MARX: LA QUESTIONE DEL LAVORO

MARX-ENGELS
per un socialismo democratico


LA QUESTIONE DEL LAVORO

La divisione del lavoro nell'Ideologia tedesca (1845-46)

Nell'Ideologia tedesca (qui citata come La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, Roma 1974) Marx (ed Engels) afferma che la "coscienza tribale" porta alla divisione del lavoro non in seguito a una rottura sociale ma spontaneamente: in virtù dell'accresciuta produttività, dell'aumento dei bisogni e della popolazione (p. 50). Da notare che per Marx la "coscienza tribale" implica la "proprietà tribale" e quindi già una società divisa in classi, che non ha nulla a che fare col comunismo primitivo né con le società preschiavistiche: infatti nella società tribale è prevista la presenza degli schiavi. Nell'Ideologia tedesca ancora non ci s'immagina l'esistenza di un comunismo primitivo, o comunque questo non è oggetto d'interesse.

Marx sostiene che esistono due forme di divisione del lavoro: una spontanea, naturale, istintiva e qui Marx dice che la prima divisione è quella "nell'atto sessuale", in quanto la donna è preposta in maniera più esplicita, diretta, alla riproduzione della specie.

L'altra divisione del lavoro è basata sulla forza fisica, il bisogno, il caso (p. 51), ed è per così dire "relativa", non costituendo un vero problema sociale. Infatti, "la divisione del lavoro diventa una divisione reale solo nel momento in cui interviene una divisione tra il lavoro manuale e il lavoro mentale"(ib.): cosa che non si verifica nella società tribale, dove essa non è che "un prolungamento della divisione del lavoro nella famiglia"(p. 38), e la schiavitù si sviluppa "con l'aumento della popolazione e dei bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto"(ib.).

Ora facciamo attenzione. Lasciamo perdere il fatto che Marx non spieghi il passaggio dal comunismo primitivo alla società tribale e che dia per scontata la presenza dello schiavismo in quest'ultima o comunque che supponga uno sviluppo spontaneo dello schiavismo nel tribalismo (cosa, in realtà, tutt'altro che assodata). Ciò che ci preme sottolineare è che la vera divisione del lavoro che produce qualcosa di inedito, in senso negativo, è quella che separa il lavoro manuale da quello intellettuale.

Infatti, "da questo momento in poi -dice Marx- la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la 'pura' teoria, teologia, filosofia, morale, ecc."(p. 51).

Per Marx questo non costituisce "problema" ma anzi il "senso della storia", poiché indica la differenza tra uomo pensante e animale o uomo non pensante, istintivo, tribale. Marx infatti parla di "coscienza da montone o tribale"(p. 50).

La stranezza di questo modo di ragionare, dovuto probabilmente al fatto che le conoscenze storiche erano ancora approssimative, si riflette laddove Marx è poi costretto ad affermare che contestualmente a questa divisione del lavoro, da manuale a intellettuale, che pur dà origine alla coscienza, si forma la pratica dello sfruttamento del lavoro altrui, cioè si forma lo schiavismo vero e proprio.

Qui evidentemente mancano dei passaggi logici, poiché non ha senso che da un lato la divisione del lavoro favorisca la nascita della coscienza e dall'altro questa stessa divisione porti l'uomo pensante a vivere contraddizioni insostenibili, anzi così intollerabili che ad un certo punto Marx si sente indotto a chiedere la fine della stessa divisione del lavoro. La possibilità che gli individui non entrino in contraddizione "sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro"(p. 51).

Infatti è proprio un difetto di questa divisione l'assegnare a individui differenti ciò di cui ognuno avrebbe bisogno e diritto: "l'attività spirituale e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo"(ib.). In forza di questa divisione si crea una "coscienza idealistica", che altro non è se non una rappresentazione astratta di individui isolati, l'espressione mistificata di conflitti sociali, di "ceppi e barriere molto empirici"(p. 52).

Marx ed Engels arrivano persino ad affermare con grande sicurezza che "divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche"(ib.), in quanto una è la forma del contenuto dell'altra. Infatti, "la divisione del lavoro... fondata sulla divisione naturale [nel senso di spontanea] del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l'una all'altra, implica in pari tempo... la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già la sua prima forma nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell'uomo"(ib.). In una parola, "i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà"(p. 37).

Il difetto di questa tesi sta proprio nell'aver estrapolato la prima, rudimentale, forma di schiavitù presente nella famiglia dal contesto sociale in cui essa s'è formata. Storicamente infatti non si è passati da una schiavitù limitata nell'ambito familiare a quella più estesa nell'ambito della società, tra persone non consanguinee, non imparentate.

Il potere di vita e di morte che il "pater familias" aveva sulla propria donna e sui figli era una conseguenza della società divisa in classi, e quindi un effetto dell'affermazione già sociale del principio della proprietà privata. In tal senso la prima forma di divisione del lavoro non si verifica tanto nell'ambito della famiglia, tanto in quello della stessa comunità, tra uomo libero e schiavo, e non può essere considerata come frutto di semplici determinazioni quantitative e progressive. L'introduzione di una differenza di così grande valore, basata sul rapporto di forza, determinerà la discriminazione tra uomo e donna.

Resta comunque interessante che il giovane Marx avesse nei confronti del precapitalismo maggiori forme di attenzione che non nel suo periodo inglese (vedi tuttavia il cap VI del I libro del Capitale e le Formen), ma non è da escludere che questa parte sia stata scritta da Engels, che poi riprenderà, ampliandola, nella Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato.

Quel che è certo è che Marx considerava o comunque accettava l'idea che la divisione del lavoro è un'attività in contraddizione con "l'interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci... [interesse] che esiste anzitutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso"(p. 52). Questa idea non traeva forse la sua ispirazione dalle formazioni sociali precapitalistiche?

Anche quando Marx parla esplicitamente del capitalismo, non c'è apprezzamento, nell'Ideologia tedesca come invece negli studi inglesi, per la divisione del lavoro, poiché essa determina "la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale"(p. 37).

Marx inoltre qui anticipa un argomento che svilupperà a Londra: "fintantoché gli uomini si trovano nella società naturale [istintiva, non consapevole]... l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia a essere diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire..."(p. 53). Negli studi inglesi Marx arriverà a dire che questa potenza estranea è la stessa organizzazione di produzione e riproduzione del capitale.

Ma ciò che più lascia perplessi sono le conclusioni operative su questo discorso. Per realizzare il socialismo Marx ed Engels non pensano affatto a recuperare le dimensioni sociali del precapitalismo, ma anzi sperano ch'esse vengano definitivamente distrutte dal capitalismo, in modo che la stragrande maggioranza della gente sia priva di proprietà. Così la reazione al capitalismo sarà non solo su basi del tutto nuove, ma anche inevitabile. Di qui l'apprezzamento del fatto che la produzione capitalistica permette agli uomini di realizzare delle "relazioni internazionali"(p. 57), in opposizione al localismo della produzione feudale.

Il proletariato, per farsi valere come classe, in opposizione non solo alla borghesia, ma anche ai contadini proprietari della terra, deve conquistarsi il potere politico, "per rappresentare a sua volta il suo interesse come l'universale..."(p. 54). Il grande sviluppo delle forze produttive capitalistiche porterà, a motivo della proprietà privata dei mezzi produttivi, a negare tale proprietà alla massa della popolazione; porterà anche a una ricchezza mal distribuita. Se i lavoratori vedranno da un lato la loro miseria generale e dall'altro la ricchezza particolare di pochi capitalisti, si ribelleranno inevitabilmente.

Riflessioni sulla divisione del lavoro

In una società produttiva -aveva ragione Marx nelle sue opere giovanili- non dovrebbe mai essere troppo marcata la divisione del lavoro, e comunque non dovrebbe essere oggetto di costrizione, perché un lavoratore non può essere costretto, direttamente dalla politica o indirettamente dall'economia, a fare sempre le stesse cose.

Posta la socializzazione dei fondamentali mezzi produttivi, la divisione del lavoro dovrebbe riguardare solo un aspetto del lavoro collettivo, una sua particolare attività: nel senso che l'uomo può accettare, liberamente, di specializzarsi in un dato ramo produttivo o anche semplicemente in un'attività utile o apprezzata dalla collettività, senza che questo vada a detrimento della sua esigenza di completezza e di globalità.

Un lavoratore si sente realizzato quando anzitutto può provvedere ai propri bisogni essenziali, cioè quando è in grado di gestire autonomamente la risposta a un bisogno. Una divisione del lavoro avrebbe senso o per le necessità non essenziali (p.es. le comodità, il surplus, fino alle espressioni artistiche), oppure, se per le necessità essenziali, per quelle al cui soddisfacimento chiunque possa in qualche modo contribuire.

Un contadino può aver bisogno dell'idraulico per fare l'impianto di casa propria, ma non può averne bisogno in maniera assoluta, cioè come se la realizzazione di quell'impianto dipendesse unicamente dalla capacità dell'idraulico. Se un lavoratore dipende in toto da un altro lavoratore, esisterà sempre la possibilità che l'uno si arricchisca a spese dell'altro. La dipendenza, al massimo, può avere un senso se è relativa e, possibilmente, reciproca.

In generale vanno evitate tutte quelle forme di lavoro che possono essere utilizzate per ricattare economicamente o anche solo moralmente chi non svolge la medesima attività. La sottomissione alle competenze altrui dovrebbe essere vissuta come scelta spontanea, senza alcuna forma di costrizione.

Cioè l'uomo potrebbe concedersi alla divisione del lavoro se potesse rinunciarvi in qualsiasi momento. Questo ovviamente significa che le condizioni concrete dell'attività lavorativa vanno tenute costantemente sotto controllo. Non fa problema la specializzazione in sé, la professionalità, ma il fatto ch'essa sia il frutto di un'espropriazione della possibilità di rispondere ad esigenze vitali.

Un lavoratore è completo quando sa provvedere per gran parte alla totalità dei suoi bisogni, o quando sa che la dipendenza dagli altri lavoratori rappresenta non una minaccia alla propria autonomia, ma una fonte di sicurezza.

Riflessioni sul lavoro astratto

L'idea di voler considerare "sociale" la produzione capitalistica e "individuale" quella pre-capitalistica fu un errore che Marx si trascinò sino agli ultimi anni della sua vita, allorquando il contatto col populismo russo (non dimentichiamo che, nel momento in cui venne pubblicato, il Capitale ebbe più successo in Russia che in Europa occidentale) gli fece aprire gli occhi sul valore delle risorse umane e sociali di un'esperienza rurale come quella dell'obscina.

In effetti, l'aver basato la socialità della produzione capitalistica sul "lavoro astratto" fu un'operazione più filosofica che non storiografica.

La socializzazione dei produttori, inerente al fatto che si trovano insieme a lavorare in fabbrica, è solo una maschera strumentale alla realizzazione di un profitto privato, e se vogliamo considerare "sociale" il fatto che i produttori vengono trasformati in ingranaggi che devono far funzionare la macchina che fa accumulare capitali, allora bisogna dire che i sistemi schiavistici dell'età pre-cristiana erano non meno "socializzanti" dell'attuale capitalismo.

La cosiddetta "cooperazione dei produttori" è contingente alla loro specifica mansione, tant'è che in occasione delle crisi periodiche di sovrapproduzione il loro licenziamento tronca di netto ogni forma di socializzazione produttiva. Il capitalismo, seguendo in questo la dottrina calvinista, ha posto il lavoro al di sopra dell'uomo perché ha posto il profitto al di sopra del lavoro.

E i lavoratori occidentali riescono a sopportare questa situazione disumana solo perché, mentre pensano di non avere alternative, il capitale riesce a dare loro, per sopravvivere, quello che riesce a togliere ai lavoratori del Terzo Mondo.

Marx aveva ben capito che dietro la merce - che gli economisti borghesi volevano far passare come un prodotto neutro, frutto di una libera contrattazione - c'era un rapporto sociale basato sullo sfruttamento e che tale sfruttamento trovava degli addentellati nell'alienazione religiosa. Tuttavia, il pregiudizio che nutriva nei confronti della religione lo indusse a scorgere come unica vera forma di socializzazione, nelle economie pre-capitalistiche, quella della fase dello scambio dei prodotti, che inevitabilmente era ben poca cosa rispetto a quella borghese vera e propria, in quanto basata sulle eccedenze o comunque sull'acquisto di beni particolari, che non potevano essere autoprodotti dalla comune agro-artigianale.

In sostanza egli guardava il pre-capitalismo non come realtà a sé, coi suoi pregi e difetti, ma come una realtà del tutto inferiore a una che in virtù della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico era riuscita a trasformare completamente lo stile di vita a milioni di persone.

Quando Marx diceva che se nel capitalismo la socializzazione è un a-priori della merce, nel pre-capitalismo è invece un a-posteriori, non si rendeva conto di attribuire al concetto di "socializzazione" una valenza meramente economico-produttiva, tralasciando di considerare gli aspetti socio-culturali.

Nel mondo rurale del feudalesimo ci si sentiva socializzati anche quando si svolgevano mansioni isolate o di poche persone. Non era tanto (o solo) il lavoro che teneva uniti, quanto il valore che si attribuiva allo "stare insieme": era la vita che dava un significato al lavoro. E questo nonostante la tristissima esperienza del servaggio e l'insopportabile peso del clericalismo.

Marx non ha compiuto una vera rivoluzione culturale, in quanto si è servito della falsa rappresentazione capitalistica della socializzazione per screditare non solo l'esperienza religiosa pre-borghese (il che si può capire), ma anche l'esperienza sociale sottesa a quella religiosità.

Eppure proprio quell'esperienza ci fa capire che un lavoro non acquista il carattere della "socialità" nel momento stesso in cui si diventa "macchine umane" a fianco di altre "macchine fisiche" o nel momento in cui il bene prodotto viene scambiato.

Un lavoro è "sociale" se lo è l'esistenza in cui esso si manifesta. E' la pratica del valore sociale delle cose che dà al lavoro un carattere di socialità, a prescindere dall'effettivo scambio dei prodotti e dal fatto stesso di lavorare più o meno insieme.

Infatti, se in una società è assente il concetto di proprietà privata (che comunque nel Medioevo esisteva, ma in forme molto più sopportabili di quelle odierne, in quanto la capitalizzazione delle derrate era vincolata al consumo che se ne poteva fare e l'accumulo di terre aveva più che altro lo scopo di soddisfare ambizioni di potere politico o di prestigio personale), ogni bene prodotto è prodotto per tutti, è "sociale" per definizione, come un aspetto immanente alle cose.

Viceversa, nel capitalismo un bene diventa sociale solo quando si trasforma in merce, cioè quando viene scambiato contro denaro sul mercato. Se, per un qualunque motivo (p.es. la sovrapproduzione o la concorrenza di un prodotto analogo), non potesse esserci lo scambio, il bene resterebbe invenduto e, benché frutto di un collettivo di produttori aziendali, esso non avrebbe alcun carattere di socialità; il che dimostra, in maniera evidente, come lo scambio serva per realizzare un'attività antisociale per antonomasia: l'accumulo privato di capitali.

E' stata proprio la trasformazione del concetto di valore da etico a economico (p.es. ha valore solo ciò che ha un prezzo o che permette di realizzare profitti) che ha distrutto ogni forma di socializzazione. Se Marx avesse analizzato senza pregiudizi ideologici le formazioni pre-capitalistiche si sarebbe accorto che la misura del valore delle cose non sta tanto (o solo) nel tempo socialmente necessario per produrle, quanto piuttosto nell'importanza etica, culturale che la comunità attribuisce loro. Una cosa può avere molto valore anche se per produrla è occorso un tempo relativamente breve, non viene venduta sul mercato e i mezzi impiegati per produrla non sono di gran pregio: è il caso del vino per i contadini romagnoli, simbolo principale di un intero stile di vita.

Il tempo di lavoro socialmente necessario è una definizione astratta se applicata al sistema capitalistico, in quanto la determinazione dei prezzi delle merci tiene conto solo in minima parte di quella definizione. Non essendoci un valore "etico" delle cose l'instabilità, inclusa quella economica, è la regola sotto il capitale (lo dimostrano continuamente la sfrenata concorrenza, l'inflazione, i licenziamenti in caso di sovrapproduzione, il ricorso all'avventurismo bellico ecc.)

Oggi non è più così pacifico che una libertà formale sia sempre meglio di una servitù reale.

Differenza tra schiavismo e lavoro salariato

Il lavoro salariato è uno sfruttamento più sofisticato, più speculativo, dello schiavismo, in quanto, da un lato, garantisce la libertà formale (giuridica), dall'altro nega ogni libertà sociale, se non di dispone di proprietà adeguata.

Il lavoro salariato presuppone che l'imprenditore si ponga come unico scopo dell'esistenza l'accumulazione di capitali, cioè il possedere per possedere.

Mentre gli schiavi servivano per lavorare la terra, per edificare palazzi e monumenti, per le faccende domestiche, ecc., il lavoro salariato invece serve per accumulare quattrini, che in buona parte non vengono neppure reinvestiti per allargare la produzione.

Si determina così la netta prevalenza degli aspetti finanziari su quelli produttivi e il capitalismo assume sempre di più le caratteristiche delineate da Lenin nel suo libro sull'Imperialismo.

Lavoro produttivo e improduttivo


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26/04/2015