MARX: PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA 2

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA

I - II - III

Commento alla Prefazione

Premessa

Nel 1859 Marx, da un decennio residente a Londra con tutta la famiglia, era un uomo politicamente sconfitto.

Dopo i moti insurrezionali del ’48 egli era stato espulso dal Belgio e, dopo un breve periodo a Parigi (fino alla Rivoluzione di marzo), era tornato a Colonia, in Germania, doveva aveva ripreso la pubblicazione della Neue Rheinische Zeitung (dal 1° giugno 1848 al 19 maggio 1849). La vittoria della controrivoluzione ebbe come risultato l’istigazione di processi a suo carico (dai quali fu assolto il 9 febbraio 1849) e la sua espulsione dalla Germania (16 maggio 1849).

Tornato a Parigi, venne nuovamente espulso il 13 giugno 1849, sicché fu costretto a trasferirsi in Inghilterra, a Londra, dove visse tutto il resto della sua vita, approfondendo gli studi sull’economica politica classica inglese.

L'attività politica in senso stretto lo vide impegnato nella stesura dell'Indirizzo generale della I Internazionale dei lavoratori e nella dura battaglia contro gli anarchici, ma dopo la sconfitta della Comune di Parigi (1871) l'organizzazione si sciolse e Marx si limitò a partecipare, da lontano, alle lotte del partito tedesco, scrivendo nel 1875 la Critica del programma di Gotha, in occasione dell’unificazione avvenuta tra il Partito operaio socialdemocratico (i cosiddetti eisenachiani, diretti da W. Liebknecht e A. Bebel) e l’Associazione generale operaia tedesca, diretta dai seguaci di Lassalle.

Quando nel 1859 pubblicò, dopo 15 anni di studi, Per la critica dell'economia politica, avvertì l'esigenza di fare il punto della sua evoluzione intellettuale in una splendida Prefazione, che merita sicuramente un commento a parte.

L'insuccesso del proprio operato come "politico" viene da lui equiparato, in questa che è una sorta di autobiografia politico-esistenziale, alla sconfitta di un'intera classe di intellettuali (i tedeschi dell'emigrazione), incapace di organizzare il proletariato industriale (ma anche i ceti piccolo-borghesi) in direzione della rivoluzione antiprussiana e anticapitalistica. E quell'insuccesso, personale e collettivo, viene addirittura considerato, in una sorta di "proiezione storica", come un limite invalicabile posseduto da ogni formazione sociale che vorrebbe superarsi senza prima aver esaurito tutta la propria spinta propulsiva.

La Prefazione

In questa Prefazione vi sono alcuni aspetti che lasciano presagire un'involuzione di tipo meccanicistico nel pensiero di Marx, che lo accompagnerà tutta la vita, almeno sino a quando l'incontro coi populisti russi non lo indurrà, tardivamente purtroppo, a fare una revisione critica del proprio determinismo economicistico.

Gli aspetti critici sono sostanzialmente due:

  1. il rapporto unilaterale tra struttura e sovrastruttura,
  2. l'inevitabilità della rivoluzione sociale.

Vediamo il primo. "Rapporto unilaterale" sta a significare che nella visione deterministica di Marx, espressa in questa Prefazione e confermata sino alla stesura del Capitale, la struttura, che è anzitutto economico-produttiva, non solo "condiziona" la sovrastruttura politica, giuridica, ideologica ecc., ma addirittura la "determina". Cioè non c'è un rapporto "bilaterale", in cui il condizionamento sia "reciproco".

Engels dovrà poi rettificare questo postulato sostenendo che:

  1. la determinazione è valida solo in ultima istanza;
  2. l'uomo può soggettivamente porsi con la propria coscienza al di sopra di questo rapporto di dipendenza.

Cosa, quest'ultima, che in realtà aveva già detto Marx, seppure con altro intento, nella Prefazione alla prima edizione del Capitale: "lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, non può assolutamente fare il singolo responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente possa innalzarsi al disopra di essi".

Ma perché, nonostante questa precisazione, il determinismo rimane? Rimane per il semplice motivo che Marx, a partire dal 1850, prese a far coincidere l'"essere sociale" con l'"essere economico". L'uomo non è più, come p.es. era stato detto nelle Tesi su Feuerbach, "l'insieme dei rapporti sociali", ma diventa un elemento della produzione economica. I rapporti sociali sono anzitutto e soprattutto quelli "produttivi".

In questi rapporti il conflitto fondamentale resta quello di lavoro e capitale, ovvero quello di "forze produttive" e "rapporti produttivi".

A loro volta, le forze produttive sono determinate dall'applicazione della scienza e della tecnica all'economia. Marx in tutta la sua vita non ha mai messo in discussione lo sviluppo scientifico e tecnologico in generale, né quello applicato alla produzione industriale.

Anzi, è sempre stato convinto che proprio lo sviluppo progressivo della rivoluzione tecno-scientifica avrebbe non solo spazzato via gli ultimi residui del passato feudalesimo, ma avrebbe anche portato a far esplodere le contraddizioni antagonistiche tra capitale e lavoro, in quanto il capitale privato si sarebbe trovato ad un certo punto inadeguato di fronte alle crescenti esigenze del lavoro collettivo.

E qui veniamo al secondo punto. Il determinismo stabilito da Marx nel rapporto struttura/sovrastruttura si esplica nel rovescio della sua medaglia. La "rivoluzione sociale" è in sostanza il frutto di una "inevitabilità storica".

La contraddizione tra l'aumento della ricchezza per i pochi proprietari e l'aumento della miseria per i tanti lavoratori è, secondo Marx, un motivo sufficiente perché spontaneamente scoppi la rivoluzione. Lo spontaneismo in sede politica pare convergere in maniera biunivoca col determinismo in sede economica. Qui è la categoria hegeliana della "necessità", depurata del suo misticismo, a dominare nettamente.

Marx insomma era arrivato a sostenere che il capitalismo sarebbe stato superato dal socialismo solo dopo aver raggiunto il suo massimo sviluppo, in analogia a tutte le altre formazioni storico-sociali che l'avevano preceduto: asiatica, schiavistica e feudale.

Soltanto alla fine della sua vita, quando venne a contatto coi populisti, egli arrivò ad ammettere che in Russia la comune rurale (obscina) avrebbe sì potuto opporsi alla penetrazione del capitale, ma a condizione che in Europa occidentale il proletariato lottasse attivamente contro il proprio sfruttamento. Il che in sostanza significava ammettere, sub judice per così dire, la possibilità di una transizione dal feudalesimo al socialismo, saltando del tutto la fase capitalistica.

Il contributo di Lenin

Lenin partì da queste conclusioni e le svolse in maniera molto creativa. Quando scrisse, da giovane, il suo più importante manifesto programmatico, Che fare?, l'obiettivo che si pose fu proprio quello di togliere il lato meccanicistico al "marxismo legale", recuperando quello autenticamente rivoluzionario. A tale scopo affermò in maniera inequivoca che, senza organizzazione politico-partitica (tattico-strategica) del dissenso sociale, il proletariato industriale al massimo avrebbe lottato per delle rivendicazioni di tipo sindacale, senza mai comprendere adeguatamente il proprio ruolo storico.

In secondo luogo assunse nei confronti dei populisti un atteggiamento ambivalente: da un lato infatti egli sosteneva che lo sviluppo capitalistico in Russia era inevitabile, in quanto la comune rurale non aveva forze sufficienti per opporvisi; dall'altro era convinto che con l'appoggio dei contadini gli operai avrebbero potuto effettivamente saltare la fase del capitalismo, con o senza l'aiuto dell'occidente, a condizione però che si usasse, progressivamente, la stessa industrializzazione capitalistica sulla base dei rapporti socialisti di proprietà.

Inutile qui ricordare che la storia s'è incaricata di dimostrare non solo che senza partecipazione rivoluzionaria delle masse popolari all'edificazione del socialismo, questo o diventa una mera prosecuzione del capitalismo in altre forme e modi (dall'esperienza cinese a quella dell'Emilia-Romagna, dove l'idea di "socialismo" si riduce a una migliore "razionalizzazione" dell'esistente borghese); oppure tende ad assumere aspetti talmente autoritari da rendere impossibile qualsiasi rapporto tra democrazia e socialismo (stalinismo e maoismo).

La storia ha anche dimostrato che il primato produttivo concesso all'industria non è la strada migliore per realizzare una forma di socialismo democratico compatibile con le esigenze della natura, cioè ecosostenibile.

Prospettive di riflessione

Il rapporto struttura-sovrastruttura non è unilaterale ma bilaterale, basato su un reciproco condizionamento. Se l'essere sociale "determina" completamente la coscienza, è impossibile modificare un essere sociale antagonistico, visto che in questa condizione storico-esistenziale ogni essere umano viene "gettato", per dirla con Heidegger, sin dalla propria nascita, a prescindere da qualunque volontà personale.

In altre parole nulla può impedire che determinati rapporti conflittuali, basati su interessi contrapposti, possano essere sostituiti da altri diversamente antagonistici, il cui grado di intensità o di durata è soggetto a variazioni mutevoli.

Quindi la vera contraddizione non è tanto tra "forze" e "rapporti" produttivi, quanto piuttosto tra "esperienza di vita" e "istanza di liberazione". Gli antagonismi sociali (di cui il principale è quello tra capitale e lavoro) rientrano nell'esperienza della vita, cui si deve cercare di opporre, sulla base di una propria coscienza o istanza di liberazione, un progetto alternativo.

Nessuna persona autenticamente democratica potrebbe mettere in dubbio la tesi secondo cui il lavoro, sotto il capitalismo, si sviluppa all'interno di un rapporto strettamente legato alla proprietà privata di capitali e quindi alla logica del profitto e delle rendite parassitarie.

Tuttavia non si può sostenere con sicurezza che la crescente miseria da una parte, che coinvolge la maggioranza della popolazione, e la crescente ricchezza dall'altra, ristretta a una piccola minoranza, siano di per sé motivi sufficienti per far scoppiare le rivoluzioni e soprattutto per assicurare che tali rivoluzioni abbiano un buon esito.

Come non possiamo sapere quale sia il limite oltre il quale una determinata contraddizione risulti assolutamente insopportabile, così non possiamo sapere cosa faccia scattare in determinati individui la decisione d'impegnarsi attivamente per superare gli antagonismi sociali.

Qui vi è un mix di elementi sociali e culturali la cui natura, il cui intreccio inevitabilmente ci sfugge. Infatti, a parità di condizioni sociali (p.es. la miseria materiale), in alcuni soggetti si forma la coscienza rivoluzionaria, in altri invece l'opportunismo, col quale si spera di ottenere dei favori personali. L'essere umano è infinitamente più complicato dell'essere sociale che lo condiziona.

Il fatto stesso che Marx non avesse previsto che oltre il capitalismo poteva formarsi una sorta di socialismo amministrato e burocratico, in cui la "socializzazione" dei mezzi produttivi in realtà era una loro "statalizzazione" gestita da un unico partito di governo, è significativo dei limiti della sua analisi.

La sconfitta politica non solo lo portò ad accentuare il momento "economico" su quello "sociale", la "struttura" sulla "sovrastruttura", la "necessità" sulla "libertà", ma lo portò anche a dare della storia una visione troppo semplificata. La storia non è semplicemente una successione di formazioni sociali antagonistiche, di cui l'ultima, priva di classi contrapposte, sarà quella socialista.

Prendiamo p.es. lo schiavismo romano. Come noto, tale schiavismo è entrato in crisi quando non è stato più possibile espandere militarmente e quindi economicamente l'impero. Ciò tuttavia, di per sé, non è stato sufficiente per realizzare una transizione alla democrazia; anzi, alla crisi dello schiavismo si è reagito con l'anarchia sociale, cui ad un certo punto si è opposta una forte dittatura politico-militare.

Mancavano forse i presupposti materiali per realizzare un socialismo democratico? Nient'affatto. Semmai mancavano quelli culturali. Infatti il passaggio dallo schiavismo al servaggio non è avvenuto in forza di uno sviluppo delle forze produttive, ma, al contrario, in forza di una loro progressiva debolezza. Il servaggio non ha nulla dei traffici commerciali della formazione schiavistica, eppure si presenta come un'economia più democratica di quella schiavistica. E' dunque evidente che qui sono intervenuti fattori extraeconomici.

Questi fattori però non sono stati sufficienti per realizzare una transizione alla democrazia. Costantino p.es. capì che occorreva una svolta sul piano politico e culturale, però non fece nulla sul piano sociale e alla sua morte si riproposero i problemi di prima. I cosiddetti "barbari" non conoscevano lo schiavismo come sistema produttivo, e tuttavia non riuscirono a importare in occidente il loro "comunismo primitivo". E così via.

Questo per dire che per realizzare il socialismo occorrono fattori materiali e immateriali, sociali, politici e culturali, e tutti questi fattori, messi insieme, possono trovarsi in qualunque epoca storica, in qualunque formazione sociale. Si tratta soltanto di individuarli e di svilupparli. La storia, dalla nascita dello schiavismo ad oggi, è un susseguirsi di esperimenti rivoluzionari falliti, di cui dobbiamo prendere consapevolezza.

Non ha alcun senso sostenere che una formazione non può essere superata finché essa non ha esaurito tutte le proprie potenzialità, né che fino ad oggi il socialismo non ha potuto realizzarsi perché ne mancavano i presupposti materiali.

Poiché nessuno è in grado di stabilire quando una determinata formazione sociale ha esaurito la propria spinta propulsiva, non si può aspettare che oggi il capitale usi tutte le proprie strategie di sopravvivenza prima che il mondo del lavoro organizzi una resistenza capace di abbatterlo.

Semmai occorre fare il contrario, cercare di abbattere quanto prima i rapporti di proprietà privata, onde evitare ch'essi si consolidino, condizionando e anzi corrompendo in maniera irreparabile quanto ancora conserva la naturalezza dei rapporti umani e dei rapporti nei confronti dell'ambiente. Il vero problema sta nel saper organizzare la consapevolezza della necessità della transizione.

In tal senso l'oggettività da analizzare non può soltanto riguardare l'economia, ma anche e soprattutto - direbbe Lenin - la politica.

In ciò vi è qualcosa di paradossale. Nello sviluppo del marxismo occidentale l'aspetto oggettivo della rivoluzione è stato svolto nell'analisi economica, mentre quello soggettivo è rimasto individualistico, o nella forma dell'intellettualismo (politico, giornalistico, accademico...) o in quella dello spontaneismo (dal terrorismo alle rivendicazioni contingenti e fini a se stesse), con la conseguenza che l'analisi economica, specie dopo il crollo del "socialismo reale", non mette più in discussione il rapporto capitale/lavoro, sicché l'istanza rivoluzionaria s'è ridotta a semplice esigenza di piccole riforme.

Viceversa nello sviluppo del marxismo orientale (il leninismo) l'aspetto oggettivo s'è svolto nell'analisi politica che doveva portare alla rivoluzione, nell'analisi dei conflitti di classe, nell'organizzazione del consenso, nelle operazioni di tattica e di strategia ecc., cioè in una parola si è svolto proprio in una direzione tipicamente soggettiva e sovrastrutturale.

La politica, con l'esperienza bolscevica, è diventata oggettiva come l'economia, e in tale oggettività s'è dato particolare risalto alla partecipazione personale agli eventi, al senso di appartenenza a una classe, a un partito, a un movimento, a un collettivo, alla capacità di essere fedeli a un ideale, allo spirito di sacrificio per realizzarlo ecc. Il limite - come noto - di tale impostazione sta nel lato "giacobino" degli intellettuali, che ad un certo punto si sentono autorizzati a gestire in maniera autoritaria il potere acquisito, nella convinzione di avere la verità in tasca.

Affermando che la politica è una sintesi dell'economia e che il criterio della verità è la prassi, Lenin non avrebbe mai potuto aspettare che il capitalismo russo si sviluppasse sino al massimo, prima di poter dire ch'era necessaria una transizione al socialismo. Ecco perché egli non è mai stato prevalentemente un economista: quanto meno non ne avrebbe avuto il tempo.

Il fatto stesso che la Russia avesse già molti intellettuali "marxisti" prima ancora del pieno sviluppo capitalistico del paese, era la chiara dimostrazione che gli aspetti "soggettivi", quelli della consapevolezza delle contraddizioni, si sviluppano per conto loro o comunque in relativa autonomia rispetto ai processi storici. Lo stesso Marx aveva una consapevolezza enormemente superiore, a confronto degli economisti del suo tempo, circa gli antagonismi sociali e i limiti economici del capitalismo.

Proprio lo sviluppo teorico del marxismo russo veniva a negare la tesi fondamentale di Marx, e cioè che il socialismo si sarebbe potuto sviluppare solo dopo l'esaurimento della spinta propulsiva del capitalismo; e non a caso, vedendo il successo del suo Capitale in Russia, egli si mise ad apprendere la lingua di questo paese e a interagire con le forze populiste.

Introduzione

Cfr Commento a tutto il testo Per la critica dell'economia politica


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015