LA TEORIA DEL VALORE IN UNA LETTERA DI MARX A KUGELMANN

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


MARX A KUGELMANN: LA TEORIA DEL VALORE

La teoria del valore è alla base della spiegazione marxista del funzionamento del capitalismo. Marx la approfondisce soprattutto all’inizio del Capitale e nei lavori preparatori ad esso (Per la critica dell’economia politica, Grundrisse, ecc.) tutte opere ben note. Non molto noto è invece un contributo - sulla teoria del valore - che Marx diede in una lettera scritta a Kugelmann (11 luglio del 1868), suo amico medico in Germania[1].

Analizzeremo qui il brano tratto da quella lettera suddividendolo in paragrafi in modo da poterlo analizzare più in dettaglio.

l’analisi dei rapporti reali, data da me, conterrebbe la prova e la dimostrazione del reale rapporto di valore anche se nel mio libro non vi fosse nessun capitolo sul “valore”.

Questo dimostra che secondo lo stesso Marx non c’è bisogno del primo capitolo del Capitale per definire e comprendere la teoria del valore. Questo capitolo ha un ruolo introduttivo, metodologico, ma l’essenza del valore permea tutto il Capitale. Questo perché l’idea di spiegare il metodo di una scienza al di fuori del suo svolgimento è in qualche modo antidialettica e antimaterialista. Per questo Marx tolse da Per la critica dell’economia politica la famosa Introduzione del ’57 che, nelle sue parole, “disturbava”, in quanto sintetizzava risultati non ancora esposti. Il metodo scientifico, tolte alcune considerazioni di ordine generale sulla dialettica, non è altro che la generalizzazione del procedere stesso della scienza.

Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa.

Questo è un punto centrale. Innanzitutto Marx ribadisce che non c’è nemmeno bisogno di sottolineare l’importanza del lavoro nel processo produttivo, tanto è evidente che senza lavoro umano non c’è movimento dei mezzi di produzione e dunque non c’è produzione alcuna. Ma in secondo luogo Marx spiega che la valorizzazione del capitale non è un processo aggregativo, ma sociale. La classe operaia in quanto classe valorizza il capitale. I rapporti di produzione esistono a livello di classe, non di fabbrica. La funzione necessaria del lavoro come elemento di valorizzazione del capitale non deriva solo dalle ore non pagate, pure ovviamente necessarie, ma da tutte le ore lavorate. Senza lavoro, come detto, non c’è movimento dei mezzi di produzione, non c’è produzione, non c’è capitalismo. Questo ha implicazioni decisive anche sul modo con cui la classe operaia deve combattere il capitalismo: lo sciopero generale diviene l’aspetto decisivo del conflitto, incarnando la questione del potere. In quell’occasione viene posto di punto in bianco il problema dei problemi: quale classe comanda? Quale classe produce? Quale classe è davvero necessaria allo sviluppo storico?

E ogni bambino sa pure che la quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e qualitativamente definite, del lavoro sociale complessivo.

Una determinata composizione del prodotto sociale non è altro che una determinata divisione del lavoro. Il lavoro complessivo ha una composizione qualitativa, riflesso della composizione qualitativa dei bisogni sociali.

Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite, non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma solo può cambiare il suo modo di apparire, è self evident.

E la connessione tra composizione del prodotto sociale e lavoro vale in ogni società. Ciò implica che l’analisi della domanda o della distribuzione del reddito sono la stessa cosa e sono entrambe derivate dal processo di valorizzazione del capitale

Che la produzione sociale necessiti di una composizione qualitativa data dei mezzi di produzione e della forza lavoro è ovvio. Altrimenti non vi potrebbe essere divisione del lavoro o scambio di merci. In questo senso si tratta di una legge universale delle società umane. Ma questa legge ha una forma specifica diversa in ogni società. La legge del valore è una legge universale, che assume una forma storicamente definita, un modo di apparire diverso, nelle diverse epoche. Ecco il segreto della produzione in generale che “ci risparmia una ripetizione”, come dice Marx nell’Introduzione del ‘57. La produzione in generale non è altro che la legge del valore nelle sue diverse forme storiche.

Le leggi di natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti.

Trattandosi di una legge di natura, la legge del valore esiste da quando esiste la produzione sociale. Nel capitalismo essa si afferma in modo rovesciato, indiretto, attraverso lo scambio di prodotti individuali, frutto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Per aversi questo scambio, le merci devono possedere un valore di scambio. La legge del valore dunque muta la sua forma e si presenta sotto forma di circolazione di merci. Ma la circolazione di merci, in ultima analisi, non è che circolazione di qualità e quantità di ore lavorate. Attraverso le merci, in realtà, si scambia tempo. L’appropriazione privata dei risultati della produzione oscura alla vista del ricercatore superficiale ma non elimina la socialità della produzione medesima. Produzione sociale, appropriazione privata, ecco il segreto della contraddizione della società capitalistica.

La scienza consiste appunto in questo: svolgere come la legge del valore si impone. Se dunque si volessero “spiegare” a priori tutti i fenomeni apparentemente contrastanti con la legge, bisognerebbe dare la scienza prima della scienza…

La teoria economica ha questo come suo principale oggetto di analisi: studiare lo sviluppo della legge del valore. Sotto il profilo del metodo non è possibile partire dalle eccezioni, ma dalla legge generale. Una volta che questa è posta (il primo libro del Capitale), si possono spiegare i fenomeni storici che sembrano apparentemente contrastarla (la concorrenza, i prezzi, la rendita). Rovesciare questo modo di esposizione significa porre le conclusioni al posto delle premesse, iniziare dalla fine. Qui Marx tocca un aspetto di metodo: sotto il profilo metodologico occorre partire dal funzionamento astratto della legge (la “produzione in generale”, la teoria del valore) e poi scendere nelle sue determinazioni storiche concrete (la concorrenza, la rendita, ecc.). Partire invece da questi fenomeni specifici significa rovesciare la comprensione del reale. Si tratta di una falsa e superficiale concretezza, che non conduce alla scoperta del nocciolo del problema.

Il senso della società borghese consiste appunto in questo, che a priori non ha luogo nessun cosciente disciplinamento sociale della produzione. Ciò che è razionale è necessario per la sua stessa natura, si impone soltanto come una media che agisce ciecamente.

La legge del valore nel capitalismo si manifesta ciecamente, a posteriori, alle spalle dei produttori. Non c’è nessuna divisione del lavoro ex ante, cosciente. La legge si impone ai produttori come una legge di natura. Questo imporsi cieco si riflette nell’ideologia dominante dove, appunto, ciò che esiste viene presentato come razionale e necessario. La legge del valore imponendosi ciecamente crea una natura umana dell’imposizione cieca, un’ideologia sociale dell’imposizione cieca, del dominio di forze sconosciute sul volere dell’uomo. La legge del valore rappresenta la religione naturale del capitalismo, la sua essenza ideologica. Come gli antichi Greci erano preda dei capricci degli dei dell’Olimpo, come gli antichi Egizi erano schiavi dei flussi e riflussi del dio Nilo, gli uomini moderni sono schiavi della legge del valore, la divinità più sanguinaria della storia, cui sono dedicati templi (che chiamano banche), altari (che chiamano crisi) e sacerdoti (che chiamano economisti).

E poi l’economista volgare crede di fare una grande scoperta se, di fronte alla rivelazione del nesso interno, insiste sul fatto che le cose nel loro apparire hanno un altro aspetto. Infatti egli è fiero di attenersi all’apparenza e di considerarla definitiva. A che serve allora una scienza?

Che cosa rimane allora alla scienza borghese? Impigliata nelle apparenze, rinuncia a spiegare la radice dei processi sociali e rimane alla superficie, alla contraddizione. La legge del valore non si pone come oggetto immediato della conoscenza. Così la ignorano e si accontentano dei prezzi, della domanda e dell’offerta, dell’utilità. Dell’operare cieco della legge prendono solo la cecità stessa, l’impossibilità di fornirne una spiegazione razionale se non addentrandosi oltre il suo apparire fenomenico.

Ma qui la faccenda ha ancora un altro sfondo. Assieme alla introspezione nel nesso crolla, di fronte alla rovina pratica, ogni fede teorica nella necessità permanente delle condizioni esistenti. Qui vi è dunque l’assoluto interesse delle classi dominanti di perpetuare la spensierata confusione.

La confusione di metodo e di sostanza degli economisti non è solo un problema di reificazione scientifica, che conduce i sacerdoti del capitale a rimanere istintivamente impigliati nella superficie dei fenomeni. È anche un problema politico. Scoprire il funzionamento della legge del valore al di sotto della superficie della società borghese significa scoprire il segreto dell’evoluzione storica e dunque anche della caducità, della contingenza di questa società. Una cosa inaccettabile per la borghesia. Che dunque preferisce mantenere la confusione in cui vivono i suoi rappresentanti scientifici. Perisca la scienza ma sia salvo il profitto!

Come si vede Marx affronta in questo breve brano gli aspetti salienti della teoria del valore. Occorre sottolineare, contro ogni deformazione della concezione marxista dell’economia, che le analisi e le prospettive politiche dei marxisti sono strettamente connesse all’analisi della legge del valore. Come l’esempio del rapporto tra lavoro e valorizzazione del capitale mostra acutamente, la politica dei marxisti è in ultima analisi dettata dalle contraddizioni del funzionamento del capitalismo sintetizzate dalla legge del valore. Non a caso per attaccare il marxismo i suoi nemici scientifici e sociali sono sempre partiti dalla teoria del valore. Una volta accettata la teoria del valore, il resto, dalla teoria delle crisi alla necessità della rivoluzione socialista, viene da sé, quasi per svolgimento logico dell’analisi del valore.

[1] L’importanza del carteggio con Kugelmann è testimoniata dal fatto che Lenin ne fece preparare una ristampa di cui volle scrivere l’introduzione. Peraltro, come spesso è accaduto, la socialdemocrazia tedesca, dominata dai riformisti, aveva cercato di far emergere in modo distorto il pensiero dei fondatori del marxismo, alterandone gli scritti all’atto della pubblicazione. In questo caso Kautsky aveva omesso 13 lettere su 59, tagliandone molte altre.

Che Marx stesso ritenesse importante il carteggio lo dimostra il fatto che nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale spiega la peculiare esposizione della forma di valore contenuta nel I capitolo proprio con l’intervento del suo amico: “osservo di passaggio che quella duplice esposizione era dovuta al mio amico L. Kugelmann di Hannover”.

MARX E LA TEORIA DEL VALORE
LA TEORIA DEL VALORE DEL XXI SECOLO

Csepel - Xepel

La legge del valore - Note in margine


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015