ROUSSEAU

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ROUSSEAU

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jean jacques rousseau

Il pessimismo di Rousseau nei confronti della società borghese era senz'altro più legittimo dell'ottimismo degli illuministi. D'altra parte questi non avrebbero potuto superare i limiti del feudalesimo con un atteggiamento scettico.

Rousseau però sembrava che vedesse più in là di tutti. Non si faceva illusioni sull'uso borghese della ragione. Da questo punto di vista è stato grande il suo contributo in direzione della scoperta del valore delle società pre-classiste. La civiltà - a suo giudizio - non stava tanto nella scienza o nella tecnica, cioè nel progresso materiale, quanto nell'umanesimo.

Ciò che Rousseau non ha capito è stato il passaggio dalla comunità primitiva alle società classiste. Se l'avesse capito, non avrebbe attribuito alle scienze e alle arti la responsabilità principale delle contraddizioni sociali.

Per Rousseau il benessere dell'uomo primitivo era esclusivamente legato alla sua vita individuale, autosufficiente; i problemi sorsero nel momento stesso in cui l'uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro uomo.

Qui vi sono due errori fondamentali: 1) che lo stato di natura fosse una condizione di dispersione e isolamento; 2) che il bisogno di superare i limiti dell'individualismo porti automaticamente all'ingiustizia.

La nascita delle società classiste è invece avvenuta per motivi opposti: alla vita comunitaria della società primitiva si è sostituita, progressivamente, l'interesse privato del singolo o di taluni gruppi sociali, per i quali la proprietà privata era diventata il mezzo per emanciparsi dal collettivo.

Lo stato di natura descritto da Rousseau non è mai esistito, proprio perché ad esso Rousseau ha applicato dei moduli interpretativi desunti dalla società borghese. Egli ha contrapposto all'antagonismo della società civile borghese il pacifismo dell'individualismo primitivo.

Probabilmente Rousseau voleva dimostrare che l'individuo singolo, estraneo ai giochi di potere, agli interessi economici, ai salotti culturali, è, nella società borghese, migliore dell'individuo "socializzato", del citoyen. Ecco perché egli non ha mai sopportato l'idea dell'assolutismo politico.

Rousseau credeva di poter superare, attraverso il Contratto sociale, sia il limite di un individualismo "buono", che però non riesce a imporsi sull'antagonismo della società borghese, sia il limite della "cattiva" socializzazione che si verifica nella stessa società borghese, allorché in nome della proprietà si vuole affermare l'ineguaglianza.

Il Contratto sociale è una soluzione utopica, per la semplice ragione che Rousseau chiede a tutti i cittadini di fare spontaneamente una cosa che la società borghese, proprio perché divisa in classi, rende impossibile. Come si può infatti pensare che ogni individuo si renda cosciente che la democrazia è il miglior governo, quando i cittadini che dispongono di proprietà privata ritengono che l'assenza della democrazia (quella sociale) li favorisca?

Rousseau non ha compreso l'essenza della lotta di classe, della rivoluzione politica delle masse oppresse, ed ha voluto affidare la realizzazione della democrazia allo sviluppo di due strumenti non politici: l'educazione civile, pedagogica e nazionale da un lato, e la religione "civile" dall'altro.

Interessante però il fatto che Rousseau abbia capito quanto fosse indispensabile, per realizzare la democrazia, puntare su un territorio limitato, in cui la sovranità popolare potesse manifestarsi con maggiore pienezza.

TORNIAMO A ROUSSEAU

Lo Stato dev'essere subordinato alla società, il legislatore deve conformarsi alla volontà del popolo. Non solo, ma il popolo deve diventare legislatore di se stesso, e ciò è possibile solo a livello locale, perché solo a questo livello è possibile una democrazia diretta, piena, sostanziale e non formale, cioè non delegata a rappresentanti che vivono lontani dalla realtà quotidiana, che non possono oggettivamente avere il polso della situazione. La democrazia è reale quando può essere posta sotto controllo quotidiano dagli stessi cittadini che la gestiscono.

Vanno superati i concetti di Stato e di nazione, persino i concetti di istituzione (che è strettamente legato a quello di burocrazia) e di rappresentanza parlamentare, se s'intende con questo termine un governo centrale che impone le proprie leggi alle comunità locali.

Qualsiasi tentativo di democratizzare la società civile, senza mettere in discussione i concetti di Stato, nazione, istituzione e governo parlamentare centralizzato, è destinato a fallire, perché col tempo tende a svuotarsi di contenuto, non avendo la forza politica per affermarsi e, di conseguenza, per modificare il sistema (si pensi, in tal senso, alla fine che hanno fatto il decentramento regionale, i consigli di quartiere o di circoscrizione dei Comuni, i Decreti Delegati per le scuole statali ecc.).

Non è più sufficiente la "buona volontà" per risolvere la corruzione, il degrado, l'inefficienza... Non basta più neppure la decisione di sostituire i "corrotti e corruttori" con uomini di "provata virtù". Infatti, dopo un certo periodo di risanamento, si finisce col ricadere inevitabilmente nei mali di sempre. Da questo punto di vista fanno bene coloro che propongono di considerare la corruzione un elemento strutturale del sistema. Ma fanno bene "al negativo".

E' il sistema in quanto tale che non funziona e non singoli suoi aspetti o settori; e funziona così male che praticamente qualunque volontà positiva dei politici non solo non si realizza, ma tende anche a realizzare gli obiettivi opposti a quelli voluti.

Torniamo dunque a Rousseau, ma passando per i principi del socialismo democratico. Rousseau era un ingenuo, poiché pensava che una società divisa in classi potesse trasformarsi progressivamente nel suo contrario, ma aveva capito che senza la sovranità popolare diretta non c'è alcuna vera democrazia.

Rousseau totalitario?

Rousseau può essere considerato totalitario non tanto perché non crede in una "strutturale" tendenza al male nell'uomo (che il cristianesimo attribuisce al cosiddetto "peccato originale"), e neppure perché, non credendo in questa tendenza, risolve la morale nella politica. Semmai può essere considerato totalitario perché non ha un approccio democratico-classista al problema dell'ineguaglianza. Cioè non si pone mai esplicitamente dalla parte del proletariato urbano e rurale. Semplicemente egli è schierato dalla parte della piccola borghesia, la quale cerca di tutelare i propri beni contro chiunque voglia proletarizzarla.

Rousseau è l'ideologo di una borghesia che ha bisogno di difendersi non solo dall'aristocrazia laica ed ecclesiastica, nonché dalla grande borghesia, che non accetterebbe mai, mettendo a disposizione tutta la propria ricchezza, una soluzione di tipo contrattuale e paritetica con chi dispone di poca proprietà, ma vuole difendersi anche dagli operai e dei contadini, soprattutto da quelli che avanzano rivendicazioni di tipo sociale.

Rousseau vuole la dittatura della piccola, al massimo media borghesia, da esercitarsi contro ogni altra classe sociale. Vuole una democrazia imposta con la forza. In tal senso egli è soltanto un intellettuale piccolo-borghese di tendenza radicale, il quale appare "democratico" solo perché propone soluzioni che le classi privilegiate non avrebbero mai potuto accettare. Ma il suo radicalismo rimane fittizio, in quanto si gioca esclusivamente sul rapporto individuo-Stato, in cui lo Stato è sì l'esito di un rapporto pattizio tra individui, ma niente di più.

Rousseau non prevede affatto l'estinzione dello Stato, né il suo progressivo assorbimento da parte della società civile. E gli strati sociali marginali (come appunto gli operai delle fabbriche e i contadini senza proprietà terriera) non possono fare altro che accettare le condizioni della piccola borghesia, essendo troppo privi di cultura, troppo vincolati (i contadini) a questioni di tipo religioso, troppo presi dalle loro condizioni di sopravvivenza per poter avere - secondo lui - uno sguardo sereno sulla vita di società, una visione d'insieme la più possibile obiettiva sui problemi che la società deve affrontare.

Quand'egli parla di "stato di natura", non intende mai qualcosa di desiderabile, cui si debba cercare di tornare. Lo "stato di natura", ovvero il comunismo primitivo, per lui è perduto per sempre. Questo, nella sua filosofia politica, è soltanto un concetto astratto, usato in modo provocatorio, per denunciare le contraddizioni di una società gestita politicamente da due classi sociali (nobiltà e alta borghesia) che, sociologicamente, sono del tutto minoritarie nell'ambito della nazione.

Semmai ci si può chiedere quale sia la differenza, nella concezione dello "stato di natura", tra Rousseau e i giusnaturalisti. Ma non sarà da questo che si potrà comprendere se la filosofia politica di Rousseau è democratica o totalitaria.

Il giusnaturalismo aveva una concezione molto particolare dello "stato di natura". L'individuo veniva considerato come già titolare di diritti innati e inalienabili in virtù di un'investitura diretta da parte della divinità, e tra questi diritti si prevedeva naturalmente quello alla proprietà privata. Quindi l'uomo titolare di diritti, e per natura proprietario di un bene inalienabile, era già moralmente sano e la società non aggiungeva alcunché alla sua moralità. Anzi la società e soprattutto lo Stato dovevano soltanto garantire l'esercizio di quei diritti, i quali venivano appunto gestiti individualmente, difendendoli soprattutto da chi li voleva negare. Gli uomini sono l'uno contro l'altro armati - dicevano i giusnaturalisti - e, per questa ragione, sono costretti a darsi delle istituzioni politiche rigide o accettare delle convenzioni sociali severe per poter sopravvivere pacificamente.

In questa concezione dell'uomo e della società l'individualismo borghese, di natura ancora cristiana, era ben visibile. L'uomo veniva considerato buono di natura, salvo il momento in cui entra in rapporto con gli altri. La sua trasformazione negativa, belluina, avviene perché ha paura degli altri, sicché, per difendersi, non può che rivendicare diritti e privilegi. La vera libertà, quindi, è non nella società, ma dalla società. Lo Stato serve appunto a stabilire dei confini e a farli rispettare con la forza.

Per Rousseau invece lo "stato di natura" non è né buono né cattivo, ma simile a quello animalesco, cioè istintivo e privo di religione. Si tratta di un uomo appunto di natura, del tutto individualistico, per nulla sociale. L'uomo può diventare umano solo in società, ma a condizione che realizzi in prima persona, cioè responsabilmente, un contratto volontario con tutti gli altri, condiviso da tutti.

Come si può facilmente notare, entrambe le concezioni non hanno la più pallida idea di cosa voglia veramente dire "stato di natura". Sono entrambe individualistiche e non riescono a comprendere che il loro individualismo è frutto di una rottura nei confronti degli antichi rapporti comunitari che gli uomini vivevano appunto nello stato di natura.

I giusnaturalisti vogliono che la grande borghesia conservi, con la forza della legge, quanto le spetta di diritto solo per il fatto di esistere. Rousseau vuole invece fare in modo che la piccola borghesia guadagni di più di quel che aveva perso per colpa dei propri nemici. La differenza consiste nel fatto che la grande borghesia era, al tempo dei giusnaturalisti, molto minoritaria, all'interno di una società ancora dominata politicamente dalla nobiltà, ed era una borghesia che anelava a diventare aristocratica, anche a costo di comprarsi i titoli nobiliari.

Viceversa, al tempo di Rousseau la piccola borghesia era diventata particolarmente numerosa e si sentiva schiacciata dai "grandi" del suo tempo, borghesi o aristocratici che fossero. Ecco perché non le basta rivendicare dei diritti di natura, ma ha bisogno di far valere dei diritti positivi, civili e politici, cui l'intera società deve attenersi. Ecco perché Rousseau va considerato il principale filosofo della rivoluzione francese, quando questa, in particolare, viene gestita direttamente dai giacobini.

Inoltre, mentre per il giusnaturalismo la competizione economica non procura alcun vero problema, poiché da un lato c'è lo Stato, che alla bisogna interviene, e dall'altro c'è la "mano invisibile" che, nell'ambito del mercato, si pensa che aggiusti tutte le storture, avvalendosi della legge della domanda e dell'offerta, cioè della legge sull'utilità reciproca; per Rousseau invece la competizione va sin dall'inizio regolamentata da un'istanza superiore, altrimenti porta l'intera società allo sfascio. Di qui l'esigenza di subordinare l'economia alla politica e non il contrario.

Anche i giusnaturalisti temono che la concorrenza possa distruggere la società, ma confidano nel fatto che, in ultima istanza, gli uomini non sono così stupidi da non capire quando è meglio scendere a compromessi. Non a caso nella loro concezione giuspolitica le istituzioni intervengono solo a posteriori. Per Rousseau invece devono farlo a priori, proprio per impedire che si formino situazioni estreme.

Rousseau non aveva concezioni economiche arretrate; quando rifiutava il laissez-faire dei fisiocratici, non lo faceva perché non riusciva a capire l'importanza della competizione ai fini dello sviluppo economico. Al contrario, egli aveva intuito che senza una regolamentazione politica dell'economia, questa, in un regime borghese, sarebbe sfuggita di mano, procurando la rovina economica dell'intera società.

Tuttavia resta assodato che la contrapposizione tra il liberalismo giusnaturalistico e il radicalismo roussoviano non sfiora neanche lontanamente i veri problemi che porrà il socialismo scientifico, il quale presumeva di porsi al servizio di classi nullatenenti. Per non parlare del fatto che neppure il socialismo scientifico riuscirà a farsi un quadro esatto dello "stato di natura", continuando a vederlo come una condizione di vita da cui si doveva necessariamente uscire.

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Quando nel suo secondo Discorso Rousseau afferma che il patto sociale è stato soltanto una forma di raggiro ai danni dei poveri, che ha permesso ai ricchi di trasformare la loro proprietà privata (e quindi il regime di concorrenza e d'ineguaglianza) in una istituzione legale, protetta dallo Stato, diceva una cosa più realistica di quella detta nel Contratto sociale, che solo in teoria avrebbe potuto impedire l'anarchia dell'antagonismo sociale.

Nel secondo Discorso Rousseau non faceva che ripetere la tesi di Locke, secondo cui gli uomini decidono d'istituire un potere comune, lo Stato, solo per poter continuare a essere liberi dai condizionamenti della società, dove prevale l'antagonismo sociale. E si è liberi solo in quanto proprietari. Il contratto è formale, mentre la proprietà è reale e la libertà ne dipende strettamente. Ripeteva queste cose non per giustificarle, ma per condannarle. Per procedere in senso innovativo dovrà scrivere il Contratto sociale, che però lo sarà soltanto fino a un certo punto. E comunque la rottura coi filosofi illuministi era già avvenuta nei due Discorsi.

La filosofia politica di Rousseau non può essere considerata dittatoriale semplicemente perché nega un fondamento giusnaturalistico alla società civile borghese (ché, anzi, se si fosse limitato a questo, egli sarebbe stato il vero anticipatore del socialismo), ma piuttosto perché non ha capito nulla dello stato di natura, e in ciò assomiglia agli avversari che combatteva, che di quella condizione di vita avevano compreso ancor meno di lui.

A parziale scusante di tutti questi filosofi borghesi circa l'incomprensione del comunismo primitivo va il fatto che già lo schiavismo romano l'aveva eliminato in tutta Europa, soprattutto nell'area occidentale. La parzialità della scusante sta però nel fatto che, a partire dal colonialismo europeo, si sarebbe dovuti tornare a capire che cos'era lo stato di natura, ancora molto presente in Africa, nel continente americano e in varie regioni asiatiche e in tutta l'Oceania. Invece si fece finta di non riconoscerlo, poiché l'intenzione era quella di eliminarlo il più presto possibile. Gli illuministi parlavano di giusnaturalismo solo nei confronti dei propri beni, ma quando vedevano le proprietà di popolazioni più arretrate sul piano culturale, scientifico, tecnologico e militare, facevano molto presto a contraddirsi.

Comunismo primordiale vuol dire proprietà comune di tutti i mezzi produttivi; assenza di una rigida divisione del lavoro (se e quando esisteva una divisione del genere, essa era dovuta a differenze naturali, non a imposizioni o anche solo a condizionamenti sociali); assenza di istituzioni che possano gestire dei poteri delegati al di sopra della volontà della comunità; assenza di una produzione finalizzata per il mercato, in quanto vigeva l'autoconsumo (se esisteva il mercato, era solo per barattare delle eccedenze).

Un comunismo del genere è incompatibile con qualunque filosofia borghese, sia essa di tipo radicale, come quella di Rousseau, o liberale come quella di Locke, o autoritaria come quella di Hobbes. Certamente non si può stare dalla parte di Rousseau quando critica la diseguaglianza borghese e poi essergli contro quando non accetta il progresso tecnologico del capitalismo. Spesso i critici sostengono che Rousseau non poteva andare al di là di una socializzazione contrattata in termini etico-politici, poiché i tempi non erano sufficientemente maturi per vedere un superamento economico della società borghese nel suo insieme. Eppure ai tempi di Rousseau le relazioni degli etnologi e antropologi potevano far presente un comunismo primitivo ancora molto vivo. Cosa che oggi è impossibile fare, se non in casi rarissimi.

Questo per dire che proprio al tempo di Rousseau c'erano molte più possibilità che non nei due secoli delle teorie socialiste (XIX e XX), per capire che il comunismo primitivo era davvero un'alternativa reale alla società borghese. Oggi per poter capire l'importanza del comunismo primitivo rischiamo di aver bisogno di una catastrofe generale, sociale e ambientale, in virtù della quale gli ultimi sopravvissuti saranno in realtà costretti dalla forza delle cose a tornare a quello stile di vita se vorranno continuare a esistere.

È un brutto modo di vedere le cose quello di giustificare le manchevolezze di una determinata teoria, dicendo che esse non potevano dipendere dalla volontà di chi l'aveva formulata, bensì dalle condizioni storiche in cui il suo autore viveva. Non c'è nulla che possa imporsi in maniera indipendente dalla volontà umana. Nessuno può sentirsi autorizzato a condannare all'ignoranza o all'impotenza chi è vissuto prima di lui.

Noi siamo troppo abbacinati dall'idea di progresso per poter avere uno sguardo obiettivo sulla realtà. In particolare il XX secolo ci ha illusi che in virtù della scienza e della tecnica è sempre possibile uscire anche dalle catastrofi belliche più devastanti e disumane. In realtà l'Occidente ha potuto riprendersi soltanto perché il Terzo mondo, che prima veniva sfruttato impunemente, si è illuso che per liberarsi di questo sfruttamento potesse bastare un'emancipazione di tipo politico-istituzionale.

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La teoria giusnaturalistica (da Pudendorf a Locke) presupponeva un duplice contratto: quello societario tra i cittadini, per la loro sicurezza reciproca (che sostanzialmente consisteva nella tutela della proprietà privata, fonte primaria della libertà personale), e quello di dominazione o di sottomissione condizionata tra i cittadini e un sovrano, mediante cui il potere politico (suddiviso in legislativo ed esecutivo) e quello giudiziario (in Locke è quello federativo) venivano delegati a una realtà esterna, lo Stato, preposto a difendere in primo luogo i cittadini detentori dei diritti naturali e firmatari del patto sociale.

Questa teoria era stata in parte rifiutata da Hobbes, che aveva eliminato il patto societatis, in quanto per lui contava solo lo Stato, unico legittimo sovrano (preferibilmente monarchico), mentre i cittadini non potevano avere altri diritti di quelli che il sovrano riconosceva o concedeva loro. Tuttavia i cittadini non smettevano d'essere proprietari dei loro beni: semplicemente dovevano rinunciare a impadronirsi di quelli altrui, onde evitare il rischio di una guerra civile, che al tempo di Hobbes aveva pesato non poco sui destini degli inglesi.

Rousseau invece elimina il patto di dominazione (subjectionis), attribuendo la sovranità interamente al popolo, che al massimo può demandare ai governi alcune funzioni, le quali non possono però essere decisive, in quanto la sovranità è inalienabile, cioè indivisibile e intrasmissibile in via definitiva. Egli infatti è il teorico della democrazia diretta, dove gli aspetti della delega sono limitati nelle funzioni o addirittura provvisori, cioè limitati nel tempo, tant'è che i parlamentari vengono definiti semplicemente come "commissari del popolo", revocabili in qualunque momento. Essi non potevano essere scelti dal governo né potevano pensare di non dover rendere conto al popolo della loro attività.

In teoria Rousseau abolisce la separazione tra società civile e governo, tra borghese e cittadino, tra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. In un certo senso lo Stato viene assorbito dalla società, in quanto non è altro che l'insieme dei soggetti, cioè del popolo. Tuttavia si tratta soltanto di un patto sociale tra piccolo-borghesi proprietari dei mezzi produttivi, per cui è sbagliata la tesi di Lucio Colletti, secondo cui Marx e Lenin non avrebbero aggiunto nulla a Rousseau, salvo l'analisi delle basi economiche relativa all'estinzione dello Stato (Ideologia e società, ed. Laterza, Bari 1975. vi sono due capitoli in cui parla di Rousseau, chiaramente sotto l'influenza di G. Della Volpe).

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Marx non ha riconosciuto il proprio debito nei confronti di Rousseau probabilmente perché in Germania Hegel considerava Rousseau il teorico dell'individualismo atomistico liberale, e quindi appartenente al giusnaturalismo. Rousseau, in altre parole, non veniva considerato diverso da Fichte.

A Marx Rousseau non poteva apparire molto diverso da Smith e Ricardo, in quanto l'idea d'immaginare uno stato di natura in cui l'uomo è isolato, gli pareva assurda. Per Marx cioè non aveva alcun senso pensare di poter ripristinare lo stato di natura mediante un contratto sociale, proprio perché gli autori di questo contratto, presi individualmente, erano già economicamente indipendenti, padroni dei loro mezzi produttivi e in concorrenza tra loro. E questo gli pareva assurdo.

Ritenere che l'uomo primitivo fosse una specie di Robinson Crusoe l'aveva sempre considerata un'idea ridicola. Gli ideologi borghesi - incluso Rousseau - non avevano fatto altro che applicare al passato dello stato di natura un'ideologia che avrebbe dovuto risolvere i problemi della società capitalistica a loro coeva.

Secondo Della Volpe e Colletti l'egualitarismo di Rousseau non è paragonabile a quello livellatore di Babeuf, in quanto tiene conto dei meriti individuali. Questa cosa sarebbe stata ribadita da Marx nella Critica al Programma di Gotha, laddove afferma che l'applicazione di una norma uguale a persone disuguali è un'ingiustizia. Il principio comunista migliore è "ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni".

Tuttavia Marx pretendeva il riconoscimento sociale dei bisogni, non tanto dei meriti. Rousseau invece vuol tenere più conto dei meriti, per articolare di conseguenza i ranghi sociali in conformità ai servizi resi. Le differenze naturali vanno riconosciute e convalidate dal patto.

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"Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni". Come può funzionare questo principio in maniera continuativa, senza che chi ha capacità superiori alla media lo metta in discussione? Nelle società antagonistiche chi ha capacità elevate pretende speciali riconoscimenti, pericolosi privilegi. Il che, inevitabilmente, si ripercuote sulla soddisfazione dei bisogni.

Se le risorse sono "determinate" e qualcuno ottiene di più a motivo dei suoi meriti, gli altri non possono ottenere soddisfazione adeguata. Ora, non è possibile ovviare a questo inconveniente, che col tempo potrebbe anche diventare molto pericoloso, puntando sullo sviluppo illimitato delle forze produttive, poiché ciò potrebbe danneggiare la natura o potrebbe creare rivalità territoriali tra popolazioni confinanti.

Si deve risolvere il problema di come conciliare meriti e bisogni dando per scontato che le risorse siano circoscritte, determinate. È inevitabile che chi può dimostrare più meriti, pretenda maggiori riconoscimenti. Bisogna anzi riconoscergli qualcosa di più proprio per dissuaderlo dal compiere azioni sconvenienti, lesive degli interessi comuni.

In una comunità democratica, in cui tutti contribuiscono, sulla base delle loro capacità, a soddisfare i bisogni collettivi, si possono riconoscere ai più capaci alcuni particolari poteri riguardanti unicamente la sfera politica, non quella economica.

L'ambito politico però dovrebbe essere gestito sempre da un collettivo e mai da un organo monocratico. Un maggiore potere politico non dovrebbe comportare un maggiore potere economico, poiché ciò creerebbe immediatamente delle disparità sociali. Non si può possedere di più solo perché si hanno maggiori capacità intellettuali.

Si devono poi favorire altre due cose, onde impedire che il riconoscimento di maggiori poteri a chi dispone di maggiori capacità venga considerato inamovibile, a tempo indefinito.

Anzitutto chi dispone di maggiori poteri deve costantemente rendere conto alla comunità di come li esercita. Cioè deve sapere di aver ricevuto un mandato che può essere revocato in qualunque momento.

In secondo luogo tutti devono essere messi nella condizione di poter sviluppare al meglio le proprie capacità. Cioè non possono esserci conoscenze riservate a pochi eletti. Chi più sa ha il dovere morale di trasmettere le proprie conoscenze, abilità, competenze a chi non sa. La formazione dovrebbe essere considerata permanente. Queste due condizioni servono per ottenere un ricambio agli organi di potere.

Un altro aspetto da considerare è che l'uomo e la donna sono fatti per vivere quante più esperienze possibili: non si possono accontentare di quello che sanno o sanno fare. Questo vuol dire che bisogna offrire a tutti la possibilità di "rimotivarsi", cioè di affrontare situazioni inedite, in cui si ha, inizialmente, tutto da imparare. In questa maniera chi aveva potuto beneficiare di ampie considerazioni a motivo delle sue capacità, si può ritrovare, in situazioni del tutto differenti, a fare la parte del novizio. Potrebbe anche essere obbligato dalla comunità ad acquisire nuove esperienze, o l'intera comunità potrebbe essere indotta dalle circostanze a farlo (che è cosa molto facile quando ci si trasferisce da un luogo all'altro).

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 15-06-2015