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La filosofia della storia di Ernest Mandel
dal Trattato marxista di economia (vol. I)
(ed. ErreEmme, Roma 1997)

Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su se stessi.
Seathl, capo indiano

Premessa

Nel suo voluminoso Trattato marxista di economia, scritto in gioventù (1960), dopo dieci anni di lavoro, vi sono delle pagine (284-296) del I tomo che avrebbero potuto essere intitolate: "Filosofia marxista della storia".

Esse infatti rappresentano uno schizzo del corso storico di tutta l'umanità, dalle società più primitive all'odierno capitalismo.

Non meriterebbero d'essere commentate, in quanto le tesi ivi esposte sono già note agli studiosi del marxismo, se non fosse per una loro caratteristica di fondo: quella di considerare il marxismo come un dogma. Qui ovviamente si prescinde dalla produzione successiva di Mandel.

Ernest Mandel e, come lui, tutta la corrente del trotskismo contemporaneo, non è riuscito a far evolvere le tesi classiche del marxismo verso una maggiore scientificità, pur nella fondata preoccupazione di conservare il loro carattere politico rivoluzionario.

Gli epigoni dei classici del marxismo si sono spesso contraddistinti in questo singolare atteggiamento: quanto più volevano tener fermo al carattere scientifico e rivoluzionario del marxismo, tanto più lo trasformavano in un dogma asfittico rivolto a gruppi politici settari; quanto più invece volevano procedere a degli sviluppi teoretici allargando la base politica del consenso popolare, tanto più lo trasformavano in una corrente borghese, sia nella teoria che nella prassi.

Dunque cos'è che impedisce al marxismo di svilupparsi scientificamente in maniera progressiva, senza fargli perdere il lato politicamente rivoluzionario?

La soluzione a tale quesito è più facile a dirsi che a farsi: per non perdere il carattere rivoluzionario il marxismo ha bisogno di soggetti che s'impegnino attivamente nella politica e che lottino per fare uscire il sistema dalle secche del capitalismo.

Per non perdere il lato scientifico occorre proseguire la riflessione in maniera creativa (come p.es. fece Lenin nei confronti dei comunisti della II Internazionale e nei confronti dei marxisti legali e degli economisti del suo paese).

Vediamo questo secondo aspetto e vediamolo analizzando criticamente, seppure sommariamente, le pagine di Mandel dedicate alla "filosofia della storia".

Prima di farlo precisiamo però una cosa: se la tesi di Lenin secondo cui non ci può essere prassi rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria, è vera, allora non è sufficiente l'impegno militante in una formazione politica di sinistra, al fine di garantire al marxismo il valore politico rivoluzionario.

Occorre che la teoria che supporta tale prassi sia essa stessa rivoluzionaria; ma perché lo sia, è necessario che la si sviluppi in rapporto a mutate condizioni storiche.

Lo sviluppo della storia non può non condizionare l'evoluzione della teoria. Questo i riformisti e i revisionisti di tutti i tempi lo sanno bene. Quel che infatti occorre fare non è soltanto saper adeguare la teoria all'evoluzione dei tempi, ma anche quello di non farle perdere il carattere rivoluzionario.

Tenere insieme evoluzione della teoria e teoria rivoluzionaria è la cosa più difficile di questo mondo. Spesso, in questo compito, i nemici più irriducibili s'incontrano nello stesso campo dei sedicenti rivoluzionari. Ne sapeva qualcosa lo stesso Lenin.

* * *

E ora vediamo Mandel. Egli accetta senza riserve una delle tesi classiche del marxismo, quella secondo cui nel capitalismo si realizza la socializzazione della produzione (pur nella privatizzazione dei profitti), come mai prima era successo.

Quello che qui va messo in discussione sono proprio le parole in corsivo. Scrive Mandel: "Alla frammentazione della società patriarcale, schiavistica e feudale in migliaia di piccole cellule di produzione e di consumo indipendenti le une dalle altre, tra cui esistevano solo legami (in particolare legami di scambio) rudimentali, si sostituisce l'universalità delle relazioni umane. La divisione del lavoro si generalizza e si perfeziona, non solo in un paese ma su scala mondiale. Nessuno produce più soprattutto valori d'uso per il consumo proprio"(p. 284).

Qui sono molte le cose storicamente inesatte:

  1. anzitutto il sistema schiavistico non conosceva la produzione per l'autoconsumo (se non in maniera ridotta), perché praticava soprattutto quella per il mercato, tant'è che le città fruivano di un certo primato sulle campagne. Lo schiavo veniva acquistato perché producesse non per se stesso ma per il mercato: non aveva alcuna autonomia per produrre valori d'uso;
  2. la frammentazione della società patriarcale e feudale è un'invenzione dell'economia politica borghese, ereditata dal marxismo, al fine di giustificare la più grande produttività del capitalismo. L'economia agricola precapitalistica (se si esclude l'azienda padronale schiavistica del periodo romano) era gestita dalla comunità di villaggio o dal feudo. Poteva esserci frammentazione nel lavoro, ma vi era socializzazione di vita, in cui il lavoro era uno degli elementi portanti, ancorché non l'unico;
  3. la socializzazione realizzata dal capitalismo è di tipo "forzoso", in maniera analoga a quella che gli agrari romani operavano nei confronti dei loro schiavi. La differenza tra le due socializzazioni sta nel fatto che in quella schiavistica la dipendenza personale era assoluta e lo sviluppo della tecnologia minimo, mentre in quella capitalistica la dipendenza si basa sulla formale libertà dell'operaio, è contrattuale, ed è mediata da un forte sviluppo della tecnologia;

  4. non è la produzione del valore d'uso, ovvero la prevalenza dell'autoconsumo che indica un carattere "parcellizzato" della produzione. E' vero anzi il contrario, e cioè che il primato del valore d'uso sul valore di scambio può indicare - e in genere è così - una maggiore democratizzazione sociale all'interno dei rapporti comunitari. Non è la divisione del lavoro che in sé rende più "sociale" la produzione. Anzi, in genere, non è neppure il lavoro in sé che rende unita una comunità di villaggio. Il concetto di lavoro che abbiamo oggi è di derivazione borghese. Il lavoro produce ricchezza, benessere, carriera e a tale scopo il lavoratore sacrifica ogni cosa. Nelle comunità di villaggio sono prioritari anche valori sanciti dalla tradizione, dall'ideologia dominante e il lavoro è solo uno degli aspetti che acquista il suo significato all'interno di un contesto più vasto e complesso.
    Nel mondo borghese il lavoro produce valore, ma questo valore è meramente economico; viceversa nelle società preborghesi è il valore (etico, ontologico) che caratterizza il tipo di lavoro.

  5. La socializzazione di una comunità di vita è un valore intrinseco ad essa e non dipende da elementi esteriori, quali la sua estensione geografica. Non si è più "universali" quanto più i rapporti di scambio sono estesi nello spazio fisico. L'universalità è una dimensione che si può vivere anche nello spazio ristretto di una piccola comunità, in cui non vi sono rapporti di sfruttamento e dove l'umanizzazione di tali rapporti è una costante di vita, una preoccupazione dell'intero collettivo.

  6. E' singolare che un marxista accetti il concetto di "socializzazione" in riferimento alla produzione borghese, usandolo contro il presunto "individualismo" delle società patriarcali, quando poi è costretto ad affermare che tale "socializzazione" è vissuta dalla società borghese in maniera "inconscia", sulla base di "forze cieche", che sono poi quelle del mercato.
    In questa maniera è come se si volesse dire:
    a) nel momento in cui la borghesia voleva rompere l'individualismo ad essa precedente, era progressiva;
    b) nel momento successivo, in cui essa ha cercato di regolare la nuova socializzazione, essa è diventata regressiva.
    Quindi il marxismo cosa deve fare? E' semplice: conservare la rivoluzione industriale, che permette uno sviluppo "illimitato" delle forze produttive, puntando a socializzare la proprietà dei mezzi produttivi.

Mandel non mette in discussione la necessità di superare gli antagonismi sociali del feudalesimo in direzione dello sviluppo borghese dei rapporti economici. Non la metterebbe in discussione neppure nel caso in cui la borghesia avesse avuto a che fare non coi limiti del servaggio e della rendita feudale, ma con l'esistenza di una comunità primitiva libera, non feudale, priva di servi della gleba. Infatti tali comunità per lui sono non "primordiali" ma "primitive", completamente soggiogate dalle forze della natura.

Ma quest'ultimo aspetto merita una trattazione a parte. Marx ed Engels avevano conoscenze approssimative delle società antiche preschiavistiche, semplicemente a motivo dell'esiguità degli studi scientifici dell'epoca (che in pratica andavano da Bachofen a Morgan).

Mandel invece non può ignorare questi studi e i loro successivi approfondimenti, tant'è che è indotto a citare due pubblicazioni nella nota 1 di pag. 287.

Qual è la descrizione ch'egli fa dell'uomo primitivo? "Il produttore di una società primitiva non separa generalmente la propria attività produttiva, il "lavoro", dalle altre attività umane"(p. 286).

Bene, anche se si potrebbe discutere sul nesso "lavoro-attività produttiva", che è di tipo borghese, in quanto il concetto di "produttività" andrebbe scisso da quello di rendimento economico, cioè nel mondo preschiavistico non poteva essere oggetto di valutazione ragionieristica o statistica. Il "sociale" era di molto prevalente sull'"economico".

Ma andiamo avanti. "Certo -prosegue Mandel-, questo elevato grado di integrazione di tutta la sua esistenza esprime più la povertà della società e il carattere estremamente angusto dei suoi bisogni che uno sforzo cosciente verso lo sviluppo universale di tutte le possibilità umane".

Qui già non ci siamo. Questo è un classico modo di vedere il passato con gli occhi del presente. Un economista dovrebbe stare molto attento a usare il concetto di "povertà" in riferimento alle società primitive.

La "povertà" infatti è una condizione tipica delle società divise in classi antagonistiche. Per il comunismo primitivo bisognerebbe usare concetti come "bisogni essenziali", soddisfatti da "mezzi necessari alla sopravvivenza", usati in maniera collettiva per riprodursi, non tanto per accumulare.

Non ha senso considerare i "bisogni" degli uomini primitivi come "estremamente angusti", dopo averli paragonati a quelli odierni. Anche perché i bisogni sofisticati di oggi sono spesso possibili proprio grazie allo sfruttamento di moltissimi lavoratori, costretti ad avere, rispetto a una minoranza di cittadini, bisogni molto limitati.

Se poi questi bisogni limitati li mettiamo a confronto con quelli dei lavoratori sottoposti allo sfruttamento economico che l'occidente impone al terzo mondo, ci rendiamo conto che nell'epoca contemporanea i bisogni, per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, non sono meno angusti.

Ma il limite più grave dell'analisi di Mandel, quello che si pone all'origine di tutte queste errate interpretazioni storiche, deve ancora arrivare.

"La tirannia che [l'uomo primitivo] subisce - dice Mandel - è quella delle forze della natura: comporta una scarsa coscienza dell'ambiente naturale, la sottomissione degradante alla magia, uno sviluppo primitivo del pensiero... Quando l'ambiente naturale non è troppo ostile, il lavoro si combina con la gioia del corpo e dello spirito. Soddisfa contemporaneamente i bisogni fisici e i bisogni sociali, estetici e morali" (p. 287).

Si faccia quindi attenzione:

  1. da un lato Mandel ribadisce vecchie tesi borghesi e marxiste, secondo cui la natura è un nemico da combattere, e una sottomissione alla natura comporta inevitabilmente concezioni errate della stessa, l'incapacità di sfruttarla a fini produttivi... Come se oggi non esistessero forme magiche e primitive del pensiero, proprio in rapporto all'uso feticistico della scienza e della tecnica, sino all'uso demagogico della scheda elettorale per dimostrare l'esistenza della democrazia!

  2. Dall'altro Mandel non può soprassedere agli studi scientifici sul comunismo primitivo, per cui è costretto ad ammettere che allora esisteva una forte integrazione sociale e che addirittura, quando la natura era benigna, era possibile un certo progresso delle condizioni materiali e culturali di vita.

Ma ora si faccia attenzione alla conclusione del discorso. "Con l'accrescersi delle forze produttive, l'umanità si libera via via della tirannia delle forze della natura. Prende coscienza dell'ambiente naturale e impara a modificarlo per i propri scopi... Così si inizia la marcia trionfale della scienza e delle tecniche scientifiche che farà dell'uomo il padrone della natura e dell'universo"(p. 287).

Quindi Mandel giustifica non solo il passaggio dal feudalesimo al capitalismo, ma anche quello dal comunismo primitivo allo schiavismo. Infatti è stato proprio sotto lo schiavismo che è iniziato il primo grande saccheggio della natura, di cui oggi ci restano i grandi deserti sparsi sul pianeta.

Così il cerchio si chiude. Ora abbiamo capito perché Mandel non tiene in alcuna considerazione lo stile di vita del comunismo primitivo. Il motivo sta nel fatto che non tiene in alcuna considerazione il primato della natura sull'uomo.

La natura viene concepita soltanto come un oggetto da sfruttare per aiutare l'uomo a dominare la terra e persino l'universo. Non è l'uomo che appartiene alla natura ma il contrario.

Eppure Mandel sa bene che "via via che l'uomo si libera della tirannia delle forze della natura, subisce sempre più la tirannia di forze sociali cieche, la tirannia di altri uomini (schiavitù, servaggio) o la tirannia dei propri prodotti (piccola produzione mercantile e produzione capitalistica)"(pp. 287-288).

Ma tutto ciò gli appare "naturale"! Lo dice il determinismo evoluzionistico della sua filosofia della storia.

Mandel non si sogna neanche lontanamente di considerare l'affermazione di un primato assoluto dell'uomo sulla natura come il sintomo di una società già profondamente malata. L'alienazione per lui viene dopo, nel modo di utilizzare le risorse naturali. Gli uomini si mettono in competizione tra loro solo nel momento della distribuzione delle ricchezze. Non riesce a comprendere che la competizione tra uomo e natura è già un riflesso di quella tra uomo e uomo, di cui quella tra uomo e donna non è che una variante sul tema.

Ma il bello deve ancora venire. Mandel è un marxista e non può accontentarsi di dire che il processo storico procede in maniera deterministica. Egli deve mostrare che nei confronti dell'antagonismo sociale tra le classi vi è stata una certa opposizione cosciente. Di qui l'elenco di tante lotte di classe avvenute nei secoli.

Ad un certo punto però è costretto a chiedersi: "Come mai tutti questi movimenti hanno in realtà fallito nel tentativo di abolire l'ineguaglianza sociale, o perché, una volta vittoriosi, hanno a loro volta riprodotto condizioni sociali analoghe a quelle contro cui si erano rivoltati?"(p. 294).

Risposta: "Perché le condizioni materiali non erano affatto mature per l'abolizione dello sfruttamento e dell'ineguaglianza sociale".

Non aveva forse ragione Lenin quando considerava Trotski un "non bolscevico"? Se Lenin avesse dovuto far sua la tesi di Mandel, avrebbe forse potuto fare la rivoluzione nel paese capitalistico più arretrato d'Europa?

Il bello è che ora i trotskisti vengono a dire che il fallimento del socialismo reale è la riprova che Trotski aveva ragione! Che povertà di pensiero! Se in una condizione di arretratezza economica è venuto fuori il leninismo, a maggior ragione esso poteva continuare a sussistere in una condizione in cui l'arretratezza economica fosse stata affrontata con misure democratiche. Le condizioni materiali sono sempre mature per abolire lo sfruttamento. E' piuttosto la coscienza rivoluzionaria che può essere inadeguata al compito.

Le trasformazioni non avvengono da sole. Non c'è un momento in cui si possa dire: "Ecco i tempi sono maturi". Sono soltanto gli uomini, con la loro attività, che rendono maturi questi tempi.

Il trotskismo non può usare lo stalinismo come arma per sostenere che in Russia i tempi non erano maturi per fare la rivoluzione o che, una volta fatta, bisognava fare in modo che avvenisse anche nei paesi capitalistici avanzati, altrimenti il socialismo non si sarebbe mai potuto sviluppare.

Il trotskismo da un lato è determinista, poiché fa dipendere tutto dal livello o dal grado delle forze produttive; dall'altro invece è estremista, poiché vuole imporre la necessità di una rivoluzione permanente a prescindere dalla consapevolezza politica di chi deve materialmente farla.

Questi due aspetti si notano anche in questa frase di Mandel: "L'assenza di classi nella preistoria umana si spiega con il fatto che il prodotto sociale è grosso modo uguale al prodotto necessario"(p. 294).

Questo significa che non esistendo "eccedenze" non si poteva formare quella classe che le avrebbe accumulate. Sicché la vera storia inizia solo quando si forma un "surplus" da accaparrare e da far fruttare sempre più.

La borghesia capitalistica, in tal senso, è quella che storicamente vi è riuscita meglio. Di essa il proletariato deve conservare il macchinismo e l'organizzazione industriale della produzione, del cui "uso" peraltro è già "padrone", anche se non della "proprietà".

Cosa sarà dunque il socialismo senza classi prospettato da Mandel? Nient'altro che una variante dello stalinismo. Infatti, per garantire alla società lo stesso elevato livello di bisogni creato dalla borghesia, occorre di necessità, se non si vuole rimettere in discussione il primato dell'industria sull'agricoltura, della città sulla campagna, del valore di scambio su quello d'uso ecc., che la produzione economica venga realizzata nell'ambito di una grande coercizione extraeconomica, quella dello Stato.

A questo punto tra socialismo di stato e feudalesimo occidentale dove sta la differenza? Il partito comunista non era forse una chiesa, che alla religione aveva sostituito l'ateismo? Non esisteva forse una ferrea disciplina e una solida gerarchia? Non avevamo forse già visto queste cose nell'ambito della chiesa cattolica-romana in epoca feudale? Lo Stato, per il Pcus, non svolgeva forse un'attività equivalente a quella che la chiesa romana faceva svolgere all'imperatore e ai suoi subordinati, considerati come suo "braccio secolare"? Le "epurazioni" non erano forse una forma di "inquisizione"?

Certo, la chiesa romana non poteva beneficiare della rivoluzione industriale, ma è davvero così importante questa rivoluzione per realizzare il socialismo democratico?

Fonti

Commento al cap. 4 "Lo sviluppo del Capitale"
del Trattato marxista di economia di E. Mandel (vol. I)

Marx-Engels


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015