TOMMASO D'AQUINO

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TOMMASO D'AQUINO (1225 – 1274)

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La teologia cristiana pre-tomistica negava la convergenza tra filosofia e teologia non solo perché aveva preso atto che la filosofia pagana non era mai stata disposta ad accettare tale convergenza (di qui il fenomeno delle persecuzioni romane), ma anche perché non voleva, una volta divenuta ideologia dominante, che si formasse una filosofia indipendente. Agostino aveva cercato la convergenza, ma era riuscito a trovarla solo facendo dire alla filosofia pagana cose che in realtà non aveva mai detto.

L'Aquinate invece, rendendosi conto che la teologia agostiniana (quella ancora dominante) era in crisi di credibilità, in quanto non rispecchiava più, praticamente, la superiorità dell'esperienza cristiana rispetto a quella neo-pagana che veniva formandosi a seguito dello sviluppo comunale, propone una soluzione di compromesso, tipicamente accademica, concedendo alla filosofia ampia autonomia, ma a condizione che ciò avvenga nel rispetto del primato della teologia.

Egli dunque, al suo tempo, fu un progressista, anche se sul piano teologico il formalismo, invece di diminuire, aumentò. Con Tommaso, infatti, l'esperienza della fede non diventa altro che l'acquisizione di un discorso logico sulla fede (una fede, beninteso, che si rapporta continuamente alla ragione). Nulla di più. Non a caso il tomismo, non avendo nulla da dire di progressista sul piano pratico, è rimasto fino ad oggi l'ideologia dominante della chiesa cattolica, cioè l'espressione più matura del carattere medievale del cattolicesimo latino.

Non solo, ma proprio in forza del tomismo si sono voluti attribuire alla filosofia dei compiti tutt'altro che filosofici (come ad es. quello di credere nell'esistenza di Dio e nella sua unicità, o quello di credere nell'immortalità dell'anima). In sostanza, a partire dal tomismo, la teologia cristiana ha avuto la pretesa di dire a quale forma di "ortodossia" la filosofia doveva attenersi per ricevere l'imprimatur ecclesiastico. In tal modo, proprio mentre si riconosceva alla filosofia una certa autonomia, le si impediva di esercitarla sino in fondo. D'altra parte un progresso c'è stato. Prima del tomismo non si voleva riconoscere alla filosofia alcuna forma d'autonomia: la vittoria della teologia cristiana sulla filosofia pagana si credeva potesse essere ipostatizzata.

In Tommaso, come noto, vi è una duplice necessità che viene salvaguardata: quella di affermare, sul piano teoretico, l'autonomia della ragione, e quello di affermare, sul piano pratico, la sua dipendenza dalla fede. Quando Tommaso ragiona in termini filosofici è progressista, quanto ragiona in termini politici è conservatore.

Questo da un punto di vista molto generale, poiché se scendiamo nei particolari noteremo che il carattere progressista della sua filosofia religiosa è alquanto relativo. Già la sua metafisica dell'essere suscita non pochi problemi. Si ha infatti l'impressione che per Tommaso un individuo meriti d'essere definito come "essere umano" solo nella misura in cui la sua esistenza è conforme alla volontà di Dio.

Inoltre la sua dottrina della partecipazione all'essere divino non implica alcuna esperienza particolare (sul piano sociale) della fede, essendo unicamente il frutto di una speculazione intellettuale (logica). Difficilmente, in tal senso, un ortodosso potrebbe accettare il tomismo, poiché qui la "beatitudine" non è regolata dal rapporto con tutta la migliore tradizione della chiesa, ma solo dalla capacità razionale di saper concepire il proprio essere in analogia con quello divino.

In pratica, il tomismo permette al filosofo cristiano di crearsi un Dio a propria immagine e somiglianza. Esso infatti non può essere qualificato come una teologia stricto sensu, cioè come una riflessione religiosa sopra un'esperienza sociale in atto, ma piuttosto come una filosofia religiosa, individualistica e intellettuale (di cui Anselmo d'Aosta può essere considerato l'antesignano).

Qui, in un certo senso, sta l'involontario contributo di Tommaso all'ateismo. Egli infatti ha categoricamente escluso che l'idea di Dio sia innata nell'uomo (come diceva Agostino), ed ha affermato che per credere in Dio bisogna prima dimostrarne l'esistenza.

Perché questo modo di procedere può essere considerato un contributo all'ateismo? Per due ragioni: la prima è che una qualunque esperienza religiosa vissuta in termini così speculativi non può che violare il segreto di ogni religione, quello appunto di credere in ciò che non è dimostrabile (di qui lo sviluppo dalla Scolastica al Protestantesimo e da questo all'ateismo); la seconda ragione è che nel momento stesso in cui si mettono all'ordine del giorno la necessità di tali dimostrazioni razionali (e si può farlo in maniera logica), l'esistenza di Dio viene ad essere considerata come una pura e semplice ipotesi (di qui lo sviluppo successivo della scienza in generale e della filosofia agnostica o ateistica in particolare). Lo stesso processo secondo cui non si può credere in Dio se prima non se ne dimostra razionalmente l'esistenza è, inevitabilmente, un contributo indiretto all'ateismo, poiché un Dio del genere, anche quando si pretendesse affermarne l'esistenza, non sarebbe più grande del soggetto che lo pensa.

Da questo punto di vista Tommaso ha definitivamente scardinato le fondamenta del cristianesimo agostiniano, per il quale l'esistenza di Dio andava considerata come un'evidenza immediata, afferrabile nell'ambito della coscienza interiore, soggettiva. Agostino non ha mai sentito il bisogno di elaborare delle "prove" razionalmente convincenti sull'esistenza di Dio: gli bastava l'intuizione della grazia o la coscienza del peccato. La sua stessa esperienza gli forniva la prova più convincente.

Peraltro, nelle sue "cinque vie" Tommaso non dimostra affatto l'esistenza del Dio "cristiano", ma si limita a chiamare col termine di "Dio" il risultato dei suoi ragionamenti sillogistici (che in fondo rispecchiano la ricerca intellettuale di un'assoluta oggettività). Un musulmano avrebbe potuto utilizzare le stesse prove per dimostrare l'esistenza di Allah (o di Jahvé, se fosse stato un ebreo).

Il suo cripto-ateismo si manifesta anche nella concezione della natura, ch'egli considera perfetta non meno della perfezione divina; ed anche e soprattutto nella sua concezione dell'uomo, che considera, non meno di Dio, tendente al bene (quanto a inclinazione naturale), libero (quanto a consistenza ontologica) e volitivo (quanto ad autonomia operativa).

L'uomo partecipa all'essere divino, ma di questa partecipazione la sua imperfezione è solo relativa. Quanto più è in analogia con l'essere divino, tanto più l'uomo è perfetto.

Il vero limite del tomismo (come di ogni altro idealismo) è quello per cui esso ritiene perfetta un'azione o un'idea umana solo se essa è perfettamente conforme a una predeterminata idea di Dio. Tommaso cioè ha l'ambizione di credere che la sua idea di Dio sia la più perfetta possibile. Non a caso egli privilegiò nettamente la facoltà razionale dell'anima, rispetto a quella vegetativa e sensitiva, spezzando così la simbiosi degli elementi, la loro interdipendenza. Per lui gli elementi restano sì uniti, ma solo perché quelli inferiori sono subordinati a quello superiore.

L'illusione profonda di Tommaso (come quella di tutti gli idealisti) sta nel credere possibile la libertà solo nel pensiero, nella capacità raziocinante. La libertà non è tanto "possibile" (come un obiettivo da conseguire una volta e mille volte), quanto piuttosto "necessaria", proprio perché l'uomo è un essere razionale. E la vera libertà non sta nello scegliere un bene particolare, concreto, ma il bene in generale, astratto, cioè l'idea stessa di bene. Qui sta anche la profonda astrattezza del suo pensiero, che arriva a giustificare ogni astuzia della ragione, inclusa quella di Stato.

Sul piano politico, infatti, il suo pensiero non è solo astratto ma anche profondamente conservatore, assai simile a quello hegeliano. Il singolo individuo non è che una parte del "tutto statalizzato", e il potere civile (monarchico) dev'essere subordinato a quello ecclesiastico (fondato sull'autorità del papato). A Tommaso, in definitiva, venne concessa molta libertà sul piano della riflessione filosofica, semplicemente perché egli fu disposto a riconoscere sul piano politico ampi poteri alla struttura della chiesa.

LA FILOSOFIA DEL DIRITTO

Tommaso d'Aquino, parlando del diritto naturale, lo riteneva fondato sulla lex aeterna, che determina l'ordine di tutti gli esseri secondo archetipi o idee stabilite da Dio.

L'idealismo religioso portò Tommaso a dare delle curiose risposte a tre quesiti biblici relativi al diritto naturale. Ci si riferisce agli ordini dati ad Abramo di sacrificare Isacco, a Osea di sposare la prostituta, agli ebrei di saccheggiare l'Egitto durante l'esodo.

La soluzione tomista non fu soltanto "formale" - come a prima vista può sembrare -, ma anche cinica, perché di comodo. Dio - dice l'Aquinate - aveva escluso l'uccisione di Isacco dal numero delle uccisioni ingiuste. Nel senso cioè che vi sono delitti e delitti: ad es. quando si uccide un malfattore o un nemico pubblico il delitto è giusto.

Ora, a parte il fatto che con un ragionamento del genere si finisce con l'equiparare il "povero" Isacco a un malfattore, ciò che più stupisce (ma fino a un certo punto) del ragionamento di Tommaso è la sua particolare ipocrisia. Egli infatti, in nome della lex aeterna (oggi si direbbe: in nome della "ragion di Stato") si sente autorizzato a giustificare qualunque azione punitiva (nell'ovvia condizione che questa possa essere giustificata sul piano etico-ontologico).

Tommaso non considerava l'uccisione di un malfattore come una disgraziata eccezione all'idea del bene supremo (che vieta di uccidere), ma, al contrario, come una sua utile conferma: "uccidere è giusto, a condizione che...".

In verità, se si è costretti a uccidere, per legittima difesa, si dovrebbe sempre ricordare che non si sta compiendo un'azione etica (senza poi considerare che nei confronti dei moventi dell'azione criminale nessuno può considerarsi con certezza del tutto estraneo). La legittima difesa, infatti, spesso viene invocata quando l'etica ha già fallito i suoi scopi (quando cioè i rapporti sociali hanno fallito il loro scopo nella vita del delinquente e, indirettamente, quando questo scopo è fallito nella vita di chi non ha saputo impedire al delinquente di diventare tale). Insomma un qualunque reato dovrebbe servire per riflettere sulle cause che l'hanno generato, non per indurre gli uomini a formulare criteri etici di tipo difensivo. Un reato singolo spesso è preceduto da reati collettivi che la legge non contempla.

Che l'etica abbia fallito anche in chi subisce il reato, è documentato anche dal fatto che dopo l'uccisione del delinquente, l'aggredito deve rieducarsi eticamente, poiché nel momento in cui si è difeso (al punto di dover uccidere), non si è comportato in maniera etica. La guerra o la violenza abbruttiscono inevitabilmente sia l'aggressore che l'aggredito, benché la consapevolezza d'essere una vittima possa indurre a usare la legittima difesa entro limiti il più possibile compatibili con i principi dell'etica. Tuttavia, anche questa consapevolezza non è cosa che emerga spontaneamente. L'aggredito, proprio perché vittima, può anzi sentirsi autorizzato a compiere reati peggiori. Il che però, ancora una volta, starebbe a dimostrare che nei riguardi di un'azione criminosa compiuta nel proprio contesto sociale, nessuno può dichiararsi estraneo. Anche l'indifferenza comporta una precisa responsabilità.

Agli altri due esempi Tommaso dà risposte analoghe: il saccheggio ai danni degli egiziani non era stato un furto, perché gli egiziani avevano per molto tempo derubato gli ebrei. Col che Tommaso non fa che predicare il principio veterotestamentario dell'"occhio per occhio". La sua etica, è vero, contempla il perdono, la misericordia e la pietà, ma non esclude, in caso di necessità, gli atteggiamenti opposti, soprattutto la vendetta. Questo perché è un'etica formalista.

Lo si nota anche nella soluzione data all'ultimo quesito: quella di Osea - dice Tommaso - non era fornicazione o adulterio, poiché non c'era stata violazione del diritto matrimoniale (Osea infatti più tardi sposerà la prostituta).

Tommaso, in sostanza, arrivò qui a legittimare un'azione col senno del poi. Non la considerò in sé e per sé, ma per l'esito che aveva avuto: se questo è stato positivo - si potrebbe parafrasare Tommaso -, nonostante la scelta (apparentemente) sbagliata dei mezzi, allora vuol dire che i mezzi, in ultima istanza (per volere "divino") erano giusti.

LE PROVE DELLA DIMOSTRAZIONE DI DIO

Cos'è ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore? Anselmo lo identificò in "dio", senza rendersi conto che questa è soltanto una "parola". Esattamente come le parole "isola perduta", che il monaco Gaunilone utilizzò per contestare la prova ontologica di quello. Non per il fatto di pensare a una meravigliosa isola perduta posso arguire ch'essa esista veramente, gli diceva Gaunilone; al che Anselmo ribatteva che se lui gli avesse trovato qualcosa di superiore a dio, l'isola gliela avrebbe trovata lui.

Entrambi utilizzavano parole astratte, uno in senso religioso, l'altro in senso ateistico, e paradossalmente in maniera inversa alle loro intenzioni. Infatti, parlare di dio soltanto in maniera logica poteva anche voler dire non aver più la fede; negarne invece l'esistenza nella stessa maniera poteva anche voler dire riaffermare il primato della fede, cioè le sue specifiche esigenze, la sua netta diversità rispetto alla ragione.

Anselmo aveva scritto un testo contro gli atei, scendendo però sul loro stesso piano, ed eravamo solo nell'XI secolo! La nascita della borghesia aveva reso fortissima l'esigenza di razionalizzare e quindi di laicizzare qualunque aspetto della vita e del pensiero religioso.

Lo stesso Tommaso d'Aquino non se la sentì di attribuire una validità assoluta alla dimostrazione ontologica di Anselmo. Gli sembrava una forzatura, e però elaborò altre cinque prove che in nulla superano quelle a-posteriori che lo stesso Anselmo aveva formulato nel Monologion.

Peraltro lo stesso Tommaso sfiora il ridicolo quando, dopo aver elaborato riflessioni di tipo logico sull'esistenza di dio (non senza essersi avvalso di testi altrui), conclude dicendo che il risultato finale viene da tutti chiamato "dio". A questo punto qualcuno avrebbe dovuto dirgli che faceva prima ad attenersi a quanto già gli ebrei tremila anni prima di lui avevano detto della divinità: "Io sono colui che sono".

La differenza tra i due stava soltanto in questo, che per Anselmo l'idea di infinito può essere accettata solo se ad un certo punto la si equipara a dio; in Tommaso invece quella stessa idea non può essere accettata proprio perché esiste dio, che è all'origine di tutto. L'uno infatti si rivolgeva a dei monaci scalpitanti, afflitti all'idea di dover praticare una rigida ascesi quando nelle città altri cristiani come loro se la spassavano; l'altro invece cominciava a chiedersi se questi cristiani borghesi non andassero limitati nelle loro pretese di autonomia.

Quello che fa paura ai teologi è l'idea che esista un infinito senza alcuna divinità, cioè l'idea che l'uomo sia un prodotto infinito di un universo infinito. La funzione della religione è appunto questa, di far credere all'uomo d'essere sommamente limitato, al punto da sembrargli indispensabile il rapporto con un mediatore (la chiesa) tra se stesso e la divinità, che è perfezione posta al di fuori della terra.

Questi teologi così razionalisti non si rendevano conto che con tutte le loro dimostrazioni razionali dell'esistenza di dio non facevano che attestare una mancanza di fede e soprattutto di esperienza religiosa e, indirettamente, rendevano questa esperienza ancora più formale, nell'illusione di attribuirle una solidità con l'uso intellettualistico della logica. In pratica non facevano che favorire lo sviluppo dell'ateismo.

Tuttavia il loro era un ateismo a favore dei "poteri forti", quelli dominanti dell'aristocrazia, laica ed ecclesiastica. Infatti, invece d'impegnarsi nel cercare di risolvere le contraddizioni sociali del loro tempo, le davano per scontate, rimandando la loro soluzione alla fine dei tempi. Anzi, chiedevano a chi le subiva maggiormente (la classe contadina) di non far nulla per mitigarle o per superarle, soprattutto senza la mediazione della chiesa.

Erano però disposti - qui sta la loro maggiore ipocrisia - ad accettare l'idea che si formasse una nuova classe sociale (la borghesia) che, nel mentre cercava di perseguire sordidi interessi privati, ufficialmente risultava in linea coi dogmi della teologia dominante o, quanto meno, appariva sottomessa al potere della chiesa di stato.

La chiesa romana, in realtà, si stava creando il proprio becchino, poiché, quando si permette a un'intera classe sociale di esercitare una doppiezza così marcata fra teoria e prassi, non si può poi pensare che quella stessa classe non la usi contro chi l'ha addestrata a farlo.

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Supponiamo che le cinque vie tomiste per dimostrare l'esistenza di dio siano vere. Ma perché chiamare dio il cosiddetto "motore immobile" o la "causa incausata" o la "causa finale" o l'"ente originario non necessitato" o la "perfezione insuperabile"? I teologi medievali, al pari dei loro colleghi filosofi del mondo greco, escludevano che si potessero chiamare con un altro nome queste e altre definizioni, semplicemente perché vedevano che il genere umano era, sulla terra, incredibilmente condizionato. Non pensarono mai di attribuirle a un'essenza umana primordiale.

Tuttavia il fatto che l'uomo venisse allora percepito come particolarmente limitato, non sta di per sé a indicare che lo sia sempre stato. Sia nell'epoca schiavistica che in quella feudale si era persa la memoria di ciò che l'uomo era stato quando non esistevano i conflitti di ceti o di classe. Se vi fosse stata la possibilità di ritornare a vivere senza antagonismi sociali, si sarebbe attribuita ancora a un ente astratto, assolutamente perfetto, l'origine di tutte le cose? Sarebbe parso quanto meno mortificante.

Se anche, in assenza di antagonismi, potessimo pensare a un ente perfetto, non potremmo certo ritenerlo migliore di noi. Esattamente come un figlio, divenuto adulto, non ritiene i propri genitori migliori di sé solo perché l'hanno messo al mondo.

Questo per dire che tutte le prove con cui s'è cercato di dimostrare che esiste un dio onnipotente e onnisciente, in realtà partono dal presupposto della limitatezza umana, così come s'è venuta configurando, ad un certo punto, nell'orizzonte storico. Sono tentativi di dimostrazione sociologicamente condizionati. E il condizionamento si riflette a tutti i livelli: psicologico, morale, politico...

Viviamo in una realtà divisa, alienata, e sogniamo qualcosa di unito, ricomposto, cui attribuire poteri che non ci appartengono ma che vorremmo avere. E siamo convinti, o meglio, ci hanno fatto credere che i poteri assoluti non ci appartengono non per una contraddizione storica, ma proprio per motivi di natura. Siamo cioè convinti che il genere umano sia nato male, avendo dentro di sé qualcosa che gli impedisce d'essere felice. Tutte le religioni e le filosofie mistiche scomparirebbero facilmente se riuscissimo a dimostrare che l'essere umano non è quello che appare.

La cosa strana è che la stessa religione parla di un'epoca in cui non esistevano contraddizioni irrisolvibili: ciò è molto evidente p. es. nel racconto della creazione del Genesi, ove si dice che il peccato ha introdotto, oltre alla perdita dell'innocenza, alla costrizione del lavoro e alla violenza sociale, anche la morte.

Quindi, appare evidente, che prima del peccato le alternative erano due: o la morte non esisteva, oppure veniva concepita come un fenomeno del tutto naturale. Supponendo la seconda cosa, appare non meno evidente che, in tal caso, gli uomini dovevano avvertire i cosiddetti "aldilà" e "aldiquà" come un unicum inscindibile. La morte cioè doveva apparire come un semplice passaggio da una condizione di vita a un'altra, senza dubbi di sorta. Non a caso nella Bibbia è presente una certa consapevolezza ancestrale circa l'immortalità degli uomini, che pare permanere anche dopo il peccato originale, al punto che deve intervenire Jahvè in persona per accorciare di molto la durata della vita.

In ogni caso il fatto stesso che l'immortale Jahvè venga descritto come intento a passeggiare nell'Eden, insieme ai nostri avi, lascia presumere che un tempo si avesse chiara l'idea di "immortalità", o comunque l'idea che tra mondo e universo non vi fosse alcun salto nel buio.

Oggi sappiamo bene che i conflitti sociali permangono e ci illudiamo di poterli risolvere con mezzi artificiali: grazie alla scienza, alla tecnica e alla rivoluzione industriale riteniamo l'uomo molto più indipendente e indubbiamente per questo siamo molto meno religiosi. Che poi questo si tratti di un'illusione è dimostrato dal fatto che i poteri costituiti hanno ancora bisogno della religione. Ma non è illusoria l'idea di pensare che l'uomo possa raggiungere su questa terra la propria felicità: si tratta soltanto di trovare i mezzi e i metodi più giusti.

* * *

Rifiutando la coincidenza di forma e materia, peraltro inevitabile nel mondo greco, in quanto per quella filosofia la materia, generalmente, è eterna, Tommaso d'Aquino ha fatto un passo indietro rispetto ad Aristotele.

Se l'universo è eterno e infinito, è evidente che l'esistenza delle cose è immanente alla loro sostanza. Invece se si accetta l'idea di creazione, l'essenza diventa una mera possibilità e l'esistenza le prevale, come l'atto alla potenza.

Tommaso pensa di poter dimostrare questa distinzione, dicendo che possono esistere enti logici cui nulla di fisico corrisponde realmente. La "cecità" p. es. non indica una realtà specifica, altrimenti diremmo "uomo cieco" o "occhi ciechi".

Se esiste un dio creatore, essenza ed esistenza possono coincidere completamente soltanto in lui. L'uomo invece riceve l'esistenza dall'esterno, appunto da dio, il quale permette all'uomo di partecipare, per analogia, all'idea di perfezione religiosa, in quanto non vi è una medesima essenza.

Insomma l'uomo non ha in se stesso il significato di sé: in un certo senso non ha neppure l'essere. D'altra parte per Tommaso l'essere e più importante dell'essenza, quando invece può essere vero il contrario, in quanto l'essere esclude il non-essere, cioè la diversità, l'opposizione; invece l'essenza li include entrambi. E l'essenza non è puro spirito, ma materia e anti-materia. Essere e non-essere sono simili, per analogia, ma ontologicamente diversi.

* * *

Le cinque vie o prove dell'esistenza di dio hanno, in Tommaso d'Aquino, un qualcosa di puerile. Semplicemente perché si fa un ragionamento analogo a quello dei bambini, i quali, quando iniziano a porsi i primi "perché" della vita, cioè delle cose che accadono, e non arrivano a darsi una spiegazione convincente, l'attribuiscono a una entità astratta o a loro nettamente superiore, la cui volontà resta imperscrutabile. Non riescono a capire che ogni cosa ha una causa, che può essere o umana o naturale (la natura, per quanto condizionata possa essere dalla volontà umana, fruisce sempre di una certa autonomia d'azione).

Il dio dei teologi non è che una forma di "compensazione" dovuta a modi inadeguati di affrontare le contraddizioni della vita. La religione è un prodotto tipicamente umano, sconosciuto al mondo animale, proprio perché gli animali soffrono con rassegnazione le sofferenze che procurano loro gli umani, cioè le patiscono come una cosa inevitabile, percependo una netta sproporzione tra la loro forza di volontà e quella umana. Viceversa gli esseri umani non riescono a rassegnarsi completamente alle contraddizioni che loro stessi s'impongono, per cui, quando non sanno risolverle adeguatamente, si creano dei surrogati o appunto delle compensazioni, la prima delle quali è appunto la religione (oggi parliamo di consumismo o di droghe di vario tipo, il cui termine va usato in senso lato, per indicare una qualsivoglia "dipendenza" da qualcosa che, illusoriamente, si pensa possa compensare da una frustrazione sociale o individuale).

DEPURARE IL TOMISMO

Se alla teologia tomista si sostituisce il concetto di "essenza divina" con quello di "essenza umana o naturale o universale", forse si può conservare ancora qualcosa di utile. Sicuramente qualcosa di più oggettivo di quella filosofia che, per la prima volta, in epoca moderna, iniziò partendo esplicitamente dall'io che dubita.

Certamente grazie anche a Cartesio abbiamo capito di non aver bisogno di una metafisica che, pur di andare oltre la fisica, sia disposta a sconfinare nella teologia. Però abbiamo bisogno di una metafisica impostata su elementi logici, etici e materialistici, e non possiamo farlo basandoci sul soggettivismo cartesiano, il quale diventa oggettivo solo quando fa matematica e geometria. Né d'altra parte possiamo avvalerci della metafisica hegeliana, se non per taluni aspetti riguardanti i processi dialettici, poiché, per tutto il resto continua ad aver ragione Feuerbach quando diceva che la filosofia hegeliana non è che una laicizzazione del cristianesimo.

Se si concede il più piccolo appiglio al misticismo, si finisce col ripetere cose già dette o col non sapere come proseguire le proprie riflessioni, come capitò ad Heidegger col suo Essere e tempo.

Quello che il teologo aquinate non aveva capito è che non vi è alcun bisogno di sostenere l'esistenza di un dio che per essenza abbia l'essere, mentre noi l'avremmo solo per partecipazione. Per quale ragione dovremmo elaborare delle prove per dimostrare l'esistenza di un essere che non vediamo, e speculare astrattamente su tutte le sue possibili proprietà, quando, se lo sostituiamo con l'uomo che vediamo, non avremmo bisogno di dimostrare alcunché né di fare voli pindarici?

È logicamente più semplice fare dell'uomo un dio che cercare un dio al di fuori dell'uomo. A meno che, ovviamente, non si vogliano difendere gli interessi di una religione, che si basano proprio sulle imperfezioni umane e che fanno di queste un motivo sufficiente per credere necessaria una soluzione magica dei problemi, del tutto esterna alla nostra volontà.

La difficoltà principale che poneva Tommaso, nei confronti dell'ateismo, era relativa all'impossibilità di considerare perfetto il genere umano, a motivo delle sue insanabili contraddizioni, che venivano considerate come qualcosa di naturale (che si trasmette in maniera necessaria a causa del peccato originale) e non di storicamente determinato, che può cioè essere risolto grazie alla volontà umana.

In realtà nell'universo non c'è nulla di più perfetto dell'essere umano, almeno fino a prova contraria. Noi facciamo fatica a crederci semplicemente perché su questa terra lo vediamo incredibilmente limitato. Ma è anche proprio questa limitatezza che ci indica, al negativo, la sua grandezza: infatti, se fossimo come gli animali, agiremmo d'istinto, dimostrando di non possedere la libertà di coscienza. Gli idealisti sono soliti accentuare nell'uomo gli aspetti negativi, trovandosi successivamente costretti a supporre un dio totalmente perfetto, così perfetto che non può non fare il bene: essi cioè si creano un dio che, in un certo senso, ha caratteristiche istintuali, essendo incapace di compiere il male. Pongono il loro dio al di fuori della terra, impedendo agli uomini di identificarsi con l'essenza dell'universo e di fare della terra il loro banco di prova, la condizione in cui essere se stessi.

Se partiamo invece dal presupposto che l'universo è eterno e che, nella sua eternità, essere e non-essere coincidono, noi dovremmo convenire su un fatto a prima vista paradossale, e cioè che noi non siamo mai nati come essenza. Cioè l'essenza o la sostanza umana è coesistente a quella naturale. L'unico elemento esterno all'uomo è appunto la natura, la quale però, guarda caso, non è presente in alcun altro pianeta.

Per quanto inspiegabile sia il motivo, appare evidente che il nostro pianeta è abitabile non solo per piante e animali, ma anche, e soprattutto, per l'essere umano. Stando a quanto ne sappiamo, nell'universo non esistono altri pianeti con caratteristiche "naturali" come il nostro, né pianeti analoghi al nostro, in grado di ospitare piante e/o animali o comunque esseri viventi diversi da noi. La terra sembra essere oggetto di un esperimento unico in tutto l'universo, che probabilmente, grazie all'uomo, attende d'essere ripetuto. Questo significa che se nell'universo esiste un'essenza umana, noi non dovremmo avere alcuna difficoltà a riconoscerla.

Ogni singola persona ha in sé l'essere e non è molto importante sapere se questo sia per essenza o per partecipazione, se sia cioè un prodotto originario o derivato. Quel che è certo, infatti, è che se il nostro destino è quello di popolare l'universo intero, noi saremo altresì destinati a farlo in condizioni ambientali di spazio-tempo che non coincidono esattamente con quelle terrestri (cosa che d'altra parte abbiamo già capito con la rivoluzione della fisica nel Novecento).

Ogni essere fa parte di un'essenza, la quale contiene anche il non-essere, che fonda la differenza, la dualità, per cui in origine non vi è l'uno, bensì il due. Non c'è tesi senza antitesi: il processo dialettico l'abbiamo capito sin dai tempi di Hegel. Con lui, infatti, abbiamo smesso di credere che l'opposizione sia un elemento negativo. Anzi, è proprio grazie alla differenza che l'identità si rafforza, si completa, e non una volta, ma infinite volte, poiché l'antitesi è sempre presente.

Da questa essenza umana e naturale dipendono tutte le forme possibili nell'universo: quelle che possiamo constatare di persona e quelle che, al momento, possiamo solo ipotizzare.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 24-05-2015