MARX e La legge del valore 2

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


LA LEGGE DEL VALORE - NOTE IN MARGINE

Secondo Marx i prezzi delle merci sono in contraddizione col loro valore appunto perché si tratta di merci capitalistiche, soggette al tipico antagonismo di capitale e lavoro. La deviazione dei prezzi delle merci dal loro effettivo valore è considerata naturale o legittima dal punto di vista del capitale, ma questa deviazione viene pagata molto cara da chi non possiede mezzi di produzione: non solo perché, in ultima istanza, risulta impossibile un controllo sui prezzi, ma anche perché la stessa forza-lavoro (che è merce al pari di altre) viene venduta a un prezzo molto più basso del valore che poi produce.

Alla tesi borghese secondo cui nessuna merce capitalistica ha un vero valore che non sia il suo prezzo e che la deviazione di tale prezzo dall'effettivo valore di una merce è parte costitutiva del gioco della domanda e dell'offerta, Marx rispose cercando di dare un fondamento scientifico alla teoria del valore e pensò di averlo trovato nel concetto di tempo socialmente necessario: valore e prezzo possono coincidere dal punto di vista del valore se esiste un collettivo che sappia attribuire un tempo socialmente necessario alla produzione di una determinata merce (è il cosiddetto lavoro astratto).

E' noto che la teoria marxiana del valore ha bisogno di una rivoluzione politica per realizzarsi: una rivoluzione che sostituisca lo spontaneismo anarchico dell'economia capitalistica con una programmazione razionale della produzione collettivizzata.

Oggi questa soluzione (leninista), dopo il fallimento del socialismo reale, non è più ritenuta sufficiente. Tuttavia, il fatto di non aver cercato delle alternative praticabili al leninismo (se si esclude la parentesi della perestrojka) ha portato a questa situazione paradossale: tutte le teorie d'ispirazione socialista sembra abbiano la funzione di porsi come mero correttivo agli eccessi del capitale.

Quanto a questa strumentalizzazione delle teorie socialiste abbia contribuito lo stesso Marx è documentato dal fatto ch'egli era convinto della possibilità di una conduzione "normale" della concorrenza in cui domanda e offerta coincidono: il socialismo altro non avrebbe dovuto fare che garantire detta "coincidenza", del tutto impossibile nel sistema capitalistico.

Come noto, gli economisti borghesi si sono serviti di queste tesi per istituire il cosiddetto "Welfare State", col quale si voleva porre un argine agli abusi del "laissez faire" (che portarono alle due guerre mondiali). Lo Stato assistenziale si pone come una sorta di socialismo filantropico per quelle categorie di cittadini che non riescono a sopportare gli antagonismi sociali e che per questa ragione potrebbero trasformarsi in un fattore destabilizzante per l'economia. Tuttavia il capitale tenta continuamente di smantellare le forme di assistenzialismo ch'esso stesso si è dato dietro la pressione popolare. L'altra soluzione del capitale è di regola il ricorso a conflitti bellici contro paesi terzi.

Spesso Marx ha dato l'impressione di avere come punto di riferimento una sorta di capitalismo teorico o primordiale, antecedente alla rivoluzione industriale del XVIII sec. Un capitalismo che nei confronti del feudalesimo aveva tutte le ragioni per imporsi e che però, per svilupparsi in maniera adeguata, avrebbe avuto bisogno di correttivi in senso sociale.

La sua stessa teoria del valore, se si prescinde dalle esigenze di una rivoluzione politica, sembra trovare un qualche riscontro in quel periodo storico di transizione dal feudalesimo al capitalismo in cui effettivamente il borghese cercava di dare al proprio lavoro un valore superiore a quello che nel feudalesimo si stabiliva sulla base della rendita fondiaria. La legge di Marx sembra necessitare, per la sua attuazione, di una sorta di onestà di fondo da parte del produttore. E' come se presupponesse uno stile di vita pre-capitalistico (in cui dominava il valore d'uso!) in condizioni sociali capitalistiche.

Marx in sostanza voleva far capire agli economisti borghesi che se non fosse stato possibile stabilire una legge del valore, il capitalismo si sarebbe autodistrutto, in quanto nessuna società può reggersi sulle fondamenta del più assoluto arbitrio, e che se quella possibilità si fosse realizzata, il capitalismo si sarebbe trasformato in socialismo.

Marx aveva tutte le ragioni nel criticare gli economisti borghesi quando sosteneva che se il valore di una merce è determinato, in ultima istanza, solo dal suo prezzo, al punto che solo il prezzo è indice del suo effettivo valore, allora tutto è affidato al caso, poiché in una società fondata sul mero profitto i prezzi sono quanto di più volatile esista. E il mercato, in tal senso, non ha la forza sufficiente per regolare la vita sociale: se così appare nelle società capitalistiche è perché oltre al mercato interno esse possono avvalersi delle migliori condizioni per sfruttare i mercati esteri delle colonie.

Tuttavia Marx non è andato oltre questa critica e i suoi epigoni non hanno contribuito a svilupparla in profondità.

Noi sappiamo che un bene di consumo deve essere preso in esame sotto un duplice aspetto: come bene materiale (costi di produzione, tempo di lavoro occorso, prezzo di mercato ecc.) e come bene culturale (valori personali e collettivi, tradizioni di usi e costumi ecc.).

Un bene può avere un grande valore materiale e non per questo suscitare da parte di chi lo possiede sentimenti di natura privatistica, appunto perché vanno considerati anche i valori culturali.

I beni di consumo, le merci, gli oggetti in generale, hanno un loro determinato valore materiale, ma l'uomo deve sempre assicurarsi di possedere la facoltà di attribuire a quelle stesse cose un valore diverso, connesso a condizioni o situazioni immateriali dell'esistenza. L'uomo deve poter essere libero di usare le cose a prescindere dal loro valore materiale.

In un lager un pezzo di pane può avere un grandissimo valore, ma non ne ha nessuno (dal punto di vista materiale) per la persona che lo regala per il bene di un'altra persona.

I valori spirituali - se sono puri, spontanei, genuini - sono infinitamente superiori a quelli materiali, ed essi non possono essere misurati né sulla base dei costi produttivi, né sulla base del tempo lavorativo.

Un valore spirituale (p.es. amicizia, affetto, riconoscenza...) può rendere preziosa una cosa apparentemente insignificante, poiché le imprime un carattere simbolico, e, viceversa, può rendere superflua, inutile, una cosa che sul mercato può avere un grande valore commerciale.

Una cosa ha valore per l'uso che se ne fa, ma, oltre a questo, essa ha il valore che l'uomo, in quel momento, le attribuisce. Se le cose hanno un valore che non dipende dalla volontà degli utilizzatori, questi sono inevitabilmente schiavi delle merci.

Se un uomo non sa apprezzare il valore simbolico di un oggetto, allora egli è schiavo della mentalità che attribuisce alle cose solo un valore materiale. Persino il capitale fa di tutto per creare valori simbolici (tramite la pubblicità, le mode, i capi firmati ecc.) con cui realizzare maggiori profitti.

Spesso a cose insignificanti si attribuiscono grandi valori simbolici, proprio per il fine immateriale che a loro attribuiamo.

Domanda: Marx avrebbe accettato l'idea che il prezzo di un bene di consumo potesse essere determinato da fattori extra-economici, e potesse quindi anche essere inferiore al suo effettivo valore? Si badi, qui non stiamo pensando ai fattori coercitivi del socialismo di stato, dove i prezzi e le tariffe erano tenuti volutamente bassi per favorire il bene comune: cosa che Marx forse non avrebbe condiviso.

Affinché il valore immateriale di un bene sia riconosciuto da una collettività, occorre la presenza di una storia comunitaria, di tradizioni condivise, consolidatesi nel tempo. Un valore è davvero spirituale non quando viene deciso dal singolo, ma quando è riconosciuto da una collettività. Ed è solo in presenza di questa collettività, fondata sui valori culturali, che si può attribuire alle cose il loro vero valore materiale.

Ecco perché non ha senso sostenere che nel capitalismo la misura del valore di una merce è data dal tempo di lavoro socialmente necessario. Il lavoro astratto presume che la vita collettiva (l'unica in grado di decidere il tempo socialmente necessario) sia gestita dalla collettività stessa e non da pochi individui proprietari dei mezzi produttivi, che alla fine del processo decidono i prezzi che vogliono. Un capitalista cercherà sempre e in ogni caso di ottenere il massimo investendo il minimo, anche a costo di minare la salute o la sicurezza del lavoratore e dell'ambiente in cui vive.

Se la collettività credesse in un tempo di lavoro "oggettivo", perché appunto "socialmente necessario", ogni abuso privato che violasse questo principio verrebbe punito. Un singolo non può violare una legge (scritta o non scritta) contro gli interessi della collettività.

Se si vuole, il capitalismo è nato proprio nel momento in cui la comunità non era più in grado di tutelarsi da chi aveva messo in discussione la possibilità di stabilire un tempo di lavoro socialmente necessario, cioè da chi, in sostanza, si era preso la libertà di decidere, per la produzione di determinati beni, un tempo diverso, usando mezzi diversi.

Ecco perché il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere senza una contestuale rivoluzione culturale e un'altra di tipo tecnico-scientifico. Se si unisce la proprietà privata dei mezzi produttivi con la rivoluzione tecnologica ci si accorge facilmente che il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre un determinato bene di consumo varia di continuo, anche contro gli interessi dello stesso capitalista. Infatti, è la legge della concorrenza che impedisce al capitalismo di "avere pace", cioè di poter fare affidamento su leggi oggettive "positive".

Una volta innestato il meccanismo individualistico della concorrenza, ogni stabilità è perduta. E anche quando s'instaura il regime di monopolio, la concorrenza non è mai completamente abolita, poiché, essendosi il mercato esteso a livello mondiale, è molto facile che si formino nuovi concorrenti in aree geografiche insospettate.

La concorrenza permane tra monopoli di rami diversi, all'interno di uno stesso paese, perché l'uno teme che l'altro possa estendere il proprio monopolio in nuovi settori; permane altresì tra monopoli di rami analoghi, presenti in paesi diversi, perché una nazione cercherà sempre, favorendo i propri monopoli, d'indebolire la nazione concorrente; la concorrenza inoltre si crea quando paesi non tradizionalmente capitalisti, decidono - con costi spaventosi - di diventarlo, come sempre più spesso succede nell'area del Terzo mondo.

Ogniqualvolta un paese del Terzo mondo recide il cordone ombelicale che lo lega all'occidente, e comincia a pretendere una certa autonomia politica ed economica, la concorrenza tanto temuta dai monopoli occidentali costringe a fare assegnamento su tutte le risorse finanziarie e tecnologiche disponibili per poterla fronteggiare (prima di ricorrere ai mezzi estremi di tipo bellico).

Insomma furono i troppi pregiudizi nei confronti del mondo rurale che impedirono a Marx di considerare il fatto che là dove domina il principio del valore d'uso e là dove un bene è riconosciuto dalla collettività come assolutamente fondamentale per la propria sopravvivenza, il suo prezzo non può essere determinato né dalla volontà del produttore, né dalla contrattazione che si verifica sul mercato.

Qui devono entrare in gioco fattori extra-economici di tipo naturale, come p.es. una tradizione consolidata nell'uso di quel bene; il valore che una determinata collettività attribuisce per tradizione a quel particolare bene comune; la volontà politica del governo in carica di tutelare i cittadini dalle possibili forme di speculazione su di esso, ecc. Il socialismo reale è fallito anche perché non è andato a cercare tali fattori nel mondo rurale, ma ha cercato di imporne altri in maniera artificiale, desumendoli dall'organizzazione industriale tipica del capitalismo.

Quando domina il valore d'uso, l'economia è sempre tenuta sotto controllo dalla politica. Una concorrenza "pura", "onesta", che prescinda dalla politica, non è mai esistita. E quando la politica esiste, tale concorrenza non è mai possibile o comunque è molto difficile su quei beni di largo consumo, che assicurano la sopravvivenza di una determinata popolazione. In una società pre-capitalistica il valore economico delle cose è sempre influenzato (e, in un certo senso, tenuto sotto controllo) dal valore culturale che una determinata collettività assegna, per tradizione, alle cose.

Certo, ci può essere concorrenza anche quando il produttore abbassa volontariamente il prezzo di una merce oltre il suo valore abituale, onde acquisire una maggiore clientela e possibilmente rovinare altri concorrenti. Ma se domina il valore d'uso, questa tattica non ha ragione di esistere, poiché essa presuppone già il primato del valore di scambio (e infatti per molti secoli non è mai esistita nel Medioevo).

Nessuno volontariamente produce in perdita; se e quando lo fa, è perché sa che altri stanno facendo per lui (cioè per il suo bisogno di sopravvivenza) esattamente la stessa cosa - ma questo implica, ancora una volta, il primato del valore d'uso.

Dunque il prezzo può essere inferiore al valore di una merce di uso comune quando il produttore sa che la sua sopravvivenza non dipende dalla vendita di quella merce, ma dalla volontà dell'intero collettivo. Ecco perché il socialismo scientifico deve studiare molto di più i criteri produttivi del sistemi pre-capitalistici.

Oggi le contraddizioni del capitalismo sono diventate così stridenti e complesse che se si volesse vendere un prodotto al suo valore, sarebbe meglio scambiarlo con un altro ritenuto di valore equivalente (non a caso il baratto è durato per migliaia di anni). Questo perché nessuno, neppure il capitalista, è in grado di stabilire il vero valore di una merce né quindi la corrispondenza tra valore e prezzo, e anche se fosse in grado di farlo la sua tentazione principale sarebbe quella d'imporre un prezzo di monopolio.

Cioè se si vuole sostenere -come fanno gli economisti borghesi- che il valore delle merci non può essere determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle, allora bisognerebbe eliminare lo scambio delle merci sulla base di un prezzo monetario. Lo scambio dovrebbe avvenire unicamente sulla base dell'uso e in una forma non molto diversa da quella dello scambio in natura. Questo sarebbe l'unico modo per ridare una qualche oggettività all'azione economica.

Non ha senso sostenere che, poiché nel capitalismo una merce non coincide quasi mai col suo valore effettivo, la teoria del valore di Marx non ha nulla di scientifico. Se non può esistere, in generale, una teoria scientifica del valore, allora nel capitalismo le uniche leggi oggettive sono di natura "negativa": la sovrapproduzione, la concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani di pochi monopolisti, la crescente disoccupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto, il continuo sfruttamento delle colonie, il crescente primato degli aspetti finanziari su quelli produttivi, la tendenza a militarizzare l'economia, l'autoritarismo sempre più forte degli Stati ecc.

Invece di fare l'apologia di un sistema irrazionale, che pur basandosi sul primato dell'economia, non riesce neppure a far coincidere prezzo con valore, bisognerebbe arrivare a dire che la legge marxiana del valore può trovare la sua piena attuazione solo in una società dove i contraenti sono effettivamente liberi e quindi entrambi in grado di decidere se un prezzo è congruo al valore delle cose.

Questa libertà contrattuale, nel capitalismo, non è mai esistita. Infatti, se c'è una cosa che il capitalista, sul piano pratico, non sopporta è proprio l'equivalenza tra domanda e offerta (che invece viene sbandierata come un dogma sul piano teorico). Egli in realtà vuole che la domanda resti sempre più alta dell'offerta, al fine di poter realizzare il massimo profitto. E questo nonostante che, proprio a causa della contraddizione tra capitale e lavoro, egli ottenga esattamente il contrario, e cioè di produrre più di quanto possa vendere.

Proprio a causa della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi della concorrenza, normalmente si ha che l'offerta superi la domanda e che quindi si finisca, periodicamente, nelle cosiddette crisi di sovrapproduzione, che i lavoratori, di regola, pagano col licenziamento.

Il sogno del capitalista è sempre quello di poter mettere alle proprie merci un prezzo di molto superiore al loro effettivo valore; il suo incubo è quello di vedere come, proprio a causa dello sfruttamento perpetrato ai danni dei lavoratori, questi non sono in grado di acquistare le merci (da essi stessi prodotte) al prezzo che il capitalista impone.

Ecco perché diciamo che quando si parla di "vendita" si presuppone, di per sé, l'uso del denaro e quindi la possibilità di un guadagno che vada al di là del valore effettivo di una merce. Chi "vende" non lo fa solo per ottenere, attraverso il denaro, dei beni che non riesce a produrre (o che non trova conveniente produrre), ma lo fa anche per realizzare un guadagno.

Normalmente tale guadagno viene concepito come garanzia di sicurezza per la propria vita. L'uso del denaro, infatti, è tipico dei regimi antagonistici. Laddove è stata distrutta la comune proprietà dei mezzi produttivi, esiste sempre l'esigenza di sostituire una sicurezza venuta meno: quella offerta dalla comunità, con una nuova sicurezza: quella offerta dal denaro. Per ottenere il quale ogni mezzo viene considerato più o meno lecito: tant'è vero che in forza di tale accumulazione si giustifica lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

Ora, come si può parlare di "giustizia" quando i prodotti che si vendono (proprio perché si vendono) sono la conseguenza di uno sfruttamento?

Perché ci fosse veramente uno scambio di equivalenti occorrerebbe anzitutto abolire la vendita qua talis o comunque la sua necessità: in tal caso tutta la valutazione del valore verrebbe affidata alle parti in causa dello scambio, sulla base di esigenze comuni e condivise, appartenenti a collettività differenti.

Quando i conquistadores scambiavano perline e specchietti contro l'oro degli indios, i contraenti erano entrambi soddisfatti della transazione avvenuta, anche se i primi avevano cercato d'ingannare i secondi. Evidentemente per gli indios l'oro non aveva altro valore che quello che si può attribuire a un ornamento estetico (è infatti un prodotto durevole e praticamente incorruttibile). Importante era la libera scelta della contrattazione, che, come noto, durò allora assai poco.

Ora, perché si possa realizzare e conservare nel tempo tale libera scelta, occorre che le parti in causa restino prevalentemente autonome. E' ovvio: se c'è bisogno di contrattazione commerciale, l'autonomia è relativa, poiché una comunità può aver bisogno dell'altra, almeno per determinati prodotti.

L'importante è che una comunità non debba dipendere da un'altra per le sue esigenze vitali (come il mangiare, il bere, il dormire, il vestirsi, il riprodursi...). Non si possono sottoporre a contrattazione beni di uso quotidiano, la cui mancanza, anche temporanea, metterebbe in pericolo la sussistenza di una comunità.

Certo, il sale e le spezie, nel Medioevo, erano di uso quotidiano, anche se venivano comprati sul mercato, ma una comunità non minacciava di scomparire se venivano meno quei due condimenti. Almeno non tanto quanto avveniva nel caso in cui la si privava della terra da coltivare per trasformarla in pascolo o in monocolture per il mercato.

In realtà il socialismo scientifico deve tornare a riflettere sul concetto di valore d'uso, che in sostanza significa "autoconsumo" e quindi indipendenza dalle fluttuazioni del mercato, dalle speculazioni dei produttori privati, dalle deviazioni verso l'alto dei prezzi delle merci, rispetto al loro effettivo valore, ecc. Il commercio per il (o sul) mercato deve ridiventare un aspetto secondario dell'attività economica di un collettivo.

Avendo sempre fatto coincidere "valore di scambio" con "forma sociale" del rapporto produttivo, il marxismo non è mai riuscito a vedere nel "valore d'uso" altro che un mero "contenuto materiale", cioè l'espressione di un interesse contingente o specifico.  Per Marx il valore d'uso, in sé, esprimeva qualcosa di rozzo, di arretrato, persino di individualistico, perché così gli appariva la vita rurale. Viceversa, il valore di scambio gli appariva come qualcosa di evoluto, progressivo, addirittura di "socializzante".

Il marxismo non ha mai visto il valore d'uso come espressione economica di un valore culturale (etico metafisico ontologico) molto più grande. E così è caduto nell'ingenuità di pensare che si potesse salvaguardare il migliore capitalismo (p.es. il primato dell'industria sull'agricoltura o della città sulla campagna), senza lo sfruttamento dei lavoratori.

Oggi invece bisogna affermare, nello stesso tempo, che non ci potrà essere la fine dello sfruttamento del lavoro senza la fine del capitalismo e che questo non implica soltanto (come nel leninismo) la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi, ma anche la fine del primato dell'industria sull'agricoltura, della città sulla campagna, del lavoro intellettuale su quello manuale, del valore di scambio su quello d'uso, dell'uomo sulla natura, del maschio sulla femmina e così via.

Già il semplice fatto che sotto il capitalismo si "deve" produrre per il mercato, nel senso che non si è liberi di voler fare qualcosa che non sia un obbligo per le esigenze del mercato, cioè il semplice fatto di dover produrre anzitutto per il mercato e non per se stessi o per il collettivo cui si appartiene, è indice sicuro di un'alienazione sociale. L'alienazione sta proprio nel fatto che si finisce col produrre cose la cui quantità e qualità, il cui valore e prezzo vengono decisi altrove, da terze parti.

E' giusto produrre cose per un uso collettivo, è giusto considerare di valore cose che hanno soprattutto una finalità del genere, ma tra il collettivo e l'individuo vi dev'essere un'intesa stretta, in modo che ognuno possa dire la sua sul prodotto che vende o che compra.

La sicurezza di ogni singolo individuo può dipendere solo dalla comunità di appartenenza, e in questa comunità egli deve poter produrre ciò di cui ha bisogno, oppure deve poter acquistare agevolmente ciò che gli permette di sopravvivere, offrendo, nella misura in cui gli è possibile, qualcosa in cambio.

La sicurezza non può essere garantita dal mercato, che è sempre molto fluttuante nei prezzi, nella disponibilità delle merci, nel valore effettivo delle cose... Inoltre quando esistono dei monopoli produttivi, la libertà del mercato è praticamente vanificata. Oggi molto più di ieri. La trasformazione dei prezzi di produzione in prezzi di monopolio è un dato di fatto incontrovertibile e irreversibile.

Il mercato non solo è per sua natura instabile, ma in presenza dei monopoli diventa persino pericoloso, perché manda facilmente in rovina i piccoli produttori, obbliga a scelte indesiderate, fa pagare queste scelte a milioni di persone...

Poter consumare ciò che si produce è una forma di sicurezza che mai nessun mercato potrà dare. Ancora più grande è la soddisfazione di sapere che la comunità si preoccuperà di soddisfare i nostri bisogni anche nei momenti di maggiore difficoltà personale.

Quando esiste autoconsumo si sopportano meglio le possibili ingiustizie che avvengono nello scambio dei prodotti. La garanzia di sopravvivenza all'interno di un collettivo permette di attutire meglio gli inevitabili abusi generati dallo scambio.

Il problema quindi non è semplicemente quello di eliminare il primato del valore di scambio o l'uso della moneta o di ridurre gli scambi favorendo l'autoconsumo: è quello piuttosto di come ricostruire un collettivo i cui i singoli produttori e consumatori capiscano che il perseguimento dei loro interessi personali non è in contraddizione con quelli dell'intero collettivo.

Si tratta quindi di tornare al Medioevo, senza servaggio né clericalismo. Questo obiettivo è alla portata dell'Europa occidentale? o degli Stati Uniti? o del Giappone? Non è forse passato troppo tempo perché i lavoratori possano recuperare la memoria del valore d'uso?

Per poter riaffermare il primato del valore d'uso su quello di scambio, il primato del lavoro sul mercato, del valore sul prezzo, ecc. occorre che tutti gli uomini ripensino il modello generale della loro società, il significato stesso della parola "sviluppo".

Marx, partendo nel Capitale dal concetto di "merce", ha voluto far capire che il primato concesso dal capitale al valore di scambio si opponeva agli interessi del lavoratore soltanto perché questi era un salariato al servizio del capitalista, e non anche perché un qualunque primato concesso al valore di scambio, ai danni del valore d'uso, porta il lavoratore a non essere mai libero.

In tal senso dobbiamo francamente dire di non credere che "la prima legge economica" risieda nella tendenza insita nell'impiego del lavoro umano di "risparmiare il tempo" al fine di produrre determinati beni. E' vero che le innovazioni che alleviano il lavoro riducono il tempo di lavoro per unità di prodotto e in tal modo ne elevano la produttività. Ma questa non è una tendenza naturale.

Per una mentalità "naturale" ciò che conta è poter consumare ciò che produce o di poter ottenere dei beni di consumo in maniera relativamente agevole o sicura, e non tanto di far ciò nel minor tempo possibile, a meno che non lo richieda una necessità immediata, improvvisa, contingente.

Chi fa del "risparmio di tempo" un presupposto della produttività, già vive un rapporto alienato con la realtà. Non è il tempo infatti che appartiene all'uomo, ma il contrario.

Quando si dice che il risparmio del tempo di lavoro è la molla dello sviluppo delle forze produttive, non si dice nulla circa la "qualità" di questo sviluppo. Non dovrebbe essere molto difficile capire che uno sviluppo quantitativo delle forze produttive può non implicare affatto uno sviluppo della qualità della vita. E, viceversa, uno sviluppo della qualità della vita può anche non implicare quello delle forze produttive.

Le innovazioni che alleviano il lavoro e che riducono il tempo, nascono già da una vita che considera il lavoro come un peso insopportabile. E se il lavoro viene concepito come tale, allora significa che in quella società esistono dei rapporti sociali basati sull'antagonismo.

Nel capitalismo la tecnologia si sviluppa per migliorare la produttività, ma più si sviluppa la produttività e più occorre nuova tecnologia per superare l'alienazione del lavoro. E' un circolo chiuso. Gli operai lottano per avere migliori condizioni di lavoro e non si accorgono che quanto più lottano tanto più rischiano di essere sostituiti dalle macchine. Invece di combattere contro il sistema in generale, combattono i suoi singoli difetti, risolti i quali il sistema, dopo un certo tempo, diventa ancora più invivibile.

La legge del valore

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015