PARMENIDE

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PARMENIDE

I - II

Parmenide rappresenta il tentativo di dare una direzione positiva alla teoria della unità degli opposti, la cui formulazione eraclitea aveva raggiunto, fino a quel momento, il massimo livello. Questo a testimonianza che veramente in tutta la storia della filosofia la coincidentia oppositorum, anche se non viene trattata in modo esplicito e diretto, rappresenta la conditio sine qua non di qualunque pensiero che pretenda d'essere dialettico e non dogmatico.

Tuttavia Parmenide non storicizza la dialettica di Eraclito, rendendola più concreta, ma si riallaccia ad Anassimandro, trasformando l'àpeiron nell'essere unico, intero, immobile e ingenerato. In tal modo la teoria dell'unità degli opposti viene recisamente negata. Per Anassimandro infatti la contraddizione era un limite e non la possibilità di uno sviluppo (come invece in Eraclito). Parmenide quindi, spaventato dal vortice del panta rei di Eraclito, invece di legarlo strettamente al concetto di "essere", fa di quest'ultimo un mezzo per uccidere la dialettica.

La critica parmenidea del non-essere, cioè della "negatività", è senz'altro più radicale di quella di Anassimandro, ed è chiaramente rivolta sia alla filosofia di Pitagora (di cui contesta la concezione che ammetteva l'esistenza del vuoto), sia, e soprattutto, alla filosofia di Eraclito, il cui concetto di "divenire" pareva a Parmenide l'esatta antitesi al suo concetto di "essere". In questo senso Parmenide ha perso una grande occasione: quella di vincolare l'essere al divenire, dando al divenire un senso e all'essere un movimento.

In un certo qual modo Parmenide si è riallacciato anche a Talete, poiché ha avuto la pretesa di fondare un arché da cui tutto dipendesse, ma se ne è distaccato laddove in luogo di un arché concreto, materiale e naturalistico, ne ha posto uno astratto e matafisico: l'essere appunto, quell'essere che Parmenide dice, per fare un favore alla religione, d'aver potuto attingere in maniera "divina".

Si badi, non è che il concetto di "essere" sia di per sé metafisico: è piuttosto il modo di trattarlo ad esserlo. Separare l'essere dal divenire, dalla storia, dalla libertà degli uomini significa fare del naturalismo in campo metafisico. Fra un naturalista che non comprende i nessi tra evoluzione delle specie animali ed evoluzione del genere umano, e un filosofo che non si preoccupa di verificare i propri concetti nel contesto storico-sociale, non vi è alcuna differenza.

Tuttavia, Parmenide dà un contributo fondamentale alla metafisica. S'egli avesse compreso la dialettica di Eraclito, forse sarebbe nato un Hegel 2300 anni prima. Anche se un altro problema si sarebbe dovuto risolvere: quello di come far nascere l'essere dal nulla, cosa che difficilmente un greco avrebbe potuto accettare. Parmenide lo diceva chiaramente: l'essere è e il non-essere non è. Far dipendere l'essere dal non-essere era per lui una bestialità.

In questo senso hanno ragione coloro che definiscono la metafisica greca di tipo "realistico", rispetto a quella "idealistica" dell'hegelismo. Ma hanno ancor più ragione coloro che ritengono la contraddizione come il "motore della storia", cioè come un processo a salti verso un fine, con un cammino a spirale: e su questo il "realismo metafisico" greco non ha mai detto una sola parola. Semplicemente perché il nuovo concetto di contraddizione (non come limite ma come stimolo) è stato desunto dal cristianesimo.

Parmenide, se vogliamo, è uno dei filosofi più totalitari che si conoscano, e proprio in quanto non riesce ad accettare la mutevolezza dell'essere, cioè la dignità della differenza. L'essere, per Parmenide, dev'essere perfetto, senza limiti di sorta: una sua qualunque debolezza lo nega come tale. E' un modo di vedere le cose - come si può notare - alquanto schematico (tipico degli idealisti pre-dialettici).

Parmenide applica alla storia un concetto a-storico, sovratemporale di essere, un concetto che in realtà può esistere solo nella mente di un filosofo astratto. Con Parmenide, in un certo senso, nasce la concezione totalitaria, dittatoriale della politica, quella che esclude a priori la partecipazione delle masse.

Il monismo di Parmenide è assoluto, il suo principio di identità o di non-contraddizione è categorico. Secondo Plutarco, tutti i concittadini di Parmenide, una volta giunti alla maggioretà, erano tenuti a prestare giuramento alle sue leggi. Con Parmenide è come se l'aristocraticismo politico si fosse pentito d'aver concesso dello spazio alle forze sociali tendenti alla democrazia. La filosofia di Parmenide assomiglia molto a quella della Rechtsphilosophie di Hegel, soprattutto laddove si afferma che reale e razionale coincidono perfettamente.

Resta però interessante l'identità di essere e pensiero che Parmenide ha voluto affermare dal punto di vista dell'essere. In effetti, solo un'identità del genere, posta in questi termini, permette di distinguere la verità dall'opinione.

Senonché per Parmenide l'essere corrisponde alla società divisa in classi, dove la classe cui egli appartiene, e cioè l'aristocrazia, svolge una funzione egemonica. Se Parmenide fosse stato un democratico, la sua identità di essere e pensiero a partire dall'essere sarebbe stata superiore alla medesima identità posta da Hegel a partire però dal pensiero. Più importante dell'essere, per Hegel, era il concetto, poiché è il concetto che svela il senso dell'essere, che addirittura dà senso all'essere.

Un greco non avrebbe mai attribuito all'essere umano una pretesa così grande: anche qui dunque si può notare quale diversità esista fra cristianesimo (ancorché laicizzato) e filosofia greca. L'uomo, in virtù del cristianesimo, si è riconosciuto in grado di dare un senso religioso alle cose, mentre nel periodo greco al massimo si riteneva in grado di scoprire l'essere nelle cose. Oggi bisogna superare entrambe le posizioni e affermare da un lato che è l'essere umano e non dio a dare un senso alle cose, e dall'altro che tale essere umano non va inteso in senso individuale ma collettivo. Gli uomini possono dare un vero senso alle cose se l'esperienza che vivono è realmente conforme alle cose stesse. Ovviamente nessuno può decidere a priori su questo: la conformità è un fatto che si sperimenta solo a posteriori.

Viceversa, per Parmenide la verità non è un processo che si acquisisce a-posteriori, ma un'evidenza che s'impone a-priori. Da questo punto di vista l'affermata priorità dell'essere sul pensiero si basa su una mera astrazione intellettuale, in quanto non fa riferimento alle contraddizioni della realtà.

I fenomeni, per Parmenide, sono mere apparenze, indegni d'essere analizzati nella loro specifica concretezza. Parmenide è un filosofo "puro", e quindi un politico conservatore: è uno specialista della speculazione astratta, dogmatica. Il che implica sempre una buona dose di artificiosità e formalismo. Come quando, p.es., arriva a dire che il suo "essere assoluto" è in realtà "finito". Influenzato dai pitagorici, rifiuta l'idea che l'infinito sia qualcosa di positivo. Ci vorrà Melisso per introdurre l'infinitezza nell'essere.

Ma il limite di fondo di Parmenide è un altro. Egli ha fallito proprio nel tentativo di voler "dimostrare" (logicamente) la superiorità dell'essere sul non-essere. In realtà, l'uomo non può "provare" o "dimostrare" l'essere, può soltanto descrivere il passaggio dal non-essere all'essere. L'essere sarebbe un'evidenza che s'impone da sé, se l'uomo non ne rallentasse la realizzazione con le sue false interpretazioni e con i suoi comportamenti inadeguati. La verità dell'essere non dipende da una riflessione filosofica dell'uomo. L'essere è una cosa che si scopre, in quanto l'uomo nasce in un contesto storico-sociale che lo precede, ma l'essere è anche una cosa che si costruisce, poiché lo stesso contesto è soggetto a mutamento.

L'essere dunque non si può "provare", come un teorema di matematica. Ogni prova dell'essere è indirettamente una testimonianza della sua assenza, della sua non-praticabilità. L'unico modo di provare l'essere è quello di viverlo, ma vivere l'essere significa vivere la libertà, e vivere la libertà significa essere legati al presente e alle sue contraddizioni.

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Essere e non essere sono forme dell'essenza umana e universale. L'essenza è eterno movimento, e questo è opposizione di contrari, per cui dire - alla Parmenide - che l'essere è e non può non essere, è quanto meno riduttivo. Se a uno degli opposti si dà un primato assoluto sull'altro, si perde il movimento, l'essere si fossilizza, la verità diventa dogmatica.

Parmenide aveva paura del negativo e non si rendeva conto che anche questo, all'interno di un processo dialettico, può portare alla positività. Il nulla o il non essere è fonte di possibilità perenne. È anzi il non essere che permette all'essere di essere se stesso, altrimenti avremmo un essere sempre uguale a se stesso, immodificabile: il che contraddice la legge del perenne movimento.

L'uomo non deve affermare un principio contro l'altro, ma deve verificare, nella realtà, quali siano le esigenze che obbligano a rivedere i principi. In sé i principi non sono né veri né falsi; è vera o falsa la corrispondenza della prassi alle esigenze della realtà. Se si pretende di ritenere veri di per sé alcuni principi astratti, non si fa dell'ontologia bensì del misticismo.

Se nell'esaminare le esigenze della realtà, si ritiene che alcuni principi siano intoccabili, tali per cui non occorre neppure prenderli in considerazione, si è già fuori della dialettica, cioè si permette a un pre-concetto d'interferire nella valutazione obiettiva della realtà.

I filosofi ritengono che col primo principio parmenideo si era formulato quello che, nella logica, diventerà il famoso principio di identità o di non-contraddizione: se A è A non può mai essere non-A, ovvero se A è B non può mai essere non-B. Un principio però che può al massimo essere valido nel campo della logica formale, astratta, convenzionale, ma che non trova alcun riscontro nella realtà, in cui gli opposti tendono a compenetrarsi, cioè a non potersi scindere in maniera irreversibile. Nella realtà sociale, concreta, ma anche in quella naturale nessun principio di identità può essere posto senza porre, nel contempo, quello della differenza.

Parmenide volle affermare il principio di identità per sostenere che la verità è un'evidenza che si impone da sé, ma in questo era incredibilmente ingenuo, come può esserlo qualunque adolescente. Anzi oggi tendiamo a definire i sostenitori del principio di identità dei veri e propri fanatici, dei potenziali terroristi, dei fondamentalisti della fede religiosa, ma anche degli ideologi che non vogliono mai mettere in discussione le verità in cui credono.

I filosofi dicono che Parmenide ha dato un grande contributo allo sviluppo del pensiero metafisico e logico occidentale: in realtà andrebbe considerato come il fondatore dell'intolleranza dogmatica.

Posto questo, diventano false anche le altre affermazioni che Parmenide dice intorno all'essere, pur apparendo formalmente convincenti. Che l'essere, infatti, sia ingenerato eterno incorruttibile ecc. può anche essere vero (sembrano gli stessi attributi che la teologia attribuisce a dio e il materialismo alla materia), ma nella sua logica assumono un significato equivoco. Infatti sembrano tutte aggettivazioni che presumono l'aggettivazione contraria in riferimento al non essere, quando nella realtà concreta essere e non essere si equivalgono.

Che Parmenide fosse molto limitato nella definizione dell'essere, lo dimostra anche il fatto che nella scelta degli aggettivi con cui qualificarlo, arriva a dire cose che nessuna teologia e nessun materialismo accetterebbero mai: p.es. che l'essere sia immutabile, immobile, limitato e finito (nel senso di compiuto e perfetto), uguale a se stesso, uno e sferiforme. Se esistesse un essere del genere, sarebbe lontanissimo dall'essenza umana, che è mutevole, dinamica, illimitata, infinita, mai uguale a se stessa, perché sempre in divenire, molteplice nelle sue espressioni e slegata da precise rappresentazioni simboliche di se stessa, tanto meno se di tipo geometrico.

Cioè se l'essere fosse come quello parmenideo, l'essenza umana gli sarebbe infinitamente superiore. Una perfezione così statica, così avulsa dall'esercizio della libertà, non farebbe progredire di un millimetro la personalità umana. Questo per dire che anche gli attributi che una moderna ontologia materialistica potrebbe riferire all'essere, dovrebbero comunque essere ripensati in un rapporto dialettico tra essere e non essere, evitando di usarli in via esclusiva, cioè per negare realtà all'opposizione.

Paradossalmente anzi dovremmo dire che proprio quanto Parmenide attribuisce al non essere, e cioè la non pensabilità o l'indicibilità, è ciò che più si avvicina al concetto di essenza della materia, la quale è in grado di garantire la propria alterità (rispetto alle rappresentazioni che di essa è possibile fare) proprio in virtù del fatto che nella sua essenza più profonda essa resta inafferrabile.

È vero che anche Parmenide parla di opposti, ma lo fa come Anassimandro, cioè evitando di distinguerli. Parmenide non ha posto le basi della dialettica (questo semmai l'ha fatto Eraclito), bensì quelle della tautologia.

L'unica cosa un po' interessante nella sua filosofia è che negava qualunque realtà alla morte. Non esistendo il nulla, la morte non può essere la fine di qualcosa che è. Solo che era così schematico che, assurdamente, arrivava a dire che il cadavere permaneva nell'essere, cioè in qualche modo continuava a sentire, a vivere. Accettando solo la fissità e non la trasformazione, finiva con l'imbalsamare l'essere così come gli egiziani facevano con i corpi dei faraoni. Parmenide andrebbe ricordato come il mummificatore della verità.

La nozione di relatività nella trattazione della nozione di tempo nel "Parmenide" di Platone (pdf)


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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015