PASCOLI POLITICO

PASCOLI POLITICO

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Il giovane Pascoli

Mingherlino allora, biondo, piuttosto pallido, presentava un insieme di timidezza e di spavalderia; col cappello storto, con una cravatta rossa fiammante si atteggiava un po' a rivoluzionario, mentre aveva pudori da fanciullo, che lo facevano arrossire con la più grande facilità.
(Giulia Cavallari, compagna di studi di Giovanni Pascoli)


Premessa

Quando in gioventù si è stati rivoluzionari, perché di idee autenticamente democratiche o addirittura socialiste, e ad un certo punto ci si accorge che i propri ideali non sono realizzabili, almeno non come si sarebbe voluto, e ci si comincia a rassegnare, dandosi delle motivazioni reputate "oggettive", le alternative, se si vuole restare un minimo coerenti con se stessi, diventano due: una è quella dei classici del marxismo (Marx ed Engels), che puntarono sull'analisi scientifica delle contraddizioni del capitalismo; l'altra è quella sentimentale, che mira invece a scuotere le coscienze usando argomenti poetici o narrativi, in cui il cuore prevale sulla mente. E fu questa la strada scelta dal Pascoli, che ebbe precedenti molto illustri, da lui assai studiati, come Dante e Manzoni, ma se ne potrebbero citare a volontà nell'ambito della letteratura italiana, che, come quella russa, s'è sempre fatta veicolo di idee politiche.

Raramente l'Italia degli ultimi due secoli conobbe lo spirito indomito dei rivoluzionari russi, che non si lasciavano impressionare né dal carcere duro della Siberia né dalle esecuzioni capitali. Il fatto è che l'Italia, pur essendo ancora, al tempo del Pascoli, un paese prevalentemente contadino, aveva conosciuto, sin dal Mille, uno sviluppo di idee e comportamenti borghesi, che andavano a incidere negativamente sulle istanze di liberazione. E questo nonostante che la stessa borghesia pretendesse di costituire un'alternativa alla classe possidente dell'aristocrazia, laica ed ecclesiastica.

Il giovane Pascoli, dopo una fase anarchico-insurrezionalista, divenne un socialista rivoluzionario perché, pur provenendo dalla borghesia rurale, s'era improvvisamente trovato declassato, sul piano sociale, a causa della morte del padre e dell'incapacità gestionale di chi gli subentrò.

Il suo casato volle comunque assicurargli un'istruzione superiore e, grazie a una borsa di studio, persino universitaria, ma se egli fosse vissuto in un ambiente del tutto contadino, il suo destino, dopo il delitto paterno, sarebbe stato quello del bracciante rurale o dell'operaio di fabbrica, a meno che non avesse voluto fare il teologo tra le file del clero.

Studiando autonomamente egli invece poté svolgere il ruolo dell'intellettuale di estrazione piccolo-borghese, avvicinandosi alle idee che in quel momento di decollo del capitalismo industriale gli apparivano le più democratiche: non quelle mazziniane che, per quanto repubblicane e anticlericali fossero, non recepivano la natura dei conflitti sociali, ma quelle socialiste, dapprima nella forma teorica dell'anarchismo bakuninista, poi in quella pratica del socialismo rivoluzionario, che avrebbe dovuto servirsi degli apparati statali per far valere, in un periodo di transizione, gli obiettivi della rivoluzione.

Il giovane Pascoli visse in un periodo politicamente molto vivace, paragonabile al decennio che va dal 1968 al 1977. L'Associazione internazionale dei lavoratori, prima organizzazione laica non statuale della storia, era stata costituita a Londra il 28 settembre 1864 durante un comizio di solidarietà con la Polonia oppressa. Il programma e lo statuto, elaborati da Marx, indicavano gli obiettivi dell'autoemancipazione, della collaborazione internazionale e della conquista del potere politico da parte del proletariato. L'Associazione, dopo un primo successo a livello europeo, fu poi lacerata da forti contrasti sulla strategia di lotta, che opposero i seguaci di Marx prima a quelli di Proudhon e Mazzini, poi a quelli di Bakunin e Blanqui. Dopo la guerra franco-prussiana del 1870 e la fallimentare conclusione della Comune di Parigi del 1871, il dissidio divenne insanabile e nel quinto congresso tenutosi all'Aia nel settembre 1872 fu decretata l'espulsione degli anarchici bakuniniani, i quali si raggrupparono nell'Alleanza della democrazia socialista, fondata da Bakunin a Ginevra nel 1868. Riunitisi per la prima volta nel 1872 a Saint-Imier, essi tennero in vita fino al 1877 questa Internazionale cosiddetta "antiautoritaria", in quanto contraria a qualunque funzione dello Stato. Il consiglio della Prima Internazionale deliberò invece all'Aia di trasferire la propria sede a New York e quattro anni dopo, al congresso di Filadelfia del 1876, decise il definitivo scioglimento dell'Associazione. Nel pensiero di Marx essa aveva ormai assolto il suo compito e doveva perciò dar luogo allo sviluppo dei partiti operai e socialisti nei singoli paesi.

Il giovane Pascoli, dunque, fu protagonista, prima in Romagna poi in Emilia, della diffusione delle prime idee anarchiche e socialiste apparse sul territorio nazionale. Quando abbandonò la politica attiva per darsi totalmente agli studi e all'insegnamento, trasformò gli ideali del socialismo rivoluzionario in un'esigenza di giustizia dell'uomo naturale, cioè dell'uomo che deve anzitutto sviluppare i propri sentimenti originari, rinvenibili più facilmente nella coscienza di un bambino, che ancora nulla sa della proprietà privata e della lotta di classe, un fanciullo che ha più possibilità di restare se stesso, puro, innocente, quanto meno si allontana dalla natura.

Il socialismo del Pascoli maturo può essere definito come umanitario e naturalistico, cioè come la prosecuzione, in un certo senso, del naturalismo democratico di Rousseau. Il fanciullino non è che la coscienza dell'Emilio, passata attraverso lo sviluppo delle idee socialiste, una coscienza che sicuramente difettava di senso della politica e della storia.

1 - Fase giovanile

Il primo interessamento per la politica Pascoli lo maturò a Rimini, quando frequentava, nell'anno scolastico 1871-72, la classe seconda del liceo Gambalunga, dove era arrivato dopo essere stato tolto, insieme ai fratelli, dal collegio di Urbino, troppo costoso per le loro finanze dissestate, dopo l'assassinio del padre Ruggero e la scriteriata amministrazione dei beni della famiglia da parte del tutore. Il fratello Luigi gli era appena morto di meningite.

A Rimini egli già dichiarava agli insegnanti di sentirsi leopardiano e, privatamente, nelle lettere, di professare l'ateismo.

Il caso volle che proprio in quella città si tenne, nell'agosto 1872, il primo congresso dell'Internazionale nella penisola, in cui praticamente il movimento anarchico di Bakunin si costituiva in forma ufficiale, distaccandosi dalla democrazia mazziniana, rivelatasi in tutta la sua pochezza nell'interpretazione dei fatti della Comune di Parigi, e dalle idee del socialismo scientifico di Marx ed Engels, che giudicavano "autoritarie", in quanto miranti a servirsi delle leve dello Stato per ostacolare la reazione borghese dopo la rivoluzione proletaria.

Il movimento anarchico, favorevole a un'insurrezione armata contro il governo sabaudo, riteneva che il popolo potesse essere indotto a insorgere mediante gesti clamorosi, come p.es. il regicidio, l'attentato dinamitardo contro le istituzioni politiche o poliziesche, il sacrificio eroico di qualche martire della libertà.

A testimonianza che qualcosa dell'ideologia anarco-socialista rifluì nei suoi studi, vi sono una canzone dell'ottobre 1872, scritta in occasione delle nozze di Anna Maria Torlonia e Giulio Borghese, nonché la satira Scartabelli di Nebulone scrittor di Romanzi, contro uno scrittore-giornalista dell'epoca, tale Giuseppe Rovani, molto venale e servile, gran carrierista.

Pur trovandosi molto bene nel riminese, il fratello maggiore, Giacomo, che fungeva da capofamiglia, ritenne opportuno, per contenere le spese, trasferirlo al liceo degli Scolopi di San Giovannino, in Firenze. Fu un'esperienza tristissima, con pessimi risultati scolastici, a parte italiano latino e greco, dove sempre eccelleva, al punto che dovette ripetere l'anno presso il liceo Monti di Cesena, dove ottenne la licenza nel 1873, l'anno in cui poté iscriversi al Corso di Belle Lettere dell'Università di Bologna, dopo aver vinto una borsa di studio, insieme ad altri cinque studenti, sotto la direzione del Carducci.

I primi due anni bolognesi furono abbastanza tranquilli, pur nelle ristrettezze economiche. Leggeva assiduamente V. Hugo, De Musset, Shakespeare, Poe, Hartmann, Herzen, Bakunin e gli storici contemporanei, Ferrari, Michelet e Quinet. Conosceva perfettamente (e non è un'esagerazione) sia il latino che il greco e leggeva tranquillamente testi in inglese e francese. Il suo docente preferito era Carducci. S'interessava non solo di letteratura ma anche di politica, come risulta dal fatto che nel 1875 lo si vede tra i dimostranti inveire contro il Ministro dell'Istruzione Ruggero Bonghi, in visita a Bologna per rendere più severi gli esami biennali. Fu in quell'occasione che, dopo il fermo e l'interrogatorio, perdette la borsa di studio.

Nell'agosto di quell'anno era stato arrestato l'imolese Andrea Costa, fondatore, insieme ai braccianti rurali, del socialismo rivoluzionario romagnolo, ch'era suo amico e compagno di lotta. Proprio negli anni 1874-75 il giovane Pascoli pubblicò le sue prime liriche su riviste letterarie come "Pagine sparse" e "I nuovi Goliardi", sostenuto, in questo, dal Carducci, suo ammiratore. Nella poesia In morte di Alessandro Mori emerge con forza il suo ateismo.

Tuttavia il 1875 dovette essergli un anno piuttosto drammatico, visto che, sprovvisto com'era di denaro, si vide costretto a interrompere gli studi, vivendo miseramente sino al 1880, e forse non fu un caso che proprio in tale quinquennio egli maturasse una più intensa partecipazione al movimento socialista rivoluzionario. Il proscioglimento del Costa da tutte le accuse (era stato difeso anche dal Carducci), determinerà, a partire dal 1876, un'intensificazione degli incontri del Pascoli con gli internazionalisti. Famose risuonarono le parole che il Costa, a proprio discarico, pronunciò ai giurati della Corte d'Assise: "non è già l'emancipazione della classe operaia solamente quella per cui noi ci adoperiamo, ma l'emancipazione intera e completa del genere umano: perché se le classi operaie devono emanciparsi dalla miseria, le classi privilegiate devono emanciparsi da profonde miserie morali". Ad ascoltarlo non vi era, tra gli studenti che diventeranno poi famosi come politici o come letterati, il solo Pascoli, ma anche Turati, Prampolini, Bissolati, Ferri...

In quello stesso anno, in cui peraltro gli morì l'amato fratello Giacomo, Pascoli pubblicò un manifesto a sfondo politico sul giornaletto "Colore del tempo", firmato con lo pseudonimo Gianni Schicchi. Allora aveva intenzione di pubblicare un romanzo nichilista, I dinamisti, ma la chiusura forzata del giornale glielo impedì. In compenso egli partecipò, sempre a Bologna, al congresso della Federazione emiliano-romagnola dell'Internazionale, presieduto da Costa, il quale, nei primi mesi del 1877, aveva ripreso la pubblicazione del giornale "Il Martello", che negli anni precedenti aveva stampato a Fabriano con Napoleone Papini.

In uno dei primi numeri del "Martello", Pascoli, ch'era già interno alla redazione, pubblicò un sonetto politicamente impegnato, La morte del riccio. Il giornale verrà soppresso all'undicesimo numero. Collaborava anche a "Il Nettuno" di Rimini.

Quando Alceste Faggioli morì di tisi, in seguito alla lunga prigionia, Pascoli lo sostituì nella funzione di segretario della Federazione bolognese, nel biennio 1876-77. Nell'aprile del '77, dopo l'arresto di una banda insurrezionale beneventana, capeggiata da Cafiero (il primo a scrivere in Italia un compendio del Capitale, edito sulla "Plebe", il giornale di Lodi, apprezzato da Marx ed Engels, con cui la redazione era in contatto), a Bologna scattarono numerosi arresti e si dovette predisporre la fuga di Costa all'estero.

Sciolta per decreto l'Associazione Internazionale, Pascoli, Gian Battista Lolli e altri si riorganizzarono segretamente. Intanto il preside del liceo Comunale di Bologna si lamentava col Carducci per le continue assenze del suo raccomandato, divenuto professore supplente.

Nel giugno 1878 gli esponenti più in vista del socialismo rivoluzionario di Romagna chiedevano ai bolognesi di costituire definitivamente una federazione, eleggendone i rappresentanti. I manifesti politici di questa federazione bolognese, alla cui stesura ovviamente non poteva essere estraneo il Pascoli, venivano giudicati dalla Questura chiaramente sovversivi. Anzi il prefetto di Bologna sosteneva che le sezioni internazionaliste di Forlì, Ravenna, Faenza, Imola e Lugo stavano per convergere sulla città di Bologna e l'organizzatore di questa azione federativa era proprio "il noto Pascoli".

Nell'ottobre dello stesso anno egli partecipò a una riunione in cui si decise che all'arrivo del re Umberto I in stazione, lo si sarebbe dovuto fischiare: una cosa da nulla rispetto all'intenzione che ebbe l'anarchico Passannante, il 17 novembre, di assassinarlo a Napoli, senza però riuscirvi. L'Ode a Passannante, scritta appunto dal Pascoli, fu sempre rifiutata e misconosciuta dalla sorella Mariù, che curò il lascito testamentario del fratello.

Nel gennaio 1879 la nuova federazione bolognese incaricò Pascoli di dirigere il nuovo giornale socialista. Nel febbraio dello stesso anno si tenne a Borello di Cesena una riunione segreta che indurrà le forze dell'ordine a organizzare il suo assiduo pedinamento.

Dopo l'assoluzione di Cafiero, Malatesta e altri imputati per i fatti di Benevento, furono di nuovo arrestati in massa nel 1879 gli internazionalisti di Bologna, Imola, Cesena, Rimini, Modena..., seguiti dai processi per direttissima nel settembre di quell'anno. Pascoli fu arrestato quando il suo gruppo bolognese di appartenenza, seguendo i carrozzoni che dal Tribunale di Bologna riportavano i detenuti in carcere, emise grida di protesta e di solidarietà.

Da una nota del Ministero dell'Interno alla Prefettura di Bologna risulta ch'egli era conosciuto anche a Ginevra, come amico personale di Andrea Costa, il quale, infatti, dopo la prigionia francese del 1879, era riparato a Lugano, da dove chiedeva ai compagni romagnoli di passare dallo spontaneismo anarchico di Bakunin alla rivoluzione popolare socialista, coinvolgendo anche gli strati sociali non espressamente proletari, che avrebbero dovuto servirsi delle leve dello Stato per bloccare la resistenza dei capitalisti e degli agrari. La proposta, scritta su "La Plebe", venne accettata, tanto che nel 1881 nascerà a Rimini il partito socialista rivoluzionario di Romagna, che diffonderà poi i propri ideali in tutta la nazione, portando Costa a diventare il primo deputato socialista in Parlamento.

Arrestato per grida sovversive e oltraggio ai carabinieri, Pascoli dovette scontare tre mesi e mezzo di carcere, duranti i quali si mise a studiare il tedesco, partendo dal Faust di Goethe. Al suo processo del dicembre 1879 intervenne come testimone difensore lo stesso Carducci. Il Pubblico Ministero non poté che ritirare l'accusa e rimetterlo in libertà.

Da allora però il Pascoli, pur cercando di non rinnegare mai la sua fede socialista, non parteciperà più alla vita politica attiva. Anzi fu lo stesso Carducci a convincerlo a riprendere gli studi, confidando nelle sue grandi capacità di filologo e latinista. Carducci ovviamente non poteva sapere che proprio in virtù di questi studi il Pascoli gli diventerà enormemente superiore.

Poco prima di laurearsi, nel giugno del 1882, con una tesi su Alceo, in letteratura greca, col massimo dei voti e persino con una rarissima lode in filologia, dopo ben nove anni di vita universitaria, Pascoli poté beneficiare di una nuova raccomandazione del Carducci, indirizzata questa volta al preside del liceo di Teramo, affinché lo assumesse come insegnante di italiano, latino e greco, essendo "ottimo e valentissimo".

Nello stesso anno lo troviamo redigere un articolo sullo stesso Carducci per il giornale triestino "L'Eco del popolo", i cui redattori, sudditi e ribelli dell'imperatore austriaco, poterono pubblicarlo solo dopo trent'anni. Anche la biografia pascoliana del Carducci rimase per molto tempo inedita.

Quando nel dicembre di quell'anno Guglielmo Oberdan fu impiccato per aver attentato alla vita dell'imperatore Francesco Giuseppe, egli inviò al Carducci un'offerta per il monumento, dichiarando che sarebbe stato disposto a cedere un quarto del proprio stipendio a favore di qualunque iniziativa ricordasse il nome di questo "eroico fratello", ma il Carducci gli rispose che il governo aveva proibito qualunque cosa in suo favore.

Ottenuto l'incarico, il suo primo pensiero andò alle sorelle Ida e Maria, che dai tempi della tragedia del padre si trovavano relegate presso il convento delle agostiniane di Sogliano al Rubicone: l'idea era quella di ricostituire insieme a loro una piccola parte di quel nucleo familiare ch'era stato sconvolto sedici anni prima. E se nel corso del questo universitario non una parola egli scrisse sulla tragedia che aveva colpito la sua famiglia, la sua prima pubblicazione, Myricae, sarà invece tutta incentrata su questo argomento.

Pascoli vivrà costantemente rivolto al passato, rinunciando persino a sposarsi, anche perché l'ingombrante peso della sorella Mariù gli impedirà sempre di compiere il passo decisivo.

2 - Fase matura

Nel n. 13/2001 della "Rivista pascoliana", Mario Pazzaglia, parlando delle Myricae, ha saputo cogliere perfettamente il punto di transizione dal giovane Pascoli politico a quello maturo letterario, ovvero dal Pascoli social-rivoluzionario e internazionalista a quello populistico e nazional-patriottico.

Le poesie di quella raccolta "rappresentano - egli afferma - un'espressione matura, per il loro pathos intimamente aggressivo, anche se ormai soverchiato, sul piano ideologico, da una disperazione esistenziale che non consente di tramutare la denuncia in speranza e resterà sempre di più la causa delle future aporie del pensiero socio-politico pascoliano"(p. 200).

D'altra parte Pazzaglia, e non a torto, non ha mai creduto che il Pascoli giovane, pur essendo passato dall'esperienza anarchico-bakunista a quella marxista rivoluzionaria, avesse il temperamento adeguato per una militanza attiva in un partito proletario combattivo. Pascoli non sarebbe stato in grado di sostituire un Andrea Costa.

E Pazzaglia lo dice espressamente: Pascoli dovette avvertire una certa difficoltà a seguire i giovani rivoluzionari in modi di vita lontani dal persistere in lui d'un certo conformismo borghese (le sorelline disperate per la sua carcerazione; il silenzio, anche in seguito, di loro e di lui sull'episodio..."(ib.). E' difficile però dire se il Pascoli maturo abbia rinunciato di più al lato rivoluzionario delle sue idee socialiste giovanili che non al all'aspetto bohémien con cui le viveva.

Indubbiamente la migliore poesia pascoliana impegnata in senso socio-politico la si ritrova solo all'interno della raccolta Myricae, poiché successivamente, quando si pretende di dare ad essa una "funzione civilizzatrice e di rivelazione del vero", come nei Nuovi poemetti e in Odi e Inni - sostiene sempre Pazzaglia -, Pascoli finisce col cadere in "un pericoloso terreno estetizzante" (specie col suo mito del "poeta-vate"), in "mitologie esasperate e arbitrarie", ivi incluse le visioni apocalittiche che, in Una sagra, vengono mostruosamente concentrate in un unico potere politico ed economico e persino linguistico, in grado di fagocitare qualunque minima espressione della libertà umana. Una visione, questa, che ispirerà il drammatico film Metropolis di Fritz Lang.

Dell'ideologia anarco-socialista al Pascoli resterà immutato l'ateismo, che peraltro aveva già maturato leggendo Leopardi. Il socialismo che si trascinerà dietro, praticamente sino alla morte, non andrà oltre una vaga esigenza intellettuale (quella p.es. di difendere gli oppressi dalle contraddizioni del sistema, cfr Gli eroi del Sempione), un sogno irrealizzabile (p.es. difendere la civiltà pre-capitalistica o meglio pre-industriale, in quanto il Pascoli maturo era favorevole alla piccola proprietà contadina), in una parola degli ideali "umanistici", cercando di non esporre troppo la propria ingenua spontaneità, il proprio candore innocente, la propria purezza d'animo ai condizionamenti della vita sociale, sempre più borghese, industrializzata, capitalistica, politicamente autoritaria ed economicamente aggressiva.

Di qui tutta la poetica e l'ideologia, anzi la psico-linguistica del "fanciullino", che ricorda naturalmente quella dell'Emilio di Rousseau, ma anche la filosofia di Kant e tutte le teorie psico-filosofiche (di Hartmann, Schopenhauer, Herbart) dedicate all'inconscio, visto non come un sacco dove nascondere le proprie frustrazioni (questa sarà la posizione freudiana), ma come una sorgente d'acqua pura, il cui deserto circostante rende l'attingere sempre più difficoltoso. Lo stesso Leopardi serviva allo scopo, poiché da questi viene al Pascoli il gran rispetto della classicità greco-latina, che per entrambi rappresentava l'infanzia dell'umanità intellettualmente evoluta.

L'idea del "fanciullino" (per la quale il Croce non ebbe riserve nel collocare Pascoli tra i decadenti) è stata la scoperta della "psiche primordiale e perenne", una psiche però idealmente impegnata, in quanto il poeta, se vuole porsi al servizio dell'umanità, non può non essere "socialista", benché non debba necessariamente militare in un partito. Ne L'avvento lo scrive in maniera esplicita: "socialista dell'umanità, non di una classe"; "non sono una bestia da ubbidire alla legge della lotta".

E' per questo che lo sguardo del Pascoli è costantemente rivolto al passato, e quando egli tenta d'interpretare il suo presente, proponendo un rimedio ai suoi mali, la lettura resta sempre inadeguata, specie sul versante storico-sociale. Al Pascoli sublime, lirico, commovente, così avvinghiato alla natura, così pronto a far sue le sofferenze altrui, così generoso e idealista, ha sempre fatto difetto l'interpretazione oggettiva della realtà, la capacità di vederla nei suoi inscindibili nessi di struttura e sovrastruttura.

Pur militando per un decennio nel socialismo, non s'è mai interessato di analisi economico-sociale: il passaggio dall'anarchismo al socialismo non ha in tal senso sortito alcun effetto; anzi si può dire che pur avendo accettato l'idea che la rivoluzione non potesse essere oggetto di qualche esaltato, ma solo dell'intero popolo che la sentisse come indispensabile, egli ha continuato per tutta la vita a sentirsi, proprio come un anarchico, estraneo sia alle istituzioni che alle organizzazioni che costruivano un'alternativa al potere sabaudo. "Il suo socialismo campagnolo - ha scritto P. Rondinelli - fu spesso individuale, appartato e lontano dalle ambizioni cittadine dell'organizzazione partitica"(in "Rivista pascoliana", n. 16/2004, p. 221). L'ora di Barga è eloquente, in tal senso, benché in una lettera a Luigi Mercatelli avesse confessato di preferire essere considerato un grande poeta in una scuola coloniale, per ispirare "l'italianità nel cuore dei nostri pionieri", che non un semplice docente formatore di maestri alle scuole ginnasiali e liceali. Pascoli non amava fare l'insegnante e, consapevole della sua grandezza come poeta, gli sembrava d'essere incredibilmente sprecato.

Per lui il Parlamento avrebbe dovuto essere privo di partiti (vedi la prefazione a Odi e Inni ma anche il discorso Garibaldi avanti la nuova generazione) e quando si parlava di abolizione della proprietà privata, lui proponeva d'intenderla nel senso non della proprietà in sé ma solo della sua "eccessiva ricchezza", in quanto a ogni individuo singolo andava garantita una proprietà personale adeguata ai propri bisogni vitali, in cui poter sentirsi libero, senza nuocere alla libertà altrui.

Pascoli - come s'è detto - difendeva la piccola proprietà contadina, quella pre-industriale, con la sua cosiddetta "politica della siepe" (per la quale l'amico Severino Ferrari si sentì tradito), senza rendersi conto che questa forma di proprietà, proprio perché incapace di difendersi collettivamente dall'incalzare dell'industria, veniva sempre più, già ai suoi tempi, spazzata via dall'ingresso del capitalismo nelle campagne. Pascoli non ebbe mai in mente che la migliore proprietà contadina sarebbe stata quella delle antiche comunità di villaggio, liberate naturalmente da ogni giogo servile: cosa che la rivoluzione borghese volle sì fare ma per sottoporle a un nuovo più pesante giogo, quello del capitale.

Per certi versi il Pascoli maturo è regressivo persino rispetto a molti teorici del socialismo utopistico, che pur vedendo, come lui, la forsennata accumulazione capitalistica foriera di decadenza sociale e umana, di rivolte e di guerre, non ritenevano che la mera conservazione del passato fosse l'unica soluzione possibile per risparmiarsi questi disastri.

Quando critica il marxismo non lo fa semplicemente per negare l'insussistenza di un "primato" dell'operaio sul contadino, cioè per indurre i teorici del socialismo a non considerare la questione agraria meno importante di quella industriale, ma lo fa in maniera ideologica: il materialismo storico-dialettico gli appariva in sé una forma di "bestialismo storico", che certamente non avrebbe permesso il passaggio dalla ferinità primitiva dell'homo sapiens alla pietà e ai sentimenti dell'homo umanus (cfr La favola del disarmo, Pace!, L'èra nuova, L'Avvento).

"La visione pessimistica e pietistica della realtà umana, concepita come destino, distolsero progressivamente il poeta da ogni fiducia nell'intervento attivo, di lotta sociale, lo isolarono in una solitudine astratta di poeta banditore del vero e persuasore, al più, d'una disarmata bontà", così l'acuto Pazzaglia ("Rivista pascoliana", n. 13/2001, pp. 207-8).

Sarà proprio questa forma sentimentale data al proprio socialismo che lo indurrà a quella caduta di stile che fu il discorso sull'impresa libica pronunciato nel teatro di Barga nel 1911 (La grande proletaria s'è mossa), preceduto di poco dal discorso L'Avvento, con cui auspica un abbraccio fra capitalisti e proletari, secondo le regole del "socialismo del cuore", interclassista, senza però cedimenti all'ideologia cristiana, in quanto il poeta si pone come "umanista laico": in Italia la libertà ha cominciato a farsi strada - dirà nelle Canzoni di Re Enzio - grazie non alla chiesa bensì ai Comuni.

Non dobbiamo però interpretare il colonialismo del Pascoli coi criteri rigorosi di oggi. Un uomo che vedeva negli antichi Romani non dei "conquistatori" ma dei "civilizzatori", non poteva non vedere negli italiani a lui coevi i nuovi civilizzatori delle tribù berbere e dei popoli del Maghreb, oppressi dai turchi. D'altra parte anche il marxista A. Labriola non aveva dubbi sulla natura progressiva del colonialismo italiano, specie se messo a confronto con quello ottomano.

In Pascoli la difesa dell'espansionismo italico viene fatta in un momento in cui quella della piccola proprietà privata non era per lui sufficiente a garantire neppure il minimo vitale, in quanto la diffusione prepotente dell'industrializzazione borghese comportava solo disoccupazione ed emigrazione (cfr Una sagra). Per lui non aveva senso parlare di "colonialismo" quando gli italiani che sarebbero emigrati in Libia erano tutti contadini cacciati dalle loro terre e che avrebbero potuto soltanto far progredire, col loro lavoro e il loro ingegno, quegli aridi deserti e quelle primitive popolazioni. Certo, non avrebbe mai potuto immaginare gli eccidi che vi si sarebbero compiuti, per i quali ancora oggi ci vengono chiesti sostanziosi risarcimenti.

Sarebbe un errore tuttavia pensare ch'egli non ambisse a porsi come "poeta nazionale", in sostituzione del garibaldinista Carducci. Fu proprio la sua commemorazione di Felice Cavallotti, nel 1899, che diede l'avvio all'idea di trasmettere, attraverso la poesia, un messaggio etico-pedagogico-politico, senza fare dell'io un protagonista che si sovrappone alla realtà, ma una semplice parte del tutto, quindi in senso implicitamente anti-dannunziano, essendogli del tutto estranei i concetti di "razza" o di "nazione eletta" e avendo egli in orrore gli interessi militaristici della borghesia. La politica di potenza fondata sul superomismo e il progresso posto sullo scientismo positivistico li rigettava senza remore (cfr La favola del disarmo, Una sagra, Pace!, Bismarck). Pazzaglia ritiene debbano anzi essere difese le sue posizioni progressiste a favore dei Boeri, contro l'imperialismo britannico.

Insomma, se di socialismo è impossibile non parlare - così si potrebbe riassumere la posizione pascoliana - che lo si pensi come semplice sostituto del cristianesimo, come una sorta di religione laica per l'umanità, fatta di sentimenti di fraternità e di amor patrio (ivi inclusi quelli inerenti alla "civilizzazione" dei popoli oppressi, extra-nazionali). In La messa d'oro, L'Avvento, Allecto il socialismo del cuore si oppone nettamente a quello del cervello, non gli è complementare: il "gelido marxismo" avrebbe dovuto parlare "più d'amore e meno di plus-valore, più di sacrifizio che di lotta, più di umanità che di classi".

In Pascoli Rousseau diventa socialista utopico. Le contraddizioni antagonistiche possono essere risolte solo con la persuasione di tutti, dimostrando la superiorità del bene con l'esempio, lasciando quindi la possibilità di opporvisi. Nell'orazione commemorativa Nel cinquantenario della patria viene auspicata la formazione di uno Stato interclassista, supervisore di tutti gli interessi particolari, in grado di mediarli saggiamente, in maniera diversa dall'autoritarismo insopportabile del regno sabaudo divenuto italico.

Secondo Gramsci Pascoli fu il leader del nazionalismo italiano, "il creatore del concetto di nazione proletaria, e di altri concetti poi svolti da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista"(Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 209). L'eroe indiscusso di questo socialismo umanitario era Garibaldi, che non aveva mai combattuto per un partito, ma per la libertà e che quando vinse non divenne un Napoleone, ma si ritirò a vita privata, a contatto con la natura, nella consapevolezza d'aver raggiunto il proprio obiettivo, quello appunto di porre le condizioni perché un valore possa essere vissuto degnamente, lasciando ad altri il compito di concretarlo nel migliore dei modi. Così nelle liriche Odi e Inni, Poemi del Risorgimento, Poemi italici, L'eroe italico, Il ritorno a Caprera.

Sarà la prima guerra mondiale a rendere evidente che le idee politiche del Pascoli erano assolutamente inadeguate all'affronto dei problemi sociali della nazione. Solo che l'alternativa che gli si volle opporre - il Futurismo, che troverà nel fascismo l'inevitabile sbocco politico - renderà ancora più sentita, a motivo dei disastri che avrà provocato, l'esigenza di un socialismo autenticamente democratico.

3 - In sintesi

Al socialismo eversivo Pascoli preferisce quello della carità (in veste laica), cioè quelle forme di solidarismo puntuale e individuale che, una volta moltiplicate, diventano costume sociale. Nel suo discorso di Messina, L'Avvento, del 1901, questo è molto chiaro.

Pascoli è per la piccola proprietà rurale, per le autonomie municipali, scolastiche, universitarie..., un seguace, senza saperlo, dello Stato federalista di Cattaneo e Ferrari, salvo che questi sponsorizzavano le idee della borghesia, non quelle dei contadini, a meno che questi non diventassero imprenditori agricoli.

Egli si sentiva un patriota della nazione proletaria (ancora largamente contadina e analfabeta), che si deve riscattare da secoli di miseria e di oppressione politica. Il suo vuole essere una sorta di socialismo nazionale della piccola proprietà rurale, che permette di condurre un'esistenza dignitosa, senza inutili lussi. Idea, questa, che diventava nettamente utopistica quando per realizzarla non si chiamava in causa la necessità di una riforma agraria che spezzasse il latifondo e ridistribuisse gratuitamente le terre agli ex servi della gleba.

Pascoli è commovente come Renato Fucini e soprattutto come De Amicis, e ha una sensibilità molto forte per il mondo rurale, che non s'era vista, prima di lui, in altri poeti-vati per la nazione come Foscolo, Carducci, D'Annunzio... e che non si vedrà neppure dopo. Quando muore Carducci è il Pascoli che raccoglie la responsabilità della memoria risorgimentale, cioè l'impegno a migliorare le cose, lasciate irrisolte dall'unificazione nazionale, a completare ciò che non s'era potuto o voluto fare. Lui però sente di non avere le forze sufficienti, si sente politicamente un nano rispetto ai giganti che hanno realizzato l'unificazione.

Pascoli si rende conto che l'unificazione, anche se voluta per nobili ideali, di fatto viene gestita da una borghesia imprenditoriale e commerciale che come prima preoccupazione ha quella di massimizzare i profitti. Una tale consapevolezza ovviamente non si poteva avere quarant'anni prima, quando l'ideale della patria unita, libera dallo straniero, dai Borboni feudali e dalla Chiesa temporale e reazionaria, sembrava essere sufficiente per realizzare la democrazia.

Come il Verga, Pascoli sapeva bene che gli ideali risorgimentali erano stati traditi dalla borghesia e s'illudeva che questa potesse essere distolta, almeno di tanto in tanto, dalla corsa sfrenata alla ricchezza (che si riteneva necessaria per recuperare il tempo perduto rispetto ad altre nazioni europee), semplicemente toccandola nei sentimenti, facendola commuovere di fronte alle situazioni angoscianti, disperate, dalle quali potevano emergere anche atti di eroismo, di supremo sacrificio. Con lo strumento della poesia, in cui la sua penna raggiunse vette ineguagliate, egli era convinto di poter suscitare una disposizione d'animo favorevole agli oppressi. Gli intellettuali cattolici, se si esclude il Manzoni (che comunque restava, per le sue simpatie liberali, un "eretico" per la chiesa), prenderanno a usare questo metodo soltanto molto tempo dopo.

Oggettivamente il Pascoli era un ingenuo, tanto più che il suo socialismo non era neppure cristiano, cioè non aveva alle spalle una struttura organizzata che col proprio peso potesse influenzare i poteri dominanti. Da molto tempo aveva smesso d'essere un uomo politicamente impegnato: il suo socialismo giovanile era un'esperienza lontana, rimasta come vaga e inconscia aspirazione per un mondo migliore. Il suo è un socialismo del desiderio, non della pratica.

D'altra parte il cattolicesimo-romano, ancora prevalentemente legato al perduto potere temporale del papato, è lontanissimo dalle sue sensibilità. Si misura coi Savoia sul piano meramente politico, continuando a rivendicare privilegi perduti. Non è interessato a battezzare cristianamente i valori laici del socialismo pascoliano e, quando vorrà iniziare a farlo (p.es. con Clemente Rebora o Giovanni Testori) sarà troppo tardi per potersi riferire in maniera organica al mondo contadino.

Al tempo del Pascoli il cattolicesimo dominante appartiene a un ente che vuole avere con le istituzioni statali un rapporto esclusivamente politico. Per trovare un cristianesimo "sociale", vicino alle idee del Pascoli, bisogna andarlo a cercare nella società civile, là dove si formano i primi germi del movimento cattolico, ma anche in questo caso va detto che quando i cattolici si misurano con la società emergente, lo fanno sempre per rivendicare uno spazio in quanto "cattolici", prima ancora che come "cittadini nazionali". Questo modo di porsi per il Pascoli era inaccettabile.

D'altra parte non poteva esserci alcuna intesa col socialismo, neppure con quello più riformista di Turati, proprio perché questo veniva principalmente visto nella sua caratterizzazione laicista. E quando si tratterà di scegliere, già con la guerra di Libia, se stare dalla parte del socialismo democratico e pacifista o del capitalismo piemontese, i cattolici non avranno dubbi da che parte stare. Il patto Gentiloni del 1912 sarà già un tentativo eloquente di riconciliazione. Persino alcuni esponenti socialisti, come p.es. Labriola e lo stesso Pascoli, in occasione della guerra libica, influenzati da idee etiche cattoliche, ancorché laicizzate, si misero dalla parte sbagliata.

Insomma il Pascoli in fondo era un isolato: non poteva avere l'appoggio dei socialisti perché lontanissimo dal primato dell'operaismo e dal classismo eversivo, né quello della borghesia rampante perché troppo condizionato dai sentimenti (e Croce, con la sua critica durissima, glielo farà eloquentemente capire, salvo ritrattare nella sua maturità), né quello dei cattolici, in quanto sostanzialmente non credente.

Quando fa i suoi discorsi a favore della guerra coloniale (cfr soprattutto La grande proletaria s'è mossa), atteggiandosi a paladino dei poveri contadini meridionali, dei disperati emigranti, senza spendere una parola per i libici oppressi dai turchi, che non avrebbero potuto stare meglio sotto la dominazione italiana, lo fa in sostanza per guadagnarsi un consenso che stava progressivamente perdendo.

Pascoli soffriva di un terribile dualismo, dovuto proprio alla sua coscienza politica maturata negli anni giovanili, che di tanto in tanto lo spronava a sentirsi un evocatore di nostalgie eroiche, un continuatore dei padri del Risorgimento, il sacerdote di una nuova religione civile. E tra un afflato di misticismo laico e l'altro, in cui non era capace di scorgere i limiti oggettivi di qualunque guerra coloniale, eccolo dare il meglio di sé come poeta delle piccole cose, trasformate in simboli universali, il poeta del nido familiare e dei tenui, dolcissimi affetti.

La tradizione della Roma classica, della latinità come cultura dominante, pesarono enormemente sulla sua rappresentazione della realtà, sulla possibilità di interpretare in maniera obiettiva gli eventi del suo tempo. In luogo della lotta di classe Pascoli aveva posto il diritto-dovere che un popolo ha di riscattarsi dalla propria miseria, imponendo ai popoli più deboli, culturalmente più arretrati, una civiltà che nel passato aveva segnato i destini di tutta l'Europa e di tutti i paesi del Mediterraneo.

Biografia - Il gelsomino notturno - La via ferrata - Pascoli e Ulisse - Poeta e iniziato - Lettore di Manzoni - La cavalla storna - Arano

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019