Rousseau: il terremoto di Lisbona e l'ottimismo

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Rousseau: il terremoto di Lisbona e l’ottimismo

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Giuseppe Bailone

Il primo novembre 1755 un violentissimo terremoto e uno spaventoso maremoto provocano vittime e macerie in Europa e Africa. A Lisbona crollano ottanta edifici su cento e muoiono oltre sessantamila persone su una popolazione di duecentomila. Lo sconcerto è enorme. Voltaire scrive, a caldo, su quel disastro un poema diretto contro l’ottimismo metafisico leibniziano e del poeta inglese A. Pope, padre putativo della formula “Tutto è bene”.1

Il poema volterriano apre un vastissimo dibattito culturale, nel quale interviene, nell’agosto del 1756, anche Rousseau con una lunga lettera a Voltaire, che gli aveva fatto avere una copia manoscritta del suo poema.

“Colpito – ricorda nel libro nono delle Confessioni – nel vedere quel pover’uomo schiacciato, per così dire, dalla prosperità e dalla gloria, declamare nondimeno amaramente contro le miserie della vita, e ripeter sempre che tutto va male, concepii l’insensato progetto di farlo rientrare in se stesso e di provargli che tutto è bene. Voltaire, pur mostrando sempre di credere in Dio, in realtà non ha mai creduto che nel diavolo, perché il suo preteso Dio non è che un essere malefico, il quale, secondo lui, non trova gusto che a nuocere. L’evidente assurdità di tale dottrina è rivoltante, soprattutto in un uomo colmo di beni di ogni genere, che, dal seno della felicità, cerca di far disperare i suoi simili con l’immagine orribile e crudele di tutte le calamità di cui egli è immune. […] In quella lettera lo trattai con tutti i riguardi, tutta la stima, tutta la gentilezza, posso dire, tutto il rispetto possibile. Tuttavia, sapendo che era di un amor proprio terribilmente irritabile, non mandai questa lettera a lui stesso, ma al signor Tronchin, suo medico ed amico con pieni poteri di dargliela, o sopprimerla, secondo quanto ritenesse più conveniente. Tronchin gli diede la lettera. Voltaire mi rispose con poche righe che, essendo infermiere ed ammalato lui stesso, rimandava ad altro momento la sua risposta e non disse una parola sull’argomento. […] Dopo, Voltaire pubblicò questa risposta che mi aveva promesso, ma non me l’ha mandata: essa non è altro che il romanzo Candido del quale non posso parlare, non avendolo letto”.2

Rousseau, nelle sue riflessioni sul terremoto di Lisbona e sulla relativa questione dell’ottimismo, parte naturalmente dal perno di tutto il suo pensiero:

“Tutto è bene quando esce dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”. Ottimismo teologico e pessimismo antropologico.

“Non vedo come si possa ricercare l’origine del male morale se non nell’uomo libero, progredito e di conseguenza corrotto; e quanto ai mali fisici, […] essi sono inevitabili in ogni sistema di cui l’uomo faccia parte. […] Inoltre, credo che di aver dimostrato che, eccetto la morte, che non è quasi un male se non per i preparativi con cui la si fa precedere, la maggior parte dei nostri mali fisici sono ancora opera nostra. Per restare nel vostro tema, e cioè Lisbona, dovete, ad esempio, convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa, e il giorno dopo li si sarebbe visti a venti leghe dalla città, perfettamente allegri come se nulla fosse successo. Invece, sono dovuti restare, abbarbicarsi alle macerie, esporsi a nuove scosse, poiché ciò che lasciavano valeva di più di quello che potevano portar via. Quanti infelici sono morti in quel disastro perché volevano afferrare i propri abiti, o i documenti, o il denaro? Si ignora forse che la vita di un individuo è diventata la sua parte meno importante, e che non vale quasi la pena di salvarla quando tutto il resto è stato perduto?”.

Rousseau vede nel successo biologico dell’umanità la prova evidente che per l’uomo è meglio esistere che non esistere.

È vero, infatti, che noi uomini facciamo di tutto per “aggravare le nostre miserie a forza di belle istituzioni”, tuttavia, “non siamo riusciti, sino ad ora, a perfezionarci al punto da renderci insopportabile la vita, e da farci preferire all’esistenza il nulla. Altrimenti lo scoraggiamento e la disperazione si sarebbero ben presto impossessati della maggior parte di noi, e il genere umano non sarebbe sopravvissuto a lungo”.

Gli uomini, però, quando riflettono sulla questione dell’ottimismo, “dimenticano sempre il dolce sentimento dell’esistenza” e producono teorie non compatibili con quel dolce sentire.

Sulla questione della Provvidenza, Rousseau scrive:

“Indubbiamente questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo, che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà stessa, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto. Credo, spero di valere agli occhi di Dio più della massa di un pianeta; ma se i pianeti sono abitati, come è probabile, per quale motivo varrei ai suoi occhi di più di tutti gli abitanti di Saturno? Si ha un bel deridere queste idee; quel che è certo è che tutte le analogie sono a favore dell’esistenza di quella popolazione, e che contro non vi è se non l’orgoglio umano”.

Rousseau corregge la formula dell’ottimismo Tutto è bene:

“Sarebbe forse meglio dire: Il tutto è bene, o Tutto è bene per il tutto”.

Con questa formulazione appare subito evidente l’impossibilità di portare prove dirette a favore o contro, perché occorrerebbe “una perfetta conoscenza della costituzione del mondo e dello scopo del suo Autore, e questa conoscenza è incontestabilmente superiore all’intelligenza umana”.

L’ottimismo metafisico trova la sua difesa decisiva nei limiti del nostro sapere.

Sull’origine del male, problema che deriva da quello della Provvidenza e della giustizia di Dio, gli uomini ragionano male:

“Primi a danneggiare la causa di Dio sono stati i preti e i bigotti, che non sopportano l’idea che tutto avvenga secondo l’ordine stabilito, ma fanno sempre intervenire la giustizia di Dio per avvenimenti puramente naturali. […] I filosofi, a loro volta, non mi sembrano affatto più ragionevoli, quando li vedo prendersela con il Cielo per il fatto che non sono tranquilli, quando li vedo gridare che tutto è perduto, quando hanno male ai denti, o che sono poveri, o che li hanno derubati, e accollare a Dio, come dice Seneca, la custodia del loro bagaglio”. Qualsiasi evento naturale succeda, “la Provvidenza ha sempre ragione per i credenti, e sempre torto per i filosofi. Può darsi che nell’ordine delle cose umane essa non abbia né torto né ragione, perché tutto dipende dalla legge comune, e non vi è eccezione per nessuno. C’è da credere che gli eventi particolari nulla siano quaggiù agli occhi del Signore dell’universo, che la sua Provvidenza sia soltanto universale, che egli si accontenti di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo spende questa breve vita. […] Se vogliamo pensare a questi problemi in modo corretto, sembra che le cose dovrebbero essere considerate in modo relativo nell’ordine fisico, e in modo assoluto nell’ordine morale, cosicché l’idea più alta che posso formarmi della Provvidenza è che ogni essere materiale sia conformato nel miglior modo possibile rispetto al tutto, e ogni essere intelligente e sensibile nel miglior modo possibile rispetto a se stesso. In altri termini, ciò significa che, per chi sente la propria esistenza, è meglio esistere che non esistere. Ma questa regola bisogna applicarla alla durata totale di ogni essere sensibile, e non ad alcuni istanti particolari della sua durata, quali la vita umana. Il che dimostra sino a che punto il problema della Provvidenza dipenda da quello dell’immortalità dell’anima, alla quale sono felice di credere pur sapendo che la ragione può dubitarne, e da quello dell’eternità delle pene alla quale né voi né io né alcuno che abbia una giusta idea di Dio crederà mai.3

Se riconduco questi molteplici problemi al loro principio comune, mi sembra che tutti dipendano dall’esistenza di Dio. Se Dio esiste, è perfetto; se è perfetto, è saggio, potente e giusto; se è saggio e potente, tutto è bene; se è giusto e potente, la mia anima è immortale, trent’anni di vita sono nulla per me, e sono forse necessari al mantenimento dell’universo. Se mi si riconosce la prima asserzione, non si potranno mettere in dubbio le susseguenti. Se la si nega, non è affatto necessario discutere sulle sue conseguenze. […] Su questo argomento né i pro né i contro mi sembrano dimostrati dai lumi della ragione […]. Le obiezioni, da una parte come dall’altra, rimangono insolubili, giacché fanno perno su cose su cui gli uomini non possiedono alcuna vera idea. Convengo con tutto ciò, e tuttavia credo in Dio così fermamente come non credo in nessun’altra verità, perché credere e non credere sono le cose che meno dipendono da me, perché lo stato di dubbio è troppo violento per il mio animo, perché quando la mia ragione oscilla, la mia fede non può restare a lungo sospesa e prende le decisioni senza il suo sussidio, perché infine mille motivi di preferenza mi attirano verso una teoria più ricca di consolazioni e aggiungono il conforto della speranza all’equilibrio della ragione”.

Rousseau riconosce che la sua è “solo una prova del sentimento”, che può apparire come un “pregiudizio” a chi non sia d’accordo sul principio. “Ma – aggiunge –, con una buona fede forse senza confronti, la sostengo come una insopprimibile tendenza del mio animo, che mai nulla potrà contrastare, di cui sinora non ho da dolermi, e che non si può attaccare se non con crudeltà”.

Per queste ragioni la fede religiosa deve essere libera, non imposta e neppure aggredita con la forza.

“Sono indignato quanto lo siete voi del fatto che la fede di ciascuno non si esplichi nella più perfetta libertà, e che l’uomo abbia l’ardire di controllare l’intimo delle coscienze in cui non deve penetrare, quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la dimostrazione non ha ragion d’essere, e quasi che fosse mai possibile asservire la ragione all’autorità”.

Si può, e sarebbe bene, invece, imporre la “religione civile”.

Torino 12 gennaio 2015

NOTE

1 Putativo perché, in realtà, questa formula è la traduzione volterriana, destinata a molta fortuna, dell’idea centrale del Saggio sull’uomo del 1734 di Alexander Pope, espressa nella formula: “Qualsiasi cosa sia, essa è giusta”, in quanto voluta da Dio.
2 Confessioni, ed. Einaudi, pp. 470-71.
3 Sulla sua paura dell’inferno, durante la vita felice sotto la protezione di Madame di Warens, nel libro VI delle Confessioni (pp. 265-67 dell’edizione Einaudi 1955), Rousseau ha scritto:
“Gli scritti di Port-Royal e dell’Oratorio, essendo quelli che leggevo più di frequente, mi avevano reso mezzo giansenista, e, pur con tutta la mia fiducia, la loro dura teologia qualche volta mi spaventava. Il timore dell’inferno, che sino a quel tempo avevo temuto pochissimo, scoteva a poco a poco la mia sicurezza; e se Mammina non mi avesse acquietata l’anima, quella dottrina spaventosa avrebbe finito per sconvolgermi. Il mio confessore, ch’era anche il suo, contribuiva per la sua parte a mantenermi in equilibrio. Era il padre Hemet, gesuita, vecchio buono e saggio, la cui memoria manterrò sempre in venerazione. […] Sarei curioso di sapere se nei cuori degli altri uomini accadano a volte puerilità simili a quelle che accadono a volte nel mio. Pur vivendo, immerso negli studi, un’esistenza per quanto è possibile innocente, e nonostante tutto quanto mi si era potuto dire, la paura dell’inferno mi agitava ancora. Spesso mi chiedevo: «In quale stato sono? Se morissi in questo istante, sarei dannato?» Secondo i miei giansenisti la cosa era fuori dubbio, ma alla mia coscienza pareva di no. Sempre timoroso e ondeggiante nella crudele incertezza, ricorrevo, per sfuggirle, agli espedienti più ridicoli, per i quali metterei volentieri sotto chiave un uomo se gli vedessi fare altrettanto. Un giorno, meditando intorno a quel triste argomento, mi esercitavo meccanicamente a lanciare pietre contro i tronchi degli alberi, operazione eseguita con la mia destrezza abituale, e cioè senza quasi colpirne nessuno. Nel bel mezzo del magnifico esercizio, mi venne in mente di trasformarmelo in una specie di pronostico per calmare la mia inquietudine. Mi dissi: «Lancerò questa pietra contro l’albero che mi sta di fronte. Se lo colgo, significa salvezza; se no, dannazione». Dicendo così, scaglio la mia pietra con la mano tremante e con un orribile batticuore, ma così felicemente ch’essa colpisce l’albero addirittura nel mezzo; cosa per la verità non difficile, perché mi ero preoccupato di sceglierlo grossissimo e vicinissimo. Da quel momento non misi più in dubbio la mia salvezza. Non so, nel ricordarmi quell’episodio, se ridere o gemere di me stesso. Voialtri, grandi uomini che sicuramente ridete, felicitatevi con voi stessi. Ma non insultate la mia miseria, perché vi giuro che la sento benissimo”.

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999. Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

Due dialoghi. I panni di Dio – Socrate e il filosofo della caverna (pdf) Plotino (pdf) L'altare della Vittoria e il crocifisso (pdf)

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Aggiornamento: 15-06-2015