistano processi d'integrazione democratici dobbiamo fare in modo che non esistano processi di condizionamento oggettivo che obbligano a emigrare.

L'intercultura dovrebbe diventare l'esito di una scelta libera e consapevole, in cui tutti i soggetti coinvolti si sentono uguali, con gli stessi diritti fondamentali (il primo dei quali è il diritto ad essere se stessi ovunque si vada).

Senza libertà diventa un'utopia o una forma di fanatismo il desiderio di conservare la propria cultura venendo a contatto con le altre. Senza libertà reciproca, uguale per tutti, non può nascere il desiderio di accettare volontariamente le culture diverse dalla propria.

La percezione che l'integrazione culturale non sia un atto costrittivo o limitativo viene meno quando si avverte l'integrazione come un arricchimento della propria cultura di appartenenza. Senza libertà ci sarà soltanto la vergogna di possedere una cultura inferiore, perdente e quindi, a seconda dei casi, maturerà o la rassegnazione nei confronti delle culture dominanti o il risentimento che porta al rifiuto della diversità.

Sicché mentre gli "altri" dovranno fare lo sforzo d'integrarsi alla nostra cultura, "noi" dovremo soltanto fare lo sforzo di accettare una presenza ingombrante, imprevista, che mentre sul piano culturale non ha niente da dirci, su quello economico può anche apparirci come occasione per realizzare nuovi profitti (vedi lo sfruttamento della manodopera a basso costo).

Noi raramente ci chiediamo cosa rappresentino le "culture altre", diverse dalla nostra. Non ce lo chiediamo perché siamo convinti che la cultura "borghese" (che non definiamo neppure con questo termine, in quanto essa ci appare come cultura qua talis, senza aggettivi, in quanto unica vera cultura), che è quella industriale, capitalistica, sul piano storico o, geograficamente parlando, "occidentale", sia la migliore del mondo, sicuramente la migliore di tutte le culture espresse dalle civiltà che ci hanno preceduto.

Per noi, accettare le altre culture significa soltanto aver la pazienza di sopportare una diversità giudicata obsoleta, superata dalla storia, che per noi coincide con la "nostra storia". Noi dobbiamo sopportare che altri siano più indietro di noi, nella consapevolezza della nostra superiorità.

E in questo atteggiamento s'interseca, più o meno consapevolmente, la percezione che nelle sofferenze degli stranieri vi sia una qualche responsabilità dell'occidente. I più consapevoli infatti sanno che l'immigrazione è spesso frutto di rapporti economici iniqui (i cosiddetti "profughi economici" prevalgono nettamente su quelli "politici").

Il fatto è che fino a quando gli immigrati saranno costretti o si sentiranno costretti a venire da noi o se si sentiranno indotti dalle circostanze a diventare come noi, noi non capiremo mai se nelle loro culture (pre-borghesi o pre-capitalistiche) potevano o avrebbero potuto esserci elementi di critica o comunque di vera diversità nei confronti della nostra cultura o civiltà.

Noi possiamo partire dall'interscambio culturale per comprendere e affrontare i problemi socioeconomici che determinano i fenomeni migratori, che ci "costringono" in un certo senso all'intercultura. Ma possiamo anche affrontare da subito i suddetti problemi, per far sì che i fenomeni d'interscambio culturale avvengano nella maniera più spontanea e naturale possibile.

Ciò che fa problema non è il rischio di perdere la propria identità culturale nell'interscambio delle popolazioni, ma è il fatto che in tale interscambio alcune popolazioni sono costrette ad emigrare, altre no.

Noi occidentali, costringendo queste popolazioni, in un modo o nell'altro, a emigrare, dimostriamo soltanto di non possedere una cultura democratica. Non possiamo pertanto pretendere che gli stranieri si integrino nella nostra cultura.

Se siamo consapevoli dei processi iniqui che determinano i fenomeni migratori, e se questa consapevolezza è supportata dalla cosiddetta "buona fede", noi potremmo anche accettare le "culture altre" come occasione per rivedere i principi fondamentali della nostra cultura.

Nella misura in cui sono "pre-borghesi", le "culture altre" potrebbero aiutarci a recuperare non un passato definitivamente scomparso da noi, ma a impostare in maniera democratica la società del futuro, che deve avere dei principi autenticamente democratici, quei principi che nella nostra cultura non siamo stati capaci di formulare in maniera adeguata o che non siamo stati capaci di realizzare in maniera coerente.

Se decidessero di emanciparsi anche economicamente dall'occidente (e non solo politicamente, come dal dopoguerra ad oggi è avvenuto), i paesi del cosiddetto "terzo mondo" renderebbero più facile o più difficile l'integrazione culturale con l'occidente? cioè l'integrazione culturale tra i loro immigrati e noi nativi?

Se l'occidente vuole restare legato al proprio standard di benessere, è indubbio che l'integrazione sarà molto più difficile, anzi tenderà ad aumentare la xenofobia, il razzismo culturale, come sta aumentando adesso nei confronti dei cinesi, che di tutti gli stranieri sono quelli che più mettono in crisi la nostra economia di benessere.

Viceversa, se l'occidente vuole superare i principi del capitalismo, l'emancipazione dei paesi in via di sviluppo non può che favorire l'integrazione culturale.

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Qualunque offesa sia stata recata da parte dell'uomo bianco, europeo o americano, alle altre popolazioni del mondo, foss'anche essa voluta per ignoranza o pregiudizio, costituisce un freno allo sviluppo del senso di umanità che dovrebbe caratterizzare ogni essere umano.

Chi pensa che le offese possano trovare una qualche giustificazione storica appellandosi alla grande superiorità tecnica, scientifica, economica, culturale dell'uomo bianco, diventa eo ipso complice, suo malgrado, di ogni passo indietro dell'umanità.

La storia infatti si preoccuperà di dimostrare che l'unico vero progresso dell'umanità sta nello sviluppo dei rapporti umani, che prescindono totalmente dalle forme in cui si manifestano.

La verità dei rapporti umani sta nell'umanità di questi rapporti - e questa è cosa che può essere compresa solo vivendola.

Quando prenderemo sul serio i guasti provocati dalla nostra disumanità, quando cominceremo a rapportarci in modo equilibrato nei confronti della natura, quando il diverso non sarà più considerato un nemico, quando i nemici del genere umano verranno affrontati con coraggio e non con rassegnazione - ecco, allora si sarà compiuto un altro passo lungo il cammino che porta alla dignità e alla libertà di tutti gli esseri umani.

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Abbiamo paura di perdere il nostro benessere, la nostra sicurezza, la nostra identità, le nostre libertà. Abbiamo paura del diverso, dell'immigrato che proviene da realtà diverse dalle nostre, realtà che non riusciamo a capire, a tollerare, perché ci sembrano troppo primitive, troppo incivili.

Un popolo di ex contadini migranti come il nostro, che ha fatto così tanta fatica a emanciparsi dalla miseria del mondo rurale, ora si sente minacciato da altri migranti provenienti dal Terzo mondo, dai paesi più poveri della terra. E nessuno si chiede se al di là di questi flussi migratori vi siano cause oggettive che li rendono inevitabili.

La miseria come motivazione della fuga in massa in cerca di lavoro non è la causa ultima del fenomeno. Essa stessa è conseguenza di altre cause, che non vengono mai prese in esame. Per esempio i rapporti squilibrati tra occidente e periferia neocoloniale. A noi non piace sentir dire che esistono ancora delle colonie, eppure dal punto di vista economico quelli fuggono da una miseria che noi stessi abbiamo provocato.

Dovremmo discutere sui meccanismi di funzionamento della dipendenza economica e finanziaria che lega il Sud al Nord: il Sud infatti si è emancipato politicamente ma non economicamente.

Questo, per i nostri intellettuali, è un argomento scomodo, per il quale vengono immediatamente tacciati essere comunisti, antiamericani, antieuropei, antidemocratici, antioccidentali...

Gli stessi intellettuali del Terzo mondo, quando emigrano da noi, si mimetizzano molto velocemente e adottano i nostri criteri di giudizio e di comportamento. E se restano nei loro paesi a parlar male dell'occidente, la loro voce resta isolata, non hanno i mezzi per farsi ascoltare.

Gli immigrati non hanno voglia di parlare di queste cose, preferiscono restare invisibili: spesso non sono neppure capaci di farlo, non solo perché non conoscono la nostra lingua, ma anche perché non hanno le coordinate culturali per poterlo fare. E poi vogliono integrarsi velocemente, per poter lavorare in tutta tranquillità e spedire le rimesse in patria.

Molti di loro sperano anche di ritornare nei loro paesi per mettere in piedi una propria attività. Vengono da noi per diventare come noi, dando per scontato che la situazione generale del loro paese non possa cambiare. Sperano soltanto in un cambiamento della loro situazione personale e familiare.

Antropologia culturale - Storia del razzismo

Bibliografia


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018