ARTE ANTICA MODERNA CONTEMPORANEA


Il Rinascimento in Europa

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Dario Lodi

Il Rinascimento in Europa è un prolungamento di quello italiano. L’eccezione reale è fornita dall’opera di Rabelais che tratta l’Umanesimo come un periodo di pretese intellettuali eccessive. Secondo il grande autore francese, sarebbe indispensabile una riflessione. Secondo lui l’umanista non può vantare conoscenze assolute. E’ indispensabile un ridimensionamento, non per giungere a una bocciatura dell’uomo del tempo, ma per incitarlo a fare meglio e cioè a evitare le soluzioni semplicistiche. Rabelais non fu ascoltato, ma rimane un riferimento importante per la dignità intellettuale e morale.

Il francese va quindi oltre la visione delle cose di Erasmo da Rotterdam. Quest’ultimo rimane legato alla mentalità umanistica corrente, agendo all’interno di essa con originalità di ragionamento dipendente dalle situazioni, pur mantenendo un certo rispetto delle posizioni personali. Ad esempio, Erasmo non accettò Lutero: eccessiva la rivoluzione del tedesco e allo stesso tempo datata.

Lutero fu l’involontario strumento di un cambiamento epocale. La sua lotta contro la chiesa romana fu nuova nel senso che trovò appoggio e aiuto presso i principi tedeschi. La questione religiosa, per quanto sentita nella sua purezza, ovvero nel ripristino della stessa da parte di Lutero, divenne una questione laica a causa dell’attacco a Roma portato con determinazione. L’opposizione romana, guidata dall’imperatore Carlo V che pretese la purificazione dell’istituto (Concilio Tridentino), si rivelerà formalmente religiosa e praticamente materiale per via dei possedimenti ecclesiastici o coperti, a vario titolo, dalla chiesa. La cosa sfocerà nella seicentesca Guerra dei Trent’anni e nelle successive guerre dinastiche, sino alla formazione della moderna Europa degli Stati.

Un tentativo eroico di fermare il degrado civile ereditato dal Medioevo fu fatto da Tommaso Moro, assassinato da Enrico VIII d’Inghilterra per aver voluto difendere la primazia papale. Il distacco inglese si poteva in fondo tollerare, trattandosi allora di un’isola, l’Inghilterra, del tutto trascurabile per la storia europea. Nella realtà, la defezione di Londra fu un duro colpo per la credibilità di Roma. Tommaso Moro, poi santo, fu il primo martire moderno, sul momento misconosciuto.

A coronamento di tutto questo giunse la voce di Montaigne, un moralista lucido, che in certo qual modo mise in prosa le idee di Rabelais. Diede a essa forma aforistica (i famosi “Saggi”) e non disdegnò di far del moralismo vero e proprio: sono cose spesso risapute i suoi pensieri, eppure continuano a incantare, a interessare. Montaigne funziona, è chiaro nelle sue opinioni, determinato nelle sue indicazioni. Egli si sostituì alla religione ufficiale, usando meno retorica, più convinzione e maggior senso realistico.

A rappresentare tutto questo, l’arte pittorica provvide in modo esaustivo, muovendosi intorno ad un genio, Albrecht Dürer (1471-1528), un artista poliedrico, imbevuto di italianità (fu due volte in Italia, soprattutto a Venezia), ma autonomo per quanto riguarda l’ispirazione di fondo. Tale ispirazione è un insieme di misticismo allo stato puro, con timori di eccessi autonomistici ravvisabili soprattutto in molte sue incisioni (il bianco e nero era un contrasto ideale per questo suo tipo d’espressione), con gesti coraggiosi di carattere umanistico. Del secondo genere sono numerose sue tele, a partire dall’”Autoritratto con guanti”, del 1498 (al Prado di Madrid) per finire alla “Festa del rosario” del 1506 (alla Nàrodni Galerie di Praga). Il primo ci mostra un Dürer quasi timoroso di mostrare il proprio talento e la propria personalità, e allo stesso tempo fiero di poter fornire una testimonianza profonda, incisiva. All’apparente debolezza congenita nell’essere umano, il nostro pittore oppone una forza sottintesa, in fieri, con cui è pronto a superare qualunque ostacolo. Non gli preme la vittoria personale, ma quella generale della genia umana.

La “festa del rosario” è invece il punto di arrivo della fede. Dürer esprime con gioia, con liberazione, la bellezza della spiritualità. L’opera è un’esplosione (ordinata) di colore e di figure colte in un momento di beatitudine, di emozione superiore per l’avvenimento. Si parla di religione codificata, ma è un pretesto per esprimere una religione autentica, non ferma al dogma, ma travalicante qualunque forma di contenimento dello spirito. Il dipinto è attraversato da una tenerezza incontenibile, fresca, sincera, spontanea. I colori sembrano trovare una collocazione ideale e sono i veri protagonisti del quadro. Il disegno, perfetto, equilibrato, è un inno al significato della scena, si adegua, come seguendo un copione sentimentale, alle suggestioni create dalle tinte che si condizionano idealmente a vicenda per il raggiungimento di una specie di sonorità, di musicalità senza pari. Il Nostro fu un maestro nelle tecniche del bulino e dell’acquaforte.
Collezionò una fortuna con le sue xilografie. Dürer conobbe tre potenti dell’epoca, l’elettore di Sassonia Federico il Saggio che gli commissionò diversi lavori, pur preferendogli Lucas Cranach il Vecchio, Massimiliano I, cui fece uno splendido autoritratto, e Carlo V (nell’occasione visitò i Paesi Bassi e fece tesoro della tecnica fiamminga attraverso numerosi ritratti) che ripristinò un beneficio economico emanato da Massimiliano stesso, morto nel 1519. L’incontro del rigore di Lutero, portò il nostro pittore all’adozione di un misticismo serrato, ben ravvisabile nelle ultime incisioni, di cui qui è ricordata la famosa “Melencolia I” (la copia migliore è conservata dallo Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe) che rappresenta la virtù intellettuale (esiste anche l’incisione raffigurante il “San Girolamo nella cella” e quella raffigurante “Il cavaliere, la morte e il diavolo”, relative alle virtù morali e teologiche: un trittico realizzato fra il 1513 e il 1514). La “Melencolia I” è particolarmente importante per il contenuto esoterico e simbolico che la caratterizza, mentre “Il cavaliere, la morte e il diavolo” è una specie di manifesto del Protestantesimo, della sua rigidità mistica. Il “San Girolamo” è uno studio accurato della profondità del senso morale.

Dürer s’innamorò dell’arte italiana e specialmente di Leonardo, al quale s’ispirò in tutti i sensi. Il nostro pittore scrisse anche dei trattati (non finiti), di pittura, di antropometria, di astronomia. Apprezzò le regole prospettiche di Luca Pacioli, ma non ne fu un seguace. Diceva che era meglio fidarsi della propria sensibilità. Intendeva per dare vita, aria, al dipinto e non per costringerlo entro una gabbia. Di sicuro Pacioli (e Leonardo) non pensava alla gabbia, ma a un ordine a imitazione di quello divino. Che il Nostro voleva raggiungere con il solo sentimento, ovvero con la ragione al servizio dello stesso. Molteplici, quindi, le concessioni di Dürer, tutte in senso positivo: i risultati sostengono una personalità fra le più originali ed espressive della storia della pittura.  

La pittura nel resto d’Europa mantiene un impianto tardogotico con fughe verso gli stilemi italiani legati al Rinascimento. Le incertezze verso una completezza di discorso nuovo – con l’uomo in posizione centrale – non vengono nascoste. Il fenomeno religioso rimane psicologicamente imperante nelle sue fattezze di straordinarietà favorevole all’epifania quasi per degnazione.

L’artista si adegua a questa mentalità, pur mostrandosi curioso nei confronti della decisione di familiarizzare con la trascendenza, così come fa l’Umanesimo italiano sfociato gloriosamente nel Rinascimento. L’analisi non è esatta perché, in realtà, l’evoluzione umanistica è finita col glorificare la trascendenza non in maniera diretta, ma tramite la Chiesa, grazie al suo potere economico. Dunque involuzione, non evoluzione, tuttavia in parte: finito il potere temporale ecclesiastico, le caratteristiche fondamentali dell’Umanesimo troveranno spazio ed evoluzione autentica nella creazione della scienza moderna. Ma dobbiamo tornare al’4-‘500 per vedere come l’arte figurativa (specialmente la pittura) fuori d’Italia cerchi di trovare una credibilità nuova: la ricerca avviene prima di tutto tecnicamente. La forma, suggestionata dai turbamenti dell’animo per i cambiamenti psicologici in atto, prevale generalmente sul contenuto, nel senso che il secondo è in sviluppo, mentre la prima può avvalersi della tecnica con cui può intervenire sulle vecchie simbologie e aggiornarle. Non va scordata l’influenza dell’ermetismo, enorme nel periodo.

D’impianto umanistico è anche la pittura giovanile di Hans Memling, un artista tedesco di formazione fiamminga. Era nato intorno al 1435 e morì nel 1494 a Bruges dove esercitò per tutta la vita. Memling pare fosse allievo di Rogier van der Weyden, ma l’influsso del grande artista fiammingo si rivelerà nelle opere più tarde. Stranamente Memling ebbe una sorta di involuzione, ritornando, dopo le prove giovanili, a uno stile tardo-gotico, a una staticità tradizionale, quasi avesse avuto un pentimento per le prime allusioni a una possibile centralità umana.  

La Passione, detta “Passione di Torino” perché custodita dalla Galleria Sabauda della città piemontese, è un’opera di grande respiro, del 1470-71, dove la vicenda cristiana è trasportata in una città fiamminga, come per dare una prova vicina, incombente, del dramma di Cristo e della pochezza degli uomini. Memling offre un momento di meditazione più che di devozione, elevando l’importanza della figura umana. La cura dei particolari, fatta con precisione lenticolare, tipica della migliore pittura fiamminga, vuole essere una giusta valorizzazione delle cose e una promessa solenne, sentita, di applicazione della morale divina. Entro questa logica, Memling si trova con Hugo van der Goes, pittore sublime di scene devozionali, ma non solo, e Petrus Christus, fra gli estremi cantori della pittura tardo-gotica, con celebrazione, però non meccanica, della trascendentalità irrazionale.

Fustigatore della presunzione umana, attraverso la caricatura dei ceti dominanti, è il fiammingo Quentin Metsys (1466-1530). Nel dipinto “La duchessa brutta”, che fa parte di un dittico (questa parte è alla National Gallery di Londra, l’altra al Museo Jacquemart-Andrè di Parigi) il pittore arriva al grottesco, pur mantenendo una certa grazia compositiva. Si parla dell’insieme e non certo del volto, che è marcatamente sottolineato da una volontà di denigrazione che solo una certa ironia riesce ad attenuarne la ferocia L’opera è del 1513, nel pieno della maturità dell’artista, peraltro chiamato a realizzare quadri religiosi, cosa che fece con molto impegno e passione. Sarà proprio questa passione religiosa a portarlo verso le caricature dei laici, dai reggenti ai banchieri e alle rispettive mogli. Metsys era animato da un’eticità di primordine che vedeva la religione come guida, come faro, senza tuttavia cadere in atti di devozione privi di consapevolezza: una novità nel mondo fiammingo. Suo nipote, con lo stesso nome, è considerato fra i migliori ritrattisti fiamminghi del ‘500.

Singolare è la vicenda di Matthias Grünewald (1470?-1528): così il Vasari tedesco, Joachim Sandrart battezzò, nel 1675, un non meglio identificato Matthaes di Aschaffenburg (in terra tedesca), togliendolo dall’oblio e dandogli un nome e cognome precisi, per quanto il secondo di fantasia. Il battesimo consentì una concentrazione sulle opere di un pittore molto particolare per personalità e impeto. Numerose sue opere erano state attribuite ad altri, persino a Dürer, del quale Grünewald è tecnicamente meno scrupoloso, più immediato: un artista quasi di getto, con un notevole talento naturale e un’immaginazione non comune. Ma soprattutto questo artista è in possesso di una fede eccezionale, che lo fa diventare l’autentico interprete della religiosità del nord, una religiosità da autoflagellazione. Lo dimostra bene questa grande Crocifissione (alla Kunsthalle di Karlsruhe). Alla passione di Cristo partecipa anche il legno della Croce, piegato ad arco (una novità, per sottolineare la tragedia universale in atto), la mestizia degli altri due personaggi sacri, più sbozzati rispetto alla figura lacera, fisicamente distrutta del personaggio principale. La distruzione è vista come evento irrimediabile che neppure la filosofia dell’Umanesimo in atto in tutta Europa riesce a riscattare.

In Germania, dove Grünewald vive e opera, questa filosofia giunge come più come curiosità che come nuova disciplina mentale superiore da seguire e da adottare. L’artista sembra ribadire, specialmente con la sua opera tarda (questa Crocifissione è del 1525), che la questione religiosa è molto più importante delle dispute umanistiche. Perché il ribadimento sia esemplare, ecco una sorta di Cristologia oltre il limite di sopportazione, per quanto le figure di contorno – in fondo più umane che divine – lascino ben sperare (ma è una speranza esile e comunque legata indissolubilmente alle problematiche fideistiche). Grünewald lasciò opere in molte città tedesche, soprattutto ad Aschaffenburg, Issenheim, Halle, Magonza. A dare vita, consistenza alle sue composizioni, sono in particolar modo i colori, quanto mai veristici, naturali, fatti più di sangue e carne che di tinte e sfumature. Il segno appare talvolta incerto, ma più verosimilmente è congruo rispetto al messaggio che l’artista intende dare, togliendolo da sé, dal proprio animo con la più credibile accoratezza.

Lucas Cranach il Vecchio (1472-1553) è importante per aver dato un carattere preciso alla cultura tedesca del momento. E questo grazie alla sua amicizia con Martin Lutero, di cui il nostro pittore assorbì certamente la mistica. La svolta religiosa imposta da Lutero, e appoggiata dai Principi tedeschi (senza questo appoggio il Protestantesimo non sarebbe nato), diede un riferimento preciso alla fede nordica: la Bibbia e specialmente l’Antico Testamento. Il Dio punitivo prendeva il sopravvento su quello misericordioso a causa degli strappi della Chiesa romana, con relativa decadenza morale. Un lassismo insopportabile per i credenti e dunque opposizioni e decisioni puriste, pena il castigo, per chi non si ravvedeva. Solo Lutero riuscì nell’improbabile impresa (gli eretici esistevano da almeno tre secoli) grazie alle armi laiche. La “Testa di Cristo con la corona di spine” (forse 1510, collezione privata) è la testimonianza del cambiamento: Cristo è attonito, sembra rimproverare, in silenzio, chi lo sta schernendo, ma anche assicurargli una punizione. La pena è attenuata da una promessa di reazione che si riflette nell’umanizzazione del volto. Non siamo a una visione umanista, ma a una trasformazione più semplice del fattore divino in sembianze umane per maggiore presa morale. Lucas Cranach fu il pittore prediletto da Federico il saggio, elettore di Sassonia e anche dai suoi successori. Il figlio, con lo stesso nome (Lucas Cranach il Giovane) sarà un notevole ritrattista (eccezionale il ritratto del padre) e un raffinato incisore.
Amico, invece, di Erasmo da Rotterdam (che non amava le tesi luterane) fu Hans Holbein (1497?-1553), forse il maggior ritrattista del tempo, che visse e operò fra Basilea (un centro umanistico) e Londra. Finì per stabilirsi in quest’ultima città al servizio di Enrico VIII, realizzando opere religiose e laiche (le seconde più numerose) in numero ragguardevole. Gli “Ambasciatori”, opera qui riprodotta, non interamente, è un olio su tavola di notevoli dimensioni, 206x209 cm, forse del 1533, custodito dalla National Gallery di Londra, è probabilmente la sua più matura: Holbein vi registra il successo del mondo laico, ormai lanciato verso la conquista del mondo. Gli ambasciatori sono messaggeri di una potenza reale che sta sostituendo quella ideale della Chiesa e della filosofia, in qualche modo, e comunque, emanazione della stessa. Si sa che Enrico VIII si oppose alla Chiesa romana, creando il rito anglicano, ma si sa anche che lo fece ispirato da questioni dinastiche (la ricerca di un maschio, che gli verrà negato) e non certo da mire puristiche.

Sulla scia di questa decisione materiale, si mosse l’intero mondo inglese, senza l’intenzione di offendere la visione religiosa e spirituale della vita, ma con la determinazione di evitare dipendenze da Roma. Non poteva che derivare un sistema dispotico condizionato dalla figura regale, anche se temperato da comprensibili timori autonomistici, con inevitabile rispetto verso la religione. Tutto questo si avverte poco nella pittura di Holbein perché l’entusiasmo laico riesce ad avere la prevalenza sul condizionamento tradizionale fornito dalla vecchia religione. Holbein è più incisivo nella rappresentazione delle cose che delle persone (ferme, statiche, in posa celebrativa di un fenomeno in via di completamento, quasi fosse già compiuto e quasi non vi fosse convinzione del compimento). Alla fine si manifesta una sorta di contemplazione dei nuovi strumenti umani per sfidare il mondo, vi è una loro sacralizzazione a “prescindere”, con rifiuto di ogni riscontro oggettivo. Holbein registra tutto questo con una certa freddezza, limitandosi alla calligrafia (e che calligrafia!). Dentro la quale si nasconde un trionfalismo pronto a esplodere: è quello relativo al riconoscimento delle importanti risorse umane.

Superbo ritrattista è François Clouet (1510?-1572), figlio di Jean, pittore anche lui. La sua tecnica è di derivazione fiamminga, la grazia è italiana, la mentalità francese. Il ritratto di Elisabetta d’Austria, regina di Francia (era figlia del grande imperatore Carlo V), è forse il suo ultimo (data 1572 ed è al Louvre): si noti lo sfarzo regale, la serietà del volto e il senso di comando che emana dalla figura. Più che un ritratto personale sembra un simbolo della nuova era che si sta aprendo dopo i torbidi romani, la caduta della centralità della Chiesa, l’avvento del protestantesimo e la reazione Cattolica. Nello stesso anno del dipinto, era avvenuta la “Notte di S. Bartolomeo” con lo scannamento nelle strade di Parigi (e poi nell’intera Francia) degli Ugonotti, ovvero dei Protestanti francesi, per ordine di Caterina de’ Medici, reggente di Francia. Il dipinto sembra in qualche modo presagire l’evento. Una sorta di quiete sussiegosa prima della tempesta di cui, peraltro, lei, molto giovane, fu spettatrice. Clouet, con i suoi ritratti regali (fu al servizio di tre re, Enrico II, Francesco II, Carlo IX) sprovincializzo l’arte francese e fece conoscere la mentalità laica, vincente, all’intera Europa (si trattava di un laicismo che si avvaleva della religione per ragioni di ordine pubblico, dunque di un regime ben più opportunista di quello bizantino, dove l’imperatore aveva anche competenza religiosa e la esercitava coscienziosamente, mentre il re di Francia pretendeva l’asservimento del clero e la sua assenza governativa primaria).
Per quanto di circa una generazione più vecchio di Clouet e di Holbein, Albrecht Altdorfer (1480-1538) è più moderno dei due, come dimostra la “Battaglia di Alessandro e Dario a Isso”, una tavola di notevoli dimensioni, cm. 158x120, custodita a Monaco, nell’Alte Pinhakotek. Fu realizzata su commissione di Guglielmo IV di Baviera per decorare la propria residenza. E’ uno dei primi paesaggi indipendenti della storia dell’arte. Questa realizzazione si deve alle decisioni prese dalla “Scuola danubiana”, di cui Altdorfer fu uno dei fondatori, fra cui quella, determinante per il pittore tedesco, di nobilitare la natura, l’ambiente (in modo più marcato, la scuola s’ispirò, poi, a Dürer).

Altdorfer, per quanto riguarda i lavori religiosi, fu condizionato dal tardo-goticismo e da Cranach in particolare, ma per quanto riguarda quelli laici – fra cui il presente è sicuramente il più ragguardevole – il suo comportamento fu molto originale. Pare lecito pensare che oltre al fatto decorativo, il commissionario intendesse avere un’opera beneaugurante in merito ai segnali di scontro fra principi tedeschi e l’imperatore Carlo V, cosa che avverrà con fragore negli anni immediatamente successivi il dipinto (che è del 1529).

Da parte sua, Altdorfer curò il particolare, ma inserendolo in una visione generale dove le piccole cose umane sembrano confondersi, scomparire. A testimonianza del valore dell’uomo, rimane una lussuosa, ed elegante visione d’insieme a volo d’uccello, quasi si volesse fuggire dal dolore e dall’orrore, leniti, nel frattempo, da uno sguardo fiabesco sull’insieme (come se la lotta fosse in fondo finta, una cosa da parata).

Un secolo dopo la morte di Altdorfer, nasce Domenico Theotokopoulos (El Greco, 1541-1614): un pittore che, nella tarda età, portò novità straordinarie nella concezione pittorica europea. El Greco sosteneva che il colore doveva avere predominanza sul disegno, e cioè che il sentimento aveva il diritto-dovere di sopravanzare la ragione. Era, in apparenza, un ritorno alla mentalità medievale, rafforzata dall’esperienza della Controriforma. Nella sostanza, un ripensamento religioso inserito nel riconoscimento della superiorità della fede, la sola che possa salvare l’uomo dalla dannazione o dal nulla (le due cose, a ben vedere, filosoficamente combaciano). Quanto sia macerata la fede di El Greco è ravvisabile in questo dipinto estremo, l'Adorazione dei pastori”, un olio su tela di 320 x 180 cm., databile 1612-1614, al Prado di Madrid. L’artista l’aveva concepito per la propria tomba. Le figure sono disposte a spirale, secondo una visione ascensionale - ideale - della vita in modo persino ossessivo, esasperato, allucinato.

El Greco, nato a Creta (allora sotto la Repubblica di Venezia), cresciuto artisticamente in Italia, a Venezia, a Roma, e quindi in Spagna, a Toledo, sotto l’esigente re Filippo II (che arrivò anche a criticarlo aspramente per la sua inortodossia: la rigidità controriformistica non ammetteva libertà interpretative), finì con il dipingere come voleva e sentiva, inserendo, nella storia della pittura, un elemento espressivo di notevole fascino (influenzerà anche pittori del ‘900, persino gli astrattisti e gli informali, come Pollock): il segno condizionato dal colore che è dichiarazione immediata dello stato d’animo. Questa dichiarazione sembra possedere un suo codice interno, personale e misterioso, capace di leggere la realtà trasognata e di imporla come verità autentica da perseguire. El Greco non impone un nuovo modo di vedere le cose, ma suscita riflessioni che conducono ad una maggiore profondità nella ricerca del vero: la sua visione è in sé scontata dal sopravanzare del divino, ma è tutta da vivere, da provare dall’interno e quindi la profondità speculativa è una conseguenza, porti dove porti.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Arte
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Aggiornamento: 09/02/2019