FRANCESCO D'ASSISI

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FRANCESCO D'ASSISI

I - II

Cimabue, Francesco d'Assisi

Sulla scia del lavoro di Engels, La guerra dei contadini in Germania (cap. II), la storiografia marxista è solita attribuire allo sviluppo delle città la formazione dei movimenti pauperistici ereticali nell'Europa del XII e XIII secolo. I primi cioè a essere considerati eretici dalla chiesa furono i borghesi, i mercanti, gli artigiani delle città, coloro che lottavano per le libertà comunali contro il potere politico ed economico dell'autorità ecclesiastica locale. "La borghesia medievale -scriveva Engels- esigeva anzitutto una chiesa a buon mercato. Reazionaria nella forma, come ogni eresia che nello sviluppo progressivo della chiesa e dei dogmi vede solo una degenerazione, l'eresia esigeva il ristabilimento della costituzione della chiesa cristiana delle origini e la soppressione del clero come casta esclusiva. Questo ordinamento a buon mercato eliminava i monaci, i prelati, la corte romana, in breve tutto ciò che nella chiesa era costoso". 

Naturalmente la borghesia non combatteva da sola ma in alleanza con la piccola nobiltà (già alle dipendenze dello sviluppo cittadino) e con ampi strati plebeo-contadini, i quali -dice ancora Engels- condividevano "tutte le esigenze dell'eresia borghese riguardo ai preti, al papato e alla restaurazione del cristianesimo primitivo, ma nello stesso tempo andavano infinitamente più lontano. Essi esigevano che fosse restaurata l'eguaglianza tra i membri della comunità, propria del cristianesimo primitivo, e che il riconoscimento di questa eguaglianza fosse una norma generale anche per la società". 

L'eresia plebeo-contadina si svilupperà autonomamente soprattutto nei secoli XIV e XV, combinandosi spesso con le sollevazioni popolari, ma l'attacco alla proprietà privata e l'aspirazione alla comunanza dei beni -spiega bene Engels- non oltrepasserà mai la pura e semplice organizzazione della beneficenza.

Di quest'ultima forma di eresia l'espressione più significativa, in Italia, fu quella del movimento apostolico-dolciniano, il quale prevedeva la strutturazione di una società libera basata sull'equa ripartizione delle terre della Valsesia e territori limitrofi. Viceversa, la maggioranza degli eretici estremisti di estrazione borghese, sostenendo che non può esistere una giusta distribuzione delle ricchezze in questo mondo, preferiva rinunciare a qualsiasi possesso: l'eguaglianza affermata, quindi, era solo "negativa". A questo fa eccezione l'eresia borghese italiana più importante del XII secolo, quella di Arnaldo da Brescia, secondo cui era necessario rivendicare la secolarizzazione delle proprietà ecclesiastiche a vantaggio dei contadini, ovvero la soppressione dell'episcopato e del potere temporale dei papi, riportando così la chiesa alla sua originaria povertà evangelica.

In sostanza quindi l'insurrezione socio-religiosa delle eresie dei secoli XI-XV "nasceva immediatamente -come vuole G. Volpe- dalla vita, da quell'ordine sociale, da quella onnipresenza della chiesa d'allora, da quei contrasti di ceti e partiti. Ma, poiché il tempo era tempo di grande religione, così ogni moto si coloriva di religione ed anche la resistenza della chiesa terrena prendeva motivazioni religiose» (Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Firenze 1961).

La confraternita francescana non sfugge a questa interpretazione marxista: basti pensare che gli esponenti di maggior rilievo furono di origine o borghese (come Bernardo da Quintavalle e lo stesso Francesco, che tentò peraltro in gioventù di arruolarsi nella cavalleria) o aristocratica o intellettuale (come Giovanni Parenti, Alberto da Pisa, Elia da Cortona, Pietro da Catania, che era giurista). Ma, come per le altre comunità pauperistiche, in essa confluirono persone appartenenti anche ai ceti più umili, l'ingresso dei quali era inoltre favorito dal fatto che Francesco scoraggiava l'applicazione agli studi. Chi sapeva leggere poteva avere a disposizione i libri necessari per svolgere l'ufficio religioso; gli altri dovevano restare analfabeti.

Ispirandosi direttamente al Vangelo, Francesco di Bernardone redasse la sua prima Regola, quella cosiddetta "non bollata" nel 1221, per venire incontro all'esigenza di codificare la complessa esperienza di un movimento che ormai contava più di 5 mila aderenti. Gli aspetti salienti che qui brevemente riassumiamo sono quelli socio-economici ed etico-politici. Francesco descrive la sua "fraternità" sulla base di principi democratici, ma visti tutti a partire dall'uguaglianza negativa della "povertà assoluta".

I frati avevano l'obbligo del lavoro, altrimenti non mangiavano. Generalmente svolgevano mansioni di fatica o esecutive alle dipendenze di aristocratici, borghesi o artigiani. Non potevano comunque fare lavori considerati indegni come il cameriere, il dispensiere, il maggiordomo o simili. Lavorando sotto padrone potevano ottenere una remunerazione secondo le necessità, ma solo in natura, mai in denaro (che era ammesso unicamente per l'assistenza dei frati ammalati e dei lebbrosi). Se il bisogno era superiore alle disponibilità, il frate doveva ricorrere all'elemosina. La povertà insomma era assoluta, sia personale che collettiva. I frati potevano avere in uso gli strumenti di lavoro ma non in proprietà: l'unico possesso personale riguardava il cibo e il vestiario.

Sul piano dei rapporti etico-politici Francesco prevedeva anche qui l'uguaglianza di tutti i frati, privati di ogni potere o dominio: nessuno doveva essere chiamato "priore" (qui la critica è ovviamente rivolta alla regola benedettina, dove la funzione dell'abate priore era ed è determinante in ogni aspetto della vita comunitaria); e l'obbedienza ai ministri non andava considerata assoluta ma relativa al bene (di nuovo è Benedetto a esser preso di mira). Nessun mandato, per Francesco, poteva essere considerato irrevocabile: in nessun momento e per nessuna persona. Esisteva inoltre la possibilità di essere espulsi dalla confraternita (che non doveva istituzionalizzarsi in un "ordine") e di predicare contro l'uso e le prescrizioni della chiesa romana. (Da notare che il III concilio lateranense del 1179 aveva interdetto ai laici la predicazione e il commento delle Sacre scritture).

Dal principio negativo della povertà assoluta discendono anche altri principi etico-politici che, per quanto meno interessanti, alla fine risulteranno decisivi sia per l'accettazione pontificia della comunità, sia per la configurazione definitiva dell'ordine. Essi sono la non-resistenza al male, la rassegnazione, la concezione del peccato insito nell'uomo. In particolare Francesco ribadisce l'idea che il credente, sopportando con pazienza ogni sopruso, può sperare di ottenere una ricompensa ultraterrena.

Dunque, povertà assoluta e rassegnazione. La prima vista in antitesi agli abusi praticati non solo dal clero secolare ma anche dagli ordini monastici che, dietro il paravento della "comunione dei beni" (povertà individuale ma non collettiva) si erano notevolmente arricchiti, sfruttando i contadini al pari di un qualsiasi signore feudale. La scelta della rassegnazione è probabilmente il frutto di una considerazione politica fatta riguardo alla sorte cui spesso andavano incontro gli eretici e soprattutto i capi dei movimenti pauperistici di quel tempo: Arnaldo da Brescia fu impiccato; Liutardo morì suicida in un pozzo; Tanquelin, eretico belga, venne assassinato; Pietro di Bruys, che operava nel Mezzogiorno francese, gettato dalla folla sul rogo; la crociata contro gli albigesi, iniziata l'anno in cui Francesco fonda l'ordine e terminata all'epoca della sua morte, lascia sulle terre della Linguadoca 20 mila persone, trucidate.

Francesco non prometteva niente a nessuno. La sua protesta era sì di carattere sociale, ma - stando alle sue intenzioni originarie - essa doveva rimanere circoscritta a un numero limitato, di persone: ecco perché non poteva trasformarsi in un'opposizione politica vera e propria. Tant'è che già nel 1212, cioè ben 9 anni prima di scrivere la Regola non bollata, Francesco decise di andare in Siria a cercare il martirio fra i saraceni, e due anni dopo ci riprovò dirigendosi verso il Marocco. Smise di compiere questi vani tentativi solamente quando s'accorse che i turchi non erano così fanatici come venivano dipinti in Italia.

Furono anzi i crociati che, riconquistata Damietta, apparvero agli occhi del Poverello, come degli autentici barbari. Di qui la decisione di ritirarsi in solitudine presso i Luoghi santi di Gerusalemme. Fu solo per l'insistenza di un frate venuto dall'Italia a informarlo degli abusi di potere dei vicari generali ch'egli decise di ripartire.

Ma, a testimonianza del carattere individuale o di piccolo gruppo che doveva avere la sua protesta etico-sociale, ancora una volta - quando al primo capitolo generale si decise di costituire l'ordine anche all'estero - Francesco fece di tutto per poter emigrare in Francia. Cosa che gli fu impedita dalla resistenza del cardinale Ugolino d'Ostia, al quale lo stesso Francesco si era ingenuamente affidato per tenere sotto controllo la congregazione. Francesco insomma non riuscì affatto a prevedere l'ampliarsi del movimento e quando questo avvenne trovò moltissime difficoltà nel dargli un'organizzazione più articolata e soprattutto nel dirigerla. Spesso anzi affidò l'amministrazione delle province e addirittura dell'intero ordine a persone che gli erano quasi del tutto ostili, anche se a volte - è vero - sapeva trovare la necessaria forza morale per ripristinare la fedeltà agli autentici principi (vedi, in questo senso, il suo rapporto col ministro generale Giovanni da Staccia).

Francesco fu costretto a chiedere l'intervento del cardinale Ugolino - che perorò la sua causa al cospetto di papa Innocenzo III - per poter mediare i contrasti scoppiati all'interno della comunità sull'interpretazione della prima Regola. Il papa, dopo aver considerata la Regola un'evidente assurdità se vissuta all'interno della società comunale, decise, su consiglio del cardinale, di approvarla oralmente, permettendo che i frati fossero tonsurati, cioè riconosciuti quasi ufficialmente. Considerando che, a differenza degli altri eretici, essi avevano chiesto l'imprimatur della chiesa, il papa non si lasciò sfuggire l'occasione, una volta superata l'iniziale diffidenza, di strumentalizzare l'iniziativa per i suoi interessi di potere. Interessi che, come sottolinea Gramsci, consistevano nel fatto che "i diversi ordini religiosi rappresentavano la reazione della chiesa (comunità dei fedeli o comunità del clero), dall'alto o dal basso, contro le disgregazioni parziali della concezione del mondo (eresie, scismi ecc. e anche degenerazione delle gerarchie)" (Quaderni del carcere, ed. Einaudi, p. 2086, ma vedi anche le pp. 748-9 e 1384).

Nel frattempo il cardinale continuò ad appoggiare l'ala francescana contraria alla povertà assoluta, tanto che Francesco, allorché scrisse una lettera Al capitolo generale e a tutti i frati, raccomandando di non violare la Regola non bollata, si rese subito conto che se non l'avesse riscritta, sarebbe presto finito in netta minoranza. Il placet orale del papa non aveva sortito l'effetto sperato. E così, temendo la disgregazione dell'ordine, Francesco revisionò la prima Regola, facendosi approvare per iscritto quella nuova da papa Onorio III, il quale assegnò lo stesso cardinale al movimento con la funzione di "governatore, protettore e correttore".

L'integrazione era compiuta. Già dalla disposizione gerarchica voluta dal pontefice si può comprendere il contenuto della Regola bollata, scritta appena due anni dopo la precedente. I ministri vengono considerati al disopra della comunità: soltanto a loro spetta il compito di accettare o rifiutare le richieste di adesione. Viene istituito il ministro generale dell'ordine, eletto dai ministri provinciali e dai custodi (quest'ultimi disponevano di molto potere esecutivo e amministrativo). La carica di ministro generale non era a vita, ma per la sua elezione i frati non potevano più partecipare in modo decisivo. In nessun caso era lecito uscire dall'ordine una volta terminato l'anno di noviziato: occorreva un permesso speciale del papa. I frati inoltre dovevano restare sottomessi al vescovo della diocesi locale per quanto riguardava la predicazione (che intanto era diventata un ufficio particolare).

Sotto questo aspetto il principio della povertà assoluta veniva naturalmente ad acquistare un significato meno polemico nei confronti del sistema e quindi più facilmente soggetto a modificazioni. Come in effetti sarà. Anche i francescani infatti si adatteranno alla norma benedettina della povertà individuale ma non collettiva. Il fatto è che i principi della Regola non bollata potevano essere vissuti solo da un ristretto numero di persone con esigenze molto limitate e in un ambiente pressoché isolato.

L'ideale francescano originario avrebbe potuto meglio realizzarsi in una comunità eremitica situata nel deserto, ma anche in questo caso il valore della povertà assoluta avrebbe potuto trovare il suo senso solo all'interno di una comunione dei beni. Gli stessi Atti degli apostoli documentano che fra i primi cristiani non c'era povertà ma condivisione dei beni comuni nell'uguaglianza sociale. Nemmeno fra i discepoli di Gesù è mai esistita la povertà assoluta: non è forse vero che il collegio dei Dodici disponeva di una cassa comune il cui amministratore era l'Iscariota? Il disprezzo di Francesco per il denaro probabilmente risente del pessimismo dualistico manicheo che allora permeava l'eresia più popolare, quella catara. Temendone l'abuso Francesco ne impediva letteralmente l'uso, non rendendosi conto che l'alternativa alla società feudo-ecclesiale e neo-borghese non stava né nella pura e semplice povertà assoluta, né in una comunione di beni finalizzata alla mera sopravvivenza.

La regola francescana fu comunque l'unica a essere omologata nel corso dei secoli XII e XIII. Tutte le altre furono costrette dal IV concilio lateranense a rifarsi alle regole già esistenti di Agostino e Benedetto. Gli stessi domenicani non poterono sottrarsi a questo canone.

Francesco era stato sconfitto su tutti i fronti (non a caso fu dichiarato santo nel 1228, ad appena due anni dalla morte). Il suo Testamento spirituale ne è la riprova. Qui il riferimento alla povertà assoluta è più che altro formale. Sostanziale invece è il riconoscimento del potere quasi assoluto del ministro generale e dei cardinale, e sul piano amministrativo dei custodi. Francesco inoltre chiede ai frati di obbedire ai preti anche se indegni e vieta qualsiasi interpretazione sia della Regola bollata che del Testamento. Il concetto di peccato strutturale all'uomo, che aveva inficiato inizialmente l'esigenza di una piena democrazia sociale, portò dunque "l'araldo di dio", provato oltre le sue forze, ad accettare l'istituzione di un ordine rigidamente gerarchizzato.

Gli ultimi anni della sua vita sono soltanto un penoso calvario, fisico e psicologico. Il frutto più sublime di questo periodo è, come noto, il Cantico di frate sole (o delle creature), preceduto dalle Lodi di Dio altissimo, che restano però più astratte. Il Cantico è il bilancio di una vita intera, estremamente sofferta e dilaniata da interiori contraddizioni. Vi si intersecano molteplici livelli: da quello ontologico, laddove si afferma una differenza qualitativa molto accentuata, senza mediazioni, fra uomo e dio; a quello estetico-teleologico, laddove Francesco parla della natura come vero riflesso della perfezione divina (da qui peraltro nascerà nel futuro francescanesimo il particolare interesse filosofico per la "materia").

Su questa valorizzazione della natura molto è stato scritto: si è persino arrivati a dire che il Cantico in realtà non è che un "Inno al sole". Se è così, certo Francesco non aveva in mente di offrire delle ipotesi geogoniche sostenendo che dal sole dipende tutta la vita terrena (vi è forse qui un'anticipazione delle teorie copernicane?). Probabilmente non s'era neppure accorto che considerando il sole come unico simbolo materiale della luce divina, egli veniva a contrapporsi politicamente (seppure in modo indiretto) alla ben nota tesi di Innocenzo III, per cui soltanto il papa poteva paragonarsi al sole (mentre l'imperatore doveva accontentarsi della luna).

Tuttavia, in questo Cantico la contemplazione della perfetta armonia della natura non riesce ad attenuare il pessimismo di Francesco sulle capacità umane di liberazione. Nel testo - soprattutto negli aspetti di tipo filosofico, pedagogico, etico e autobiografico - la soluzione prospettata per la crisi del suo tempo diventa sempre più quella dell'umiltà e della totale rassegnazione. "Laudato si, per quelli che perdonano per lo tuo amore" - recita il giusto sofferente, consapevole che la morte accomuna ogni uomo e che non sfuggirà al castigo eterno (la "morte seconda") chi al perdono vuole rinunciare.

Dopo il parziale fallimento della crociata anti-albigese, la chiesa si affidò agli ordini mendicanti (francescano e domenicano) per estirpare l'eresia catara, ma solo con l'istituzione del tribunale dell'Inquisizione (diretto soprattutto dai domenicani) essa riuscì nel suo intento.

I francescani intanto si erano già divisi in due correnti. Per iniziativa di frate Elia da Cortona (poi scomunicato) i conventuali, appoggiati dall'autorità ecclesiastica, presero il sopravvento sugli spirituali, allentando il voto di povertà e interpretando la Regola bollata non in modo letterale. Essi s'impiantarono nelle città e, basando la propria predicazione su una cultura universitaria, lavoravano per fornire uno statuto spirituale alle nuove attività intellettuali, giuridiche, artigianali e commerciali: nessun mestiere, secondo loro, poteva impedire al credente di raggiungere la salvezza. Per cui arriveranno a legittimare il profitto del mercante e alcune forme legalizzate d'usura (come i monti di pietà).

Per capire quanto stretti fossero sin dall'inizio i loro legami con gli interessi della curia pontificia, basta vedere quale parte di rilievo ebbe Matteo d'Acquasparta, generale dell'ordine, nel preparare la missione "pacificatrice" di Carlo di Valois, in Firenze, voluta da Bonifacio VIII (1301).

Fu in questa corrente, nell'ambiente tranquillo del chiostro, che maturarono i celebri Fioretti di s. Francesco. Qui l'eco delle lotte trascorse all'interno dell'ordine viene completamente subissato dalle molteplici immagini miracolistiche che mitizzano il Poverello d'Assisi.

Le stesse numerose biografie del santo sono più che altro leggendarie, a partire da quella più antica, redatta da Tommaso da Celano nel 1228-29, che propone imbarazzanti lodi persino di personaggi scomodi come frate Elia. Nel 1260 il capitolo generale affidò al nuovo ministro generale dell'ordine, Bonaventura, il compito di redigere una nuova biografia, che fosse ufficiale e che obbligasse a bruciare tutte le precedenti. La Leggenda Maior del 1266 diventa così il testo definitivo su Francesco. Il processo di "normalizzazione" era praticamente concluso.

Ben diverso è il contenuto degli scritti della corrente radicale degli spirituali, capeggiata da Pietro Olivi e Ubertino da Casale. L'aspra battaglia anticuriale e antigerarchica costerà loro l'accusa di eresia. In particolare va ricordata l'opera di Giovanni Parenti, Le mistiche nozze di s. Francesco con Madonna Povertà, ove netta è la condanna degli ecclesiastici compromessi col potere economico e politico.

Ma forse il documento più autorevole della letteratura "spirituale" fu quello scritto dal capo dei fraticelli, l'ala più ribelle dei radicali: la Storia delle sette tribolazioni dell'ordine dei Minori, di Angelo Clareno. Qui l'involuzione dell'ordine viene descritta con spirito fortemente polemico. Questi francescani si diffusero nell'Italia centro-orientale e in Provenza. A Marsiglia, nel 1318, alcuni di loro finirono sul rogo. Altri confluirono nella corrente millenaristica di Gioacchino da Fiore (vedi, a questo proposito, l'Introduzione al vangelo eterno, di Gerardo di Borgo s. Donnino). Persino un papa simpatizzò per gli spirituali, il famoso Celestino V, che solo dopo pochi mesi di triregno decise di dimettersi (caso unico nella storia del papato), sostituito da Bonifacio VIII, e che per questo gesto Dante metterà nel suo Inferno fra gli ignavi (cfr. Avventura di un povero cristiano di I. Silone).

Col passare dei secoli il francescanesimo ebbe sempre più fortuna. La possibilità che l'Assisiate aveva offerto di vivere "nudi seguendo Cristo nudo" in una società sempre più "borghese" attirava persone di ogni ceto sociale e rango politico. In 7 secoli quest'ordine diede alla chiesa 2.500 vescovi, 90 cardinali e 5 papi. Poté annoverare nel terzordine statisti come Carlo V e Maria Teresa d'Austria, scrittori come Dante, Petrarca e Cervantes, artisti come Giotto, Michelangelo e Raffaello, musicisti come Palestrina, Liszt e Gounod, scienziati come Volta e Galvani, navigatori come Cristoforo Colombo, filosofi come R. Bacone, Duns Scoto e G. d'Occam, e tutti i papi contemporanei a partire da Leone XIII.

L'agiografia borghese si è servita abbondantemente del francescanesimo per condannare solo moralmente l'abuso delle ricchezze e quindi per confermarlo politicamente. Non deve apparire strano il destino di un uomo sottoposto alla medesima strumentalizzazione del "modello" cui diceva di volersi ispirare. E' un destino necessario, inevitabile. Benché avesse lottato tutta la vita per impedirlo, Francesco lasciava la porta aperta alle interpretazioni più disparate del suo messaggio. Alla resa dei conti trionfarono quelle che riuscirono a trovare un appoggio concreto nel sistema socio-economico di quel tempo. Le altre interpretazioni vennero ben presto dimenticate. La borghesia ha il terrore di ricordare il suo passato rivoluzionario, soprattutto non sopporta il ricordo di tutte quelle critiche globali che investono i meccanismi economici e politici dell'intera società. Di Francesco preferisce ricordare, oltre naturalmente al rigorismo ascetico-morale, l'opposizione politica particolarmente moderata.

La "questione francescana" si riapre nel secolo scorso, quando storici, in massima parte non cattolici, scovano documenti e codici che si credevano scomparsi. Il testo di Paul Sabatier, La vita, ha fatto scuola. Persino il cinema ha recepito questa riscoperta: Zeffirelli ha riproposto l'immagine edulcorata di Bonaventura; le due opere della Cavani fanno pensare più alla Leggenda dei tre compagni; molto interessanti sono la lettura che fa dei Fioretti Roberto Rossellini e l'episodio della predica agli uccelli in Uccellacci uccellini di Pasolini.


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015