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Mikos Tarsis

STUDI LAICI SULL'ANTICO TESTAMENTO

Premessa - Capitoli: 1) Il racconto del peccato originale - 1.1) Quattro fonti anticotestamentarie - 1.2) La moderna critica biblica - 1.3) Le scoperte del XX secolo - 1.4) Le due versioni a confronto - 1.5) I due racconti della Creazione - 1.6) Cosmologia e antropologia - 1.7) Conclusione - 2) Dio e il serpente: dal collettivismo all'individualismo - 3) La figura di Abramo - 4) La figura di Noè - 5) Il roveto ardente - 6) Sansone e i Filistei. Fiaba per adulti - 7) L'ateismo di Giobbe - 8) Democrazia e internazionalismo nel libro di Giona - 9) Cronologia del popolo ebraico - 10) Le bugie della Bibbia - 11) Caratteristiche dell'ebraismo - 11.1) Formazione del Canone - 11.2) L'interpretazione della legge - 11.3) Le feste principali - 11.4) Preghiere, riti e vita quotidiana - 11.5) Il ruolo della donna - 11.6) Prescrizioni alimentari - 11.7) Il calendario - 11.8) Diffusione degli ebrei nel mondo - 11.9) Correnti del giudaismo - 11.10) Israele oggi - 11.11) L'Intesa ebraica con lo Stato italiano - 12) La grandezza degli ebrei - 13) Breve cronistoria del moderno Stato d'Israele - 14) Storia di Israele. Dal primo censimento romano alla distruzione di Gerusalemme - 15) Storia della corruzione del Tempio - 16) Ebraismo e cristianesimo: due forme di ateismo? - 17) Conclusione. I giganti e gli esseri umani. Favola per i figli senza Dio

Premessa

Questi commenti non hanno alcuna pretesa di scientificità. Però vogliono essere edificanti. E in ogni caso, anche quando parlano male degli ebrei, non vogliono mai mettere in discussione la loro superiorità etica e politica rispetto ai popoli schiavistici a loro contemporanei. Anche quando gli ebrei copiano da altre culture e civiltà, lo fanno magnificamente, superando di molto le fonti cui hanno attinto l'ispirazione. Anche quando mentono spudoratamente, lo fanno in maniera sopraffina.

Abbiamo speso molte energie nell'analizzare il Nuovo Testamento e pochissime l'Antico. E pensare che quest'ultimo contiene sicuramente molti aspetti che gli autori del Nuovo hanno utilizzato a piene mani e non senza una certa astuzia, facendo per es. credere che fossero opera loro, del tutto originali, in quanto derivanti dall'insegnamento del Cristo. D'altra parte tali autori erano cristiani in polemica coi Giudei: può apparire del tutto normale evitare di citare le fonti, oppure travisare volutamente il significato originario di certe affermazioni, come p.es. quelle relative al cosiddetto “peccato originale”. Il che non toglie che il cristianesimo, sul piano religioso, sia oggettivamente un passo avanti rispetto all'ebraismo, anche se entrambi sono destinati a essere superati da una concezione ateistica dell'uomo.

“Il racconto del peccato originale” è la parte più significativa del libro La colpa originaria. Analisi della caduta. Il secondo capitolo, “Dio e il serpente: dal collettivismo all'individualismo”, è già stato pubblicato nel libro Dialogo a distanza sui massimi sistemi. Alcuni testi sono stati presi dal libro, già edito in Amazon, La tragedia d'Israele duemila anni fa. Devo dire però che i testi, anche se pubblicati in precedenza, vengono sempre ritoccati o revisionati. Questo il motivo per cui preferisco autopubblicarli.

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1) Il racconto del peccato originale

Premessa

Non possono essere state l'agricoltura o la stanzialità che, in sé e per sé, hanno creato lo schiavismo. Certamente l'aumentato benessere, causato da un miglioramento dei mezzi produttivi, in un contesto di sedentarietà, può aver creato una situazione favorevole al rilassamento dei costumi.

Di fronte agli imprevisti determinati dai fenomeni climatici o naturali, una parte della popolazione può aver assunto un atteggiamento o troppo prudente o troppo rischioso. All'inizio può esserci stato un atteggiamento propenso a conservare posizioni acquisite, evitando di mettersi nuovamente in gioco, ma in seguito, di fronte al peggiorare delle condizioni, qualcuno può aver optato per soluzioni estreme, nettamente anti-sociali.

Forse così si passò dalla “creazione” alla “caduta”.

Ora però proviamo a dire la stessa cosa in altra maniera, poiché non si tratta soltanto di fare dell'esegesi, ma di porre le basi per una vera transizione alla democrazia.

“Non dovete mangiare il frutto di quell'albero” – questo divieto indica, in un certo senso, la nascita del diritto, cioè la nascita della paura che può insorgere compiendo un'azione vietata o sbagliata.

Questa cosa è molto strana. Un divieto del genere sembra implicare varie cose: un pericolo grave da affrontare, a carico di tutta la collettività, di cui una parte di essa sembra essere più esposta; una crisi in atto, che si esprime come una forma d'indebolimento degli assetti di una tradizionale esperienza, o comunque come una forma d'attenuazione della consapevolezza dell'importanza dei valori che fondano l'esistenza di un collettivo.

Sembra d'essere in presenza di una sorta di passaggio o di transizione da una condizione esistenziale e sociale relativamente pacifica, tranquilla, in cui la libertà e l'uguaglianza sono salvaguardate, a una condizione preoccupante, insidiosa, foriera di grandi difficoltà.

È come se vi fosse un nemico esterno da cui bisogna stare alla larga, ma nei confronti del quale le capacità difensive si stanno progressivamente riducendo. Di qui l'ordine perentorio: “Non fate quella cosa, altrimenti per voi è finita”. La relazione tra chi dà l'ordine e chi lo deve eseguire diventa di tipo giuridico, con conseguenze vitali. Il diritto-dovere subentra quando esiste un pericolo da affrontare, nei confronti del quale la consapevolezza collettiva dell'effettiva gravità non è adeguata.

Cioè là dove avrebbe dovuto esserci “autoconsapevolezza”, s'impone un ordine dall'esterno. È come se qualcuno più consapevole offrisse l'ultima possibilità di continuare a vivere i tradizionali rapporti comunitari a quella parte del collettivo che invece sembra lasciarsi attrarre da nuove condizioni di vita.

Chi farà una scelta sbagliata, ne pagherà le conseguenze. Il divieto, cioè la legge, viene posto come una forma di avvertimento o di minaccia: chi lo trasgredisce, verrà necessariamente espulso dal collettivo, altrimenti tutto il collettivo verrebbe danneggiato o distrutto. L'espulsione quindi dovrà essere fatta con la forza. Si tratta di un'autodifesa armata.

Il problema che, a questo punto, si pone è il seguente: la condanna all'espulsione è irrevocabile o esiste la possibilità di rimediare alla colpa? Si può sperare d'essere reintegrati se esiste sincero pentimento?

Il problema non è di facile soluzione, poiché il passaggio a un nuovo stile di vita comporta dei mutamenti di sostanza nell'esistenza delle persone. Non è solo questione di forme. Mutano radicalmente i rapporti umani, la percezione stessa di sé: non si è più come prima.

Occorre un grande sforzo di volontà per tornare ad essere quel che si era, e non è certamente uno sforzo che si possa compiere soltanto a titolo individuale. Si è usciti da un collettivo democratico, egualitario; e ora bisogna recuperare la stessa dimensione collettiva. E questo è impossibile farlo se non si emigra in altro luogo, ricominciando tutto da capo. Il cordone ombelicale va reciso nettamente, proprio come fecero Abramo e Mosè, altrimenti si rischia di fare la fine della moglie di Lot.

L'altra soluzione, se l'emigrazione non è possibile, è la guerra civile. In tal caso i problemi sono molto più complessi, in quanto bisogna risolverli dall'interno, soffrendo di tutti gli inevitabili condizionamenti e col rischio di ripetere gli stessi errori in forme diverse.

Quando si compiono guerre civili, gli animi s'incattiviscono; si è indotti o costretti a compiere cose che, probabilmente, non si sarebbero mai fatte in condizioni pacifiche. E tuttavia si ha consapevolezza che non esistono alternative. Finché il nemico resiste, si deve combattere. La differenza sta soltanto nel cercare d'essere più umani, cioè più giusti, nel momento dello scontro aperto.

A tale scopo bisogna assolutamente evitare di credere che, solo per il fatto di condurre una guerra giusta, si sia autorizzati a compiere qualunque azione d'attacco o di difesa. Chi perde il senso della misura, chi non sa valutare obiettivamente le situazioni, non può sperare di diventare l'artefice dell'alternativa. La transizione alla democrazia va costruita nel mentre la si fa.

*

“Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza”, non è una frase religiosa, ma ateistica. L'interpretazione religiosa è subentrata successivamente, quando si era smarrito il suo significato ateistico.

Con quella frase l'autore voleva semplicemente dire che tra Dio e l'uomo non vi è alcuna sostanziale differenza, o comunque voleva dire che in un lontano passato l'uomo avvertiva la divinità come molto prossima alla sua esistenza, proprio perché non vi scorgeva alcuna sostanziale diversità: Dio era come l'uomo perché l'uomo era come Dio.

E quando si parla di Dio, si deve per forza parlare di un principio “duale”, analogamente alla differenza di genere nella specie umana. In quel “facciamo” sta appunto la differenza di genere. “Facciamo” sta per “partoriamo”. All'origine della specie umana vi è un rapporto d'amore e di sessualità, in cui la riproduzione è parte costitutiva.

Che questa divinità potesse passeggiare nel giardino (una foresta), insieme alle sue creature, è indicativo della familiarità della natura divina a quella umana. Tra il Dio “duale” e l'uomo “duale” c'è di mezzo la natura, in maniera assolutamente necessaria. Entrambi non possono prescindere dalla natura. Tutta la “creazione” degli astri, descritta nel Genesi, è semplicemente finalizzata alla comprensione della formazione del nostro pianeta, preposto a ospitare l'essere umano.

La materia in realtà è eterna e infinita: nessuno l'ha creata e nessuno potrà mai distruggerla. E – stando agli scienziati – quella che vediamo noi è solo una piccola parte di quella effettivamente esistente (per non parlare dell'anti-materia, che probabilmente non vedremo mai). Esiste una natura naturale (o materiale) e una natura umana, entrambe necessarie e universali, la cui principale differenza sta nella libertà di coscienza, che animali e piante non possono avere.

La cosa poco chiara, nel racconto del Genesi, in realtà è un'altra. Riguarda il contenuto della tentazione: “Diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male”. Di quale “male” sta parlando il serpente, visto che il peccato della trasgressione del divieto non era ancora stato posto?

C'è qualcosa di poco chiaro anche nello stesso divieto. Perché porlo a chi, non avendo ancora peccato, non può rispettarlo con la dovuta consapevolezza? I nostri progenitori conoscevano o no il peccato prima di peccare? Se non avevano mai peccato, certamente non potevano conoscere tutti gli effetti di un'azione negativa su di loro. Al massimo potevano conoscerli in maniera traslata, approssimativa o indiretta. La frase che Dio dice per indurli a non trasgredire il divieto, e cioè che sarebbero “morti”, non ha alcun senso nel contesto del racconto, poiché la morte è proprio una delle conseguenze del peccato.

Tuttavia è evidente che una minaccia del genere non avrebbe avuto alcun senso neppure se non fossero stati assolutamente in grado di capirla. Qui dunque il concetto di “morte” deve per forza avere un significato diverso rispetto a quello che gli attribuiamo noi. “Morte” probabilmente voleva soltanto dire “solitudine”, cioè enorme difficoltà a vivere un'esistenza al di fuori di un contesto comunitario protettivo. In ogni caso sembra qui che Dio si stia comportando come un genitore che sa già tutto della vita e non vuole che accada qualcosa di spiacevole ai propri figli.

Ma se è così, il peccato era già stato posto da qualcun altro, cioè da qualcuno che insidiava l'incolumità di Adamo ed Eva. La tentazione di trasgredire il divieto era praticamente indotta da un nemico esterno alla comunità primitiva, un nemico che Dio (qui in rappresentanza di un consiglio di anziani) conosceva già in tutta la sua pericolosità, mentre Adamo ed Eva (qui in rappresentanza di una giovane generazione) non potevano conoscere sino in fondo a causa della loro inesperienza o ingenuità. Lo temevano, per così dire, di “riflesso”, spaventati all'idea di poter trasgredire un divieto tassativo, cioè di poter compiere qualcosa che da Dio (il collettivo consapevole) sarebbe stata considerata molto negativamente.

Ma che cos'era questo eden? Una campana di vetro? Una realtà fittizia in cui proteggere delle persone che, a motivo della loro innocenza, erano troppo sprovvedute per agire autonomamente? Di regola si pensa il contrario: l'eden rappresentava qualcosa di “naturale” e il serpente qualcosa di “artificiale”.

L'autore si è immaginato i nostri antichi progenitori come due soggetti naturali, innocenti, fisicamente nudi, moralmente ingenui, anche se non così sprovveduti da non capire le insidie del nemico, che pare geloso del loro “paradiso terreno”, in quanto la foresta sembra offrire tutto il necessario per vivere. La tentazione non era tanto quella di “mangiare la mela”, quanto quella di vivere la stessa vita del serpente, al di fuori della foresta. La mela è solo il simbolo di una vita diversa, che, sulle prime, appare migliore (le tentazioni riguardano i cinque sensi e anche naturalmente l'intelligenza, la ragione, l'amor proprio...). Una vita diversa, intrigante, di cui dovevano essere in qualche modo a conoscenza, altrimenti non ci sarebbe stata alcuna scelta colpevole, bensì una fatalità, e se ci fosse stata fatalità o casualità o inevitabilità, la punizione divina sarebbe parsa eccessiva (espulsi per sempre dall'eden!).

Quindi in questo racconto non vi è tanto la descrizione della nascita del genere umano, ma la descrizione di una caduta. La caduta è stata una forma d'involuzione da una condizione naturale di vita a una innaturale. In questo passaggio regressivo Adamo ed Eva erano consapevoli di ciò che facevano, cioè erano consapevoli quel tanto che bastava per compiere qualcosa di sbagliato. Essi hanno voluto compiere ciò che all'interno della foresta era assolutamente vietato.

Ma che cosa avevano fatto di così grave da meritarsi un castigo così grande? Era così grave conoscere il bene e il male come lo conosceva Dio, cioè in maniera approfondita? Non erano forse destinati a conoscerlo? Non è forse conoscendo il male che si può meglio evitarlo? Il punto però è proprio questo. Per conoscere il male ed evitarlo, occorre avere una certa maturità, altrimenti si soccombe. Ci vuole una certa esperienza di vita e non solo una conoscenza teorica.

Il peccato originale sta proprio in questo: nell'aver anteposto un proprio percorso individuale a qualcosa di consueto nel collettivo. Si è anteposto l'arbitrio alla libertà, la coscienza individuale all'esperienza collegiale. Si è compiuto un atto di forza contro dei valori dominanti. Ci si è sentiti liberi mentre si trasgrediva il divieto, ma, così facendo, ci si è posti contro qualcosa di tradizionale, di acquisito. Si sono violate delle leggi non scritte, degli usi e costumi ancestrali. Continuare a restare nella foresta sarebbe stato impossibile. La comunità andava tutelata dall'abuso, altrimenti si sarebbe sfaldata, distrutta. Tutti avrebbero scelto la strada dell'individualismo, e per il collettivismo sarebbe stata la fine.

L'autore ci ha voluto far capire la tragedia di questa dicotomia, che si sarebbe potuta tranquillamente evitare rispettando il divieto. Il quale, se era stato posto, un motivo doveva esserci. La crisi era già in atto, anche se non in forma drammatica. È normale che all'interno di un'esperienza collettiva vi siano momenti di debolezza o di stanchezza, ma questo non vuol dire che si debbano rompere delle tradizioni consolidate.

L'autore ha semplicemente descritto il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo. Ha descritto una rottura, di tipo individualistico, avvenuta circa 6000 anni fa. Che poi da questa rottura sia nata l'agricoltura e la stanzialità, è irrilevante. Non è possibile attribuire all'agricoltura o alla stanzialità, in sé e per sé, le radici dello schiavismo. Dalla creazione alla caduta ci deve essere stato un momento di anti-socialità, che prescindeva dallo sviluppo delle forze produttive e dalla tipologia del rapporto socioeconomico.

Tutta la storia dell'umanità, inclusa quella che gli storici chiamano “preistoria”, è la storia di due stili di vita: individualistico e collettivistico. Il primo, in questi ultimi 6000 anni, si è espresso in varie forme (schiavismo, servaggio, capitalismo, socialismo statale), che si è cercato ogni volta di superare, ritenendo insufficienti quelle forme all'esigenza di collettivismo insita in ogni essere umano. Questo processo di superamento non è ancora terminato, e non potrà esserlo fino a quando non avremo recuperato lo stile di vita “preistorico”.

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1.1) Quattro fonti anticotestamentarie

A) La fonte jahvista (dal nome Jahvè, usato per indicare Dio), rinvenibile principalmente in Genesi, Esodo e Numeri, sarebbe stata elaborata per iscritto nel secolo X-IX a. C. in Giudea, forse sotto Salomone o subito dopo la sua morte, per mettere in risalto la tribù di Giuda, che aveva un ruolo preminente nella parte meridionale del regno. Essa ha uno stile vivo, colorito, con ricchezza di immagini simboliche, e al suo interno i critici han creduto di individuare correnti diverse, anche più arcaiche, come p.es. quella “laica” e quella “nomadica”. Idealmente è favorevole all'universalismo della salvezza (Dio, che è visto a volte in maniera antropomorfica, ama gratuitamente tutti i popoli, anche se in modo particolare quello d'Israele). Presenta l'uomo in tutte le sue potenzialità e miserie.

B) La fonte elohista (da Elohim, nome per indicare una pluralità di dèi o un Dio collettivo: “coloro che hanno vita in se stessi”, “coloro che sono in alto”, “i signori di sopra”; nel primo versetto della Genesi si usa Elohim) sarebbe stata scritta un po' più tardi, nel nord della Palestina, dopo la divisione del regno d'Israele (il tentativo di unificazione delle due tradizioni fallì definitivamente con lo scisma di Geroboamo I del 922 a.C.), per controbilanciare le pretese della Giudea, e sarebbe stata fusa dalla tradizione sacerdotale, sempre in Giudea, con quella jahvista, nei racconti della Genesi e dell'Esodo, dopo la rovina del regno del nord (722 a.C.), sottomesso dal re assiro Sargon II.

La fonte elohista ha uno stile più sobrio e più piatto, una morale più esigente; per essa, Dio, la cui trascendenza è assoluta, ha un solo popolo prediletto: Israele, e i rapporti con questo popolo sono visti come un'alleanza bilaterale (“teologia del patto”). Alcuni esegeti sostengono ch'essa voglia esaltare il tempo mitico di Israele nel deserto, quando esisteva una migliore fedeltà alla tradizione. Entrambe le fonti comunque contengono pochissimi testi legislativi.1

C) Dopo i Numeri e fino agli ultimi capitoli del Deuteronomio, ivi inclusa tutta l'opera storica dei Libri dei Re, queste correnti vengono sostituite da una fonte chiamata appunto deuteronomista, dallo stile ampio e oratorio, che si sviluppò nel secolo VII a.C., praticamente a partire dall'epoca del re Giosia (631-609 a.C.) fino all'esilio in Babilonia. In 2 Re 22,8 si parla di “fortuito ritrovamento”, da parte del sommo sacerdote Chelkia, presso il Tempio, di un manoscritto andato perduto. La fonte (che include anche il libro di Giosuè) considera l'ebraico un popolo “eletto”, che tale può rimanere solo rispettando la legge divina. La storia dei rapporti fra Jahvè e Israele viene divisa in quattro tempi: Patto - Trasgressione - Punizione - Pentimento. Un posto di rilievo è assegnato alle punizioni in caso di infedeltà (cfr Dt 28,32; 28,49; 29,21; 30,1s).

Il suddetto “ritrovamento” del Libro della Legge, rimasto del tutto sconosciuto a coloro che avevano frequentato il Tempio per almeno 300 anni, anzi per oltre 800, se si calcola il tempo dalla morte di Mosè, tornò comodo al ceto dirigente dello Stato e all'alto clero giudaico, entrambi intenzionati a fare una riforma autoritaria. Infatti l'idea fondamentale del rotolo era quella di centralizzare il culto in un Tempio unico per tutto il Paese, ponendo fine a tutti i santuari locali e obbligando tutti a fare pellegrinaggi e sacrifici nella sola Gerusalemme. E anche se dopo appena 30 anni lo Stato giudaico fu conquistato dai Babilonesi, di fatto il manoscritto entrò a far parte del Pentateuco.

D) Il Priestercodex risale invece alla prigionia babilonese (il regno di Giuda finisce col secondo assedio di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, nel 587 a.C.) e s'impose solo dopo il ritorno in patria, allorché Ciro, re di Persia, accordò la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. L'intellighenzia giudaica sopravvissuta volle dare al nuovo Tempio un'importanza eccezionale per l'unità del popolo ebraico. E in maniera contestuale, a partire dalla direzione dello scriba Esdra – detto il “secondo Mosè”, poiché condusse il ritorno del secondo contingente di ebrei dall'esilio babilonese nel 459 a.C. –, si prese a ricompilare la Torah, sino alla metà del IV sec. a.C., con la preoccupazione di riorganizzare definitivamente in una unità tutto il materiale biblico, anche con l'aiuto di un'altra trentina di fonti (il Libro di Yasher, le Profezie di Ahiza, gli Atti di David, gli Atti di Mosè, i Libri dell'Eden etc.), di cui poco o nulla sappiamo. Un ruolo rilevante lo svolse anche Neemia.

Questa fonte, di natura ottimista, in quanto aspira al ritorno in patria, ha voluto essere presente sin dalle prime pagine della Genesi. Ad essa vanno attribuiti l'intero Levitico, importanti passi della Genesi e dell'Esodo e gran parte dei Numeri. Le sue idee centrali sono i diritti e i doveri dei sacerdoti, nonché le norme cultuali e di purità (di rilievo il divieto, anche retroattivo, dei matrimoni misti, nonché le minuziose norme alimentari).

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1.2) La moderna critica biblica

Dopo che per millenni si era ritenuto che tutto il Pentateuco fosse stato opera di Mosè, il medico francese Jean Astruc (1684-1766), influenzato dai lavori di Spinoza, nel 1753 aveva notato, nella sua opera pubblicata anonima a Bruxelles, Conjectures sur les mémories originaux dont il parait que Moyse s'est servi pour composer le livre de la Genèse, che Dio era chiamato con vari nomi: ora JHWH, ora Elohim, ora JHWHElohim. Per spiegare questa stranezza, pensò che dovessero esistere dei documenti anteriori al Pentateuco, ognuno dei quali usava un diverso nome per Dio, documenti di cui si sarebbe servito Mosè nello scrivere definitivamente il Pentateuco, rielaborandoli in un racconto unitario.

Così, a seconda del nome divino usato, Astruc individuò una “fonte jahvista” e una “fonte elohista”; ma siccome non tutto il materiale poteva essere ricondotto a queste due fonti principali, giunse a distinguerne altre, fissandone complessivamente una decina.

L'intuizione di Astruc (“teoria documentaria”) fu ripresa, ampliata e completamente trasformata alla fine del sec. XIX dall'esegesi liberale protestante di K. M. Graf (1815-69), V. M. de Wette (1780-1848), H. Hupfeld (1769-1866), A. Kuenen (1828-91) e soprattutto di Julius Wellhausen (1844-1918), che mise definitivamente in crisi l'idea che il Pentateuco, come l'abbiamo oggi, potesse essere opera di un unico autore: troppe erano le incongruenze e le contraddizioni, e proprio a partire dai racconti della creazione. Per non parlare del fatto che a volte si è in presenza di una prospettiva universale (Dio benedice tutte le stirpi della Terra), e altre volte c'è una prospettiva nazionalistica (solo Israele è benedetto da Dio).

Wellhausen, con la sua Storia d'Israele (1878), diede origine ad un gruppo di studiosi, noti col nome di “Scuola Scandinava”. Lavorando con metodi letterari, essi giunsero alle seguenti conclusioni:

  1. Mosè non ha scritto l'attuale Pentateuco;

  2. esso è il frutto di un complesso lavoro redazionale basato su vari documenti preesistenti (fonti orali e scritte, bibliche ed extra-bibliche);

  3. dietro al Pentateuco si dovevano supporre almeno quattro documenti chiamati:

        – Fonte Jahvista (J)

        – Fonte Elohista (E)

        – Fonte Deuteronomista (D)

        – Fonte Sacerdotale (P, da “priest”, sacerdote);

  4. il lavoro di rielaborazione definitiva si sarebbe concluso verso il V-IV sec. a. C.

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1.3) Le scoperte del XX secolo

Nel corso del XX sec. avvennero cose molto importanti che misero in discussione queste tesi biblistiche. Furono anzitutto scoperte le lingue delle principali civiltà del Vicino Oriente: prima l'egiziano, poi l'accadico e il sumerico, le lingue della Mesopotamia a partire dal III millennio a.C. (l'ittita, l'ugaritico...). Intere biblioteche ed archivi reali sono stati recuperati: la storia della regione del Vicino Oriente (Mediterraneo Antico) appare ora più precisa nelle sue linee fondamentali, soprattutto nella ricostruzione delle dinastie, nella datazione degli avvenimenti.2

In particolare la decifrazione di numerose tavolette in Mesopotamia ha permesso di comprendere i metodi di composizione dei rotoli anticotestamentari da parte degli scribi. P. J. Wiseman, che partecipò a degli scavi in Mesopotamia, nel 1936 pubblicò New Discoveries in Babylonia about Genesis, poi Clues to Creation in Genesis. Nel 1985 suo figlio, anche lui archeologo, ripubblicava i lavori di suo padre sotto il titolo di Ancient Records and the Structure of Genesis.

Secondo questi studi, contrariamente a ciò che immaginavano Wellhausen e gli altri biblisti, le fonti della compilazione del libro della Genesi non sono affatto dei racconti molto posteriori a Mosè, ma esattamente dei documenti firmati e contemporanei agli avvenimenti ch'essi raccontano. Sicché la Genesi, pur essendo una compilazione pluriredazionale, avrebbero attinto a fonti di molto anteriori a Mosè; e se il libro esprime, in effetti, numerosi “stili”, esso non mostra tuttavia una pluralità di autori nella sua forma finale, contrariamente a quel che credono gli esegeti.

Tuttavia i testi dei due Wiseman non hanno destato particolare interesse da parte dei biblisti, a motivo del loro fondamentalismo. Semplicemente si pensa che la “teoria documentaria” sia stata completata da una sorta di “teoria dei frammenti”, che vede nel Pentateuco un collage di molteplici tradizioni veicolate in modo indipendente, nonché da una “teoria dei complementi”, che postula l'esistenza di un solo documento di base, in seguito ritoccato con l'aggiunta di testi complementari.

Questi esegeti restano fermi ai princìpi fondamentali della moderna critica biblica: 1) il principio di una scrittura tardiva dei testi la cui qualità di testimonianza è inevitabilmente indebolita; 2) il principio di una trasmissione orale, anteriore alla scrittura, con tutte le sue possibilità di “abbellimento”; 3) l'origine del testo ebraico della Genesi nelle mitologie pagane, pur rielaborate creativamente.

Parlare in ogni caso della Bibbia come di un “testo ideologicamente unitario” non ha alcun senso, anche se questa tesi fa comodo a chi vuole contrapporsi a una visione laica della vita. Peraltro tutti gli studiosi che si occupano della storia dell'antico Israele sono costretti a constatare una situazione quasi incredibile: testi storicamente significativi come Giudici e Re, ivi inclusi molti libri profetici, ignorano del tutto le prescrizioni del Pentateuco e in particolare le leggi. Peraltro alcuni biblisti preferiscono parlare di Esateuco, includendovi anche il libro di Giosuè, mentre altri addirittura di Ettateuco, aggiungendovi il libro dei Giudici, che narra l'ultima fase dell'insediamento in terra di Canaan.

Ad essere generosi si può dire che la storia narrata nella Bibbia va dalle origini del mondo fino al 561 a.C. (Genesi - 2 Re); oltre questa data gli avvenimenti sono documentati da testi non appartenenti al genere storico. Le più antiche redazioni scritte della Bibbia risalgono tutt'al più a quasi mezzo millennio dopo David, e l'intera odierna Bibbia ebraica (testo masoretico) fu fissata dagli ebrei di Palestina addirittura soltanto agli inizi dell'era cristiana; infatti dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dell'imperatore Tito non esisteva ancora un canone unico della Bibbia.

In sintesi. Resta indubbio che molte leggi o istituzioni del Pentateuco hanno avuto paralleli extra-biblici molto anteriori alle date che la critica attribuisce a tali documenti, per cui viene spontaneo affermare che le fonti scritte del Pentateuco siano l'esito di un lungo e tortuoso sviluppo, le cui origini si perdono nella notte dei tempi e le cui manipolazioni sono sempre state in funzione di una legittimazione dei poteri dominanti. Non dobbiamo dimenticare che quando in Palestina sorse il regno giudaico (verso il 1020 a.C.) s'era già conclusa la dissoluzione dell'antica società comunitaria, sostituita dalla nuova società classista.

Con ciò tuttavia non si vuol togliere nulla al fatto che le descrizioni riportate nella Genesi, relative alla creazione, siano di gran lunga più significative di qualunque altro racconto antico sul medesimo argomento.

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1.4) Le due versioni a confronto


Fonte Sacerdotale (cap. 1)


[1]In principio Dio creò il cielo e la terra. [2]Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.
[3]Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu. [4]Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre [5]e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.
[6]Dio disse: “Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque”. [7]Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. [8]Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.
[9]Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l'asciutto”. E così avvenne. [10]Dio chiamò l'asciutto terra e la massa delle acque mare. E Dio vide che era cosa buona. [11]E Dio disse: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie”. E così avvenne: [12]la terra produsse germogli, erbe che producono seme, ciascuna secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa buona. [13]E fu sera e fu mattina: terzo giorno.
[14]Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni [15]e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. E così avvenne: [16]Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. [17]Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra [18]e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. [19]E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
[20]Dio disse: “Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo”. [21]Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona. [22]Dio li benedisse: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra”. [23]E fu sera e fu mattina: quinto giorno.
[24]Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie”. E così avvenne: [25]Dio fece le bestie selvatiche secondo la loro specie e il bestiame secondo la propria specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che era cosa buona.
[26]E Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.

[27]Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.

[28]Dio li benedisse e disse loro:

“Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra;
soggiogatela e dominate
sui pesci del mare
e sugli uccelli del cielo
e su ogni essere vivente,
che striscia sulla terra”.

[29]Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. [30]A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”. E così avvenne. [31]Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno.

cap. 2

[1]Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. [2]Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. [3]Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. [4a] Queste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.

Fonte Jahvista (cap. 2)


[4b]Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, [5]nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo [6]e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo – [7]allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.
[8]Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. [9]Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. [10]Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. [11]Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avìla, dove c'è l'oro [12]e l'oro di quella terra è fine; qui c'è anche la resina odorosa e la pietra d'onice. [13]Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d'Etiopia. [14]Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l'Eufrate.
[15]Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.
[16]Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, [17]ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.
[18]Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. [19]Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. [20]Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. [21]Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. [22]Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. [23]Allora l'uomo disse:

“Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall'uomo è stata tolta”.

[24]Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. [25]Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.

cap. 3

[1]Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. [2]Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, [3]ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. [4]Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! [5]Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. [6]Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. [7]Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
[8]Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l'uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. [9]Ma il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: “Dove sei?”. [10]Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.
[11]Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”.
[12]Rispose l'uomo: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato”. [13]Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.

[14]Allora il Signore Dio disse al serpente:

“Poiché tu hai fatto questo,
sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche;
sul tuo ventre camminerai
e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
[15]Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno”.

[16]Alla donna disse:
“Moltiplicherò
i tuoi dolori e le tue gravidanze,
con dolore partorirai figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà”.

[17]All'uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell'albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
[18]Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l'erba campestre.
[19]Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!”.

[20]L'uomo chiamò la moglie Eva, perché essa fu la madre di tutti i viventi.
[21]Il Signore Dio fece all'uomo e alla donna tuniche di pelli e le vestì. [22]Il Signore Dio disse allora: “Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!”.
[23]Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. [24]Scacciò l'uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all'albero della vita.

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1.5) I due racconti della Creazione

Fonte sacerdotale

A) Il primo racconto della creazione (1,1 - 2,4a) viene attribuito ai circoli sacerdotali del Tempio di Gerusalemme e rivela un intenso lavoro di elaborazione teologica. Esso viene datato all'incirca intorno ai secoli VI-V a.C., epoca in cui gli ebrei si trovavano prigionieri a Babilonia e in cui si auspicava un destino migliore per il popolo d'Israele. Risente di un clima di attesa e non a caso il testo è coevo ai grandi libri profetici. I biblisti moderni usano parlare di una “creazione bagnata”, in cui tutto esce dalle acque.

In un certo senso può essere definito una piccola “apocalisse genetica”, anzi “rigenetica”, nel senso che il redattore vuol far coincidere la fine della storia del popolo ebraico (costretto all'esilio) col suo inizio; dalla tragedia della distruzione del regno si vuol passare al recupero delle origini, come se si volessero azzerare tutte quelle epoche in lui gli uomini hanno sperimentato solo gli aspetti negativi dell'antagonismo sociale. Qui infatti all'antropologia del racconto jahvista si preferisce la cosmologia.

Tutti gli esseri dell'universo vengono creati secondo un ordine crescente di dignità, di cui il vertice è l'essere umano: una sequenza di eventi che si conclude col riposo sabbatico. Nella teologia ebraica non è l'uomo che “dà senso” alle cose, in quanto egli stesso fa parte di questo “senso”; cioè all'interno del “creato” l'uomo è il ricettacolo del “senso” per eccellenza, che è cosa “datagli” dal creato stesso, tant'è che si parla di essere umano, maschile e femminile, a “immagine e somiglianza” di Dio, che è a sua volta maschile e femminile, in quanto lo “spirito” di Jahvè in ebraico si dice, al femminile, “ruach”: dunque “padre” e “madre”, “re” e “regina”.

La stessa nozione di “Dio” (Jahvè-Elohim) è il tentativo di dar un “senso ordinato” (“cosmos”) a un creato (o meglio a un'esistenza terrena) che non ha più senso (“caos”), a un creazione storico-terrena in cui l'essere umano ha perduto il significato della propria vita, avendo dato origine alle civiltà basate sullo schiavismo. Ciò che era “naturale” tra gli esseri umani è diventato “artificiale” (la separazione dei ceti e delle classi) e in questa artificiosità la nozione di “Dio” viene introdotta proprio per recuperare in maniera simbolica la naturalità perduta.

L'autore di Gen 1,1-2,4a non ha fatto altro che sintetizzare, in maniera molto originale, varie mitologie orientali e mesopotamiche, che ha conosciuto vivendo in esilio, con la storia del suo popolo. Nelle prime sette tavolette d'argilla dell'Enuma Elish (“Quando in alto”) sono descritte la creazione dei cieli e della Terra e di tutto ciò che vi è in essa, compreso l'uomo, e la lode a un eroe di sangue divino, Marduk, che poi è il Dio fondatore della città di Babilonia, che nel settimo giorno si riposò (cessò ogni suo lavoro), dopo aver abbattuto Tiamat, il drago del caos, e averlo separato in due: con una metà creò il cielo, e in esso gli astri, e con l'altra la Terra, e in essa gli esseri viventi. Marduk costruisce l'uomo dalla terra, ma invece di alitargli nelle narici il suo spirito vitale, mescola la pasta argillosa col sangue maledetto del Dio Kingu, il Dio ribelle ucciso da Marduk, sicché l'uomo diventa incline al male sin dalla nascita.

Anche la Genesi di Eridu, il poema di Gilgamesh o il poema assiro Atrahasis tendono a mostrare la creazione come una vittoria di Dio su forze malvagie, centrifughe, che tendono a riportare l'universo al nulla ch'era un tempo. La stessa creazione di Adamo è preceduta dall'epos sumerico della Creazione di Adapa. In genere anzi nell'antico oriente la creazione avveniva attraverso una battaglia tra opposte divinità, per cui il modello più significativo che rappresentava Dio era il guerriero intento a combattere.

La differenza sta nel fatto che il racconto ebraico, più sobrio e più concreto (tant'è che non si vede una cosmogonia di più dèi in conflitto tra loro, come p.es. nella Teogonia di Esiodo), concede meno spazio al mito e alle vicende fantastiche, e permette agli esseri umani di avere sempre un ruolo di primo piano. P.es. nell'epopea di Gilgamesh l'eroe, che vede l'immortalità appartenere solo agli dèi e a un unico uomo relegato in un'isola, è convinto, peraltro invano, di poterla ottenere individualmente. Nella Genesi invece l'albero della vita appartiene a tutti gli uomini e le donne dell'Eden e, per conservarne i frutti, si tratta soltanto di operare la scelta giusta: non c'è una condanna metafisica da subire con rassegnazione.

L'uso della parola “Elohim” sta comunque a indicare gli “dèi dei popoli mesopotamici”, di cui quello ebraico è parte integrante: un Dio per ciascun popolo. Tradurla come “theòs” o “deus”, intendendo un ente totalmente autonomo rispetto all'uomo e indipendente dal creato, un essere assoluto che esiste di per sé, chiuso nella propria autosufficienza, non ha alcun senso per la teologia ebraica.

Vi è anche chi sostiene che, pur essendo grammaticalmente plurale, Elohim, nella Genesi (5,22; 6,9-11; 17,18), non è che un “plurale d'eccellenza” o un “plurale astratto”, che esprime in sommo grado il concetto di divinità e, insieme, l'infinita molteplicità degli attributi che essa assomma in sé, contenendoli nella loro espressione assoluta, più elevata e pura. In Genesi 2-3 e in altri passi, l'identità di Elohim è fusa esplicitamente con quella di Jahvè e dunque la traduzione del primo versetto sarebbe “In principio (bereshit) Dio (Elohim) creò (bara‘) il cielo [anzi, secondo la cosmologia ebraica dell'epoca, 'i cieli', 'shamaim'] e la terra”.

Fonte jahvista

B) Il secondo racconto (2,4b - 3,24), che si reputa più antico (sec. X-IX a.C.), è attribuito alla tradizione jahvista, così chiamata perché designa Dio con il nome di Jahvè. I biblisti qui parlano di una “creazione asciutta”, in cui Dio deve far piovere per dar vita alla Terra, e l'uomo viene creato con la polvere.

Il racconto risale presumibilmente al periodo salomonico, o immediatamente successivo, epoca in cui le relazioni diplomatiche e i matrimoni del sovrano creavano un clima di intensi scambi con le altre culture, anche quelle del Vicino Oriente. Ma pur essendo nato in Israele, esso utilizza anche simboli e materiale mitologico delle culture vicine.

Il racconto appare più concreto dell'altro semplicemente perché cerca di focalizzare il momento in cui è avvenuta la separazione all'interno della comunità primitiva tra la proprietà collettiva dei beni e quella individuale, fonte di tutti gli antagonismi sociali. In tal senso vuol essere anche una critica alle illusioni della fase monarchica del popolo d'Israele.

Quello sacerdotale invece vuol far capire, pur nella sua inevitabile astrattezza, che, prima di questa separazione, gli esseri umani vivevano “felici” sulla Terra, in quanto non condizionati da conflitti di ceti o di classi. È ancora più mitologico dell'altro in quanto il redattore s'illude di poter far rivivere al popolo ebraico una nuova epopea, che riprenda i temi dell'antichità, attraverso la mediazione dell'alto clero, che si ritiene, autonomamente, l'unico ceto in grado di ridimensionare le ambizioni della monarchia giudaica.

Quando viene detto che furono creati “il cielo e la terra” si vuole appunto intendere qualcosa di positivo, che non comprende certo gli “inferi”. Insomma mentre in un racconto si vuol far sognare una primordiale età dell'oro; nell'altro invece si fa chiaramente capire che la perdita di questa felicità, con tutti i suoi prezzi da pagare, non può essere attribuita al caso o a qualche evento naturale, bensì allo stesso genere umano. I miti di creazione che provengono dal mondo extra-biblico spesso presentano una concezione negativa dell'uomo, considerato schiavo degli dèi, quindi non libero, non responsabile del male che compie.

La Bibbia, in sostanza, comincia a occuparsi della creazione in un'epoca relativamente recente, nel periodo post-esilico, quando i popoli che abitavano nella Mezzaluna fertile e in Egitto, da secoli si erano già interrogati su questo tema e avevano prodotto opere considerevoli. Questo ritardo può forse essere spiegato col fatto che l'ebraico era un popolo molto concreto, con un forte senso “storico” delle proprie tradizioni (basate prevalentemente sull'Esodo), poco avvezzo a porsi domande cui non era per nulla facile trovare risposte plausibili. Solo quando si trovò a dover riflettere su esperienze particolarmente negative, il genio creativo e culturale di questo popolo si cimentò anche in tale impresa.

Infine va detto che, benché le copie esistenti del più antico testo ebraico (almeno fino alle scoperte di Qûmran) risalivano solo al X secolo d.C., il confronto con la traduzione greca dei “Settanta” o “Septuaginta” (scritta dal 200 a.C. al 150 a.C. circa; i manoscritti più vecchi, ancora esistenti, risalgono al 325 d.C.), depone a favore di una trascrizione fedele da parte dei copisti e traduttori. Cosa confermata peraltro anche dalla scoperta, negli anni 1947-56, dei rotoli del mar Morto (manoscritti datati al periodo 200-100 a.C.): sono alcune piccole varianti sono state rilevate e nessuna cambia il significato di un brano.

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1.6) Cosmologia e antropologia

Fonte sacerdotale

La parola “Bereshit” (“In principio”) non sta a significare una creazione “dal nulla”, ma la continuazione in forma nuova di qualcosa di preesistente e quindi corrisponderebbe all'espressione “da quel momento in poi”, ovvero “quando Dio cominciò a creare i cieli e la terra, la terra era un vuoto caos” (“ex nihilo”, o meglio “ex ouk ontôn”, che significa “da ciò che non è”, è nozione ellenistica formulata solo a partire da 2 Mac 7,28, cioè verso il 100 a.C.). “Bereshit”, nella Bibbia, si usa sempre per indicare l'inizio di un regno, il punto di partenza di una nuova monarchia, ma anche la “primizia”, cioè la cosa più bella o più nobile.

Dunque il “nulla” nel testo della Genesi, non è in sé, come una determinazione metafisica, ma – si potrebbe quasi dire – coincide col fatto che all'origine della vita vi è l'acqua, suddivisa in acque planetarie, in cui gli animali possono vivere, e acque cosmiche, del tutto inaccessibili agli esseri viventi e sulle quali poggia lo stesso pianeta. La differenza tra le “acque” dei due racconti è che quelle “jahviste” sono il prodotto del lavoro, le “sacerdotali” invece della natura: due forme diverse di ricchezza.

Si deve quindi presumere che il testo sacerdotale della Genesi non si riferisca affatto alla nascita dell'universo ma semplicemente a uno sviluppo particolare della Terra, che da “informe” e “deserta” diventa “abitabile” o “praticabile”. Lo stesso verbo “bara'” (“creò”) in ebraico indica l'azione di “mettere ordine a una cosa che si trova in uno stato magmatico”, “creare una cosa meravigliosa, nuova, sorprendente”, ovvero “finalizzare le cose distinguendole, dando loro un significato preciso” (gli animali, p.es., vengono creati secondo la loro propria specie, nel senso di “specifico istinto” o peculiari caratteristiche): “separare” è un modo semitico per indicare la creazione.

Come tale, “bara'” viene usato nell'Antico Testamento solo in riferimento a Dio, benché indichi anche il lavoro del boscaiolo intento a tagliare un tronco, che dovrà poi consegnare a uno scultore perché lo modelli in maniera creativa.

La differenza sostanziale tra i due racconti della creazione sta nel fatto che mentre in quello jahvista la creazione dell'uomo è finalizzata a una gestione intelligente e produttiva della Terra, in quello sacerdotale appare invece come un completamento naturale dell'atto della creazione.

Nel primo racconto il protagonista della creazione, sino all'ultimo giorno, è Jahvè-Elohim, che crea l'uomo per puro senso della gratuità. Nel secondo il vero protagonista è l'uomo, creato allo scopo di governare la Terra. Vi è insomma una sorta d'involuzione dal materialismo naturalistico all'idealismo religioso.

Prima del riposo sabbatico viene compiuta l'ultima “fatica”, quella più importante di tutte: il parto dell'essere umano. Che si debba parlare di “parto” è testimoniato sin dal secondo versetto: [1,2] “Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

La parola ebraica “ruach” è infatti di genere femminile e indica una pluralità di significati: “vento”, “alito”, “respiro”, “soffio vitale”, “spirito”. Pur tradotta col termine neutro “pneuma” (di origine stoica) nella versione greca dei LXX e con il maschile “spiritus” nella Vulgata, essa suggerisce un'idea di leggerezza, di impalpabilità e, nello stesso tempo, di terrena concretezza. Assomiglia all'altro termine indicativo del lato femminile della divinità: “shekinah” (“pienezza di partecipazione”).

Certamente non ha nulla a che fare con l'anima, essendo inscindibili per gli ebrei lo spirito e il corpo. Dio qui appare come un vasaio che lavora l'argilla, la quale, per diventare “umana”, ha bisogno di mescolarsi con qualcosa di particolare. Occorre una sorta di fecondazione artificiale, in cui un elemento naturale venga penetrato e fecondato da un elemento extra-naturale.

Un riferimento all'elemento femminile venne attribuito allo spirito vitale da coloro che lo identificarono con la Sofia-Sapienza discesa dal Pleròma, o mondo superiore, per unirsi, come Madre, con l'elemento maschile, simboleggiato dalle “acque”. Gerolamo addirittura, riprendendo miti cosmogonici fenici, che vedevano il mondo come un uovo cosmico covato da Dio e poi esploso, usò verbi come “incubabat”, “fovebat”, che chiaramente facevano pensare a una partecipazione quasi materna alla creazione: la terra è “madre”. Dunque in luogo di “aleggiare” si sarebbe anche potuto tradurre “covare”.

[1,28] “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”.

La Terra va anzitutto “popolata”: è questo il primo compito degli esseri umani, e per poterlo fare in tutta tranquillità essi non devono avere rivali, non possono trovare ostacoli insormontabili che impediscano loro di realizzare questo compito.

Il verbo “kavash”, reso con “soggiogare”, non vuol significare l'esercizio di un potere illimitato sulla Terra, e il verbo “radah”, tradotto generalmente come “dominare”, possono essere intesi come “amministrare”, “governare”, “dirigere”, “guidare” (“radah” in ebraico significa “reggere, guidare, pascolare”: un'azione che può essere quella di un re ma anche di un semplice pastore.).

D'altra parte, presso il popolo d'Israele l'esercizio del potere sovrano non era mai concepito in maniera assolutistica: il re non doveva essere idolatrato (“selem”), e spesso i profeti mettevano il popolo in guardia verso i sovrani che volevano essere adorati come dèi.

Uomini e animali vengono creati nello stesso giorno: ciò che li differenzia è il fatto che solo gli umani sono “a immagine e somiglianza” del creatore. Gli animali paiono creati apposta per far sentire l'uomo superiore a loro. Nel racconto jahvista invece sembrano esistere solo nel momento in cui l'uomo, chiamandoli per nome, li identifica.

La ripetizione per ben sei volte dell'espressione: “e Dio vide che era cosa buona” (“tôv”), sta appunto a indicare che, anche a prescindere dall'esistenza dell'uomo, il mondo creato viene considerato dalla tradizione ebraica intrinsecamente “buono”, nel senso che l'essere, o meglio l'essere-artista, creativo, si compiace della sua opera d'arte. Quando viene creato l'uomo (l'ultima creazione, la più impegnativa) il testo ebraico usa l'espressione “tôv me'od”, cioè “cosa molto buona (o bella)”.

Ed è la parola che crea, il logos: per i semiti il verbo è la realtà più preziosa dell'essere umano. Anche il vangelo di Giovanni esordirà dicendo la stessa cosa.

La materia precede l'esistenza umana e il significato del genere umano non può andare oltre al fatto d'essere un ente intelligente di natura. Non esiste alcuna divinità oltre la materia e l'umano: come l'umano è all'origine dell'umano, la materia è all'origine della materia. Non è possibile immaginare un'eternità o un'infinità della materia senza immaginare la stessa cosa per l'essere umano. L'umano è tutto in potenza nella materia, è la materia che diventa atto consapevole di sé, estrinsecando la propria essenza.

La materia è in un mutamento continuo (automovimento), dove si scontrano forze opposte, che determinano ogni volta soluzioni inedite (autotrasformazione). La materia non può essere creata né distrutta ma solo trasformata, non nasce dal nulla e non può ritornare nel nulla. È sempre esistita ed esisterà sempre.

In ogni caso qui si ha a che fare con una fase storico-evolutiva differente da quella del racconto jahvista. Qui sembra d'essere ancora nella fase nomade, in cui l'uomo è “padrone” di tutta la Terra (da cui ottiene spontaneamente di che sfamarsi), e non tanto di una singola porzione di territorio, delimitata da confini, in cui deve svolgere un lavoro per poter vivere.

La fonte sacerdotale sembra voglia recuperare un passato irrimediabilmente perduto, proprio perché molto più lontano di quello anelato dalla fonte jahvista. La fonte sacerdotale resta inevitabilmente, per questa ragione, più astratta, più utopistica, più ideologica di quella che l'ha preceduta di mezzo millennio.

La parte più “clericale” di questa fonte non sta tanto nell'errata traduzione con la parola “Dio” del nome “Jahvè-Elohim” (presente già nel primo versetto), che al massimo poteva essere tradotto col nome “Uno-Molti”, “Essere-Altro”, “Io-Noi”, a indicare che per la mentalità ebraica risultava inconcepibile la solitudine di un'entità onnipotente.

L'“essere” non andava interpretato come una “divinità” distinta da una “umanità”. L'essere è “umano” sin dalle origini dell'universo, determinato al plurale, a partire dalla distinzione duale di genere. La differenza tra l'umano terrestre e l'umano cosmico sta unicamente nel diverso rapporto tra energia e materia, di cui non siamo ancora perfettamente consapevoli. In tutto l'universo, pur essendo presente una realtà materiale soggetta a degrado e perenne trasformazione, esiste anche una forma di energia assolutamente inesauribile e anzi in progressivo aumento: quella dell'autocoscienza, che deve per forza avere una propria corrispondente materialità.

Quando Cristo dice nel vangelo di Giovanni: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi?” (10,34), voleva in sostanza dire che se all'origine della creazione vi è stato un atto divino, ebbene questo venne compiuto da un essere umano. A differenza di tutti gli altri animali, gli uomini sono “divinità”, lo sono sicuramente in potenza.

Ma il clericalismo di questo racconto sta piuttosto nei versetti dedicati al sabato:

[2,1-3] “Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro ch'egli, creando, aveva fatto”.

La creazione viene concepita come un lavoro, una fatica del creatore, che la creatura deve appunto riconoscere rispettando la festività religiosa del sabato (che nell'altro racconto non esiste neppure). Alla creatura non è ancora dato il compito di “lavorare” ma solo quello di “riprodursi”, il che non lo rende molto diverso dagli animali: come se la differenza sessuale a fini riproduttivi fosse all'origine del senso della stessa creazione dell'universo.

È vero che in questa fonte viene esplicitamente dichiarato che “l'uomo è a immagine di Dio”, ma questa “fortuna” non viene “guadagnata” dall'uomo, viene elargita gratuitamente da chi appare di molto superiore all'umano, da chi vuole conservare una certa distanza dal proprio “prodotto”. Il Dio dei sacerdoti agisce sì come un “buon padre”, ma non “passeggia nel giardino” accanto alle proprie creature.

Resta comunque significativo che si giunga al vertice della creazione con la nascita dell'essere umano: evidentemente oltre l'umano non esiste nulla.

[1,29-30] “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”.

Non c'è un lavoro vero e proprio da compiere: l'uomo e la donna hanno già tutto il cibo che occorre loro per vivere (tutti gli esseri viventi sono vegetariani). Il fatto di “dominare” sui pesci e sugli uccelli non sta ancora a significare che gli uomini se ne debbano “cibare”. È un dominio più che altro simbolico, non foss'altro che per una ragione fondamentale: la tecnologia non permetteva certo all'uomo di poter sottomettere a sé tutte le risorse della natura. Non a caso agli albori della scienza moderna, in virtù della possibilità che la tecnologia offriva di “dominare” l'ambiente, vi fu chi pensò di poter far tornare l'uomo allo stato di natura, antecedente al peccato d'origine.

È infatti noto che la visione strumentale della natura e quell'atteggiamento d'indifferenza morale verso gli esseri viventi non umani, frutto della mentalità occidentale moderna, si avvalgono di riferimenti biblici e riflessioni teologiche che fanno risalire proprio al racconto della Genesi il primato dell'antropocentrismo sul naturalismo.

[1,26-27] “E Dio disse: – Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.

Dio creò l'uomo a sua immagine: maschio e femmina li creò. Il testo originale dice: “Dio ('elohim) creò (bara') l'uomo a sua immagine (betzalmo); lo creò a immagine di Dio (betzelem 'elohim bara' 'oto); maschio e femmina li creò (zakar uneqevah bara' 'otam)”. Qui si parla di “uomo” in senso lato, a prescindere da qualunque differenza che non sia quella di genere. Viceversa nella letteratura extra-biblica più antica, in oriente, solo il sovrano poteva pretendere d'essere lo specchio di Dio.

“Zelem” (o “selem”) indica la statua, plasticamente simile alla realtà. “Somiglianza” invece è traduzione della parola “demut”, un astratto che indica una somiglianza più fluida, meno precisa. L'uomo è molto simile all'archetipo ma non identico.

Come si può notare il plurale “li creò” compare solo dopo la distinzione “maschio/femmina”, mentre la parte iniziale del versetto biblico è al singolare, “lo creò”: tale distinzione è finalizzata a una possibilità di relazione che si realizza pienamente nell'unione della coppia (“'adam wechawah”, “Adamo ed Eva”), mediante cui essa diviene un'unica realtà che rimanda all'originario Esserci e che esprime l'unità nella diversità dei generi.

Gli esseri umani, creati contemporaneamente nella loro distinzione sessuale, appaiono soltanto dopo la creazione della Terra, ma qui non viene detto, come invece nell'altro racconto, che loro stessi sono fatti di terra, benché dotati, a differenza degli animali, di “spirito vitale”.

Da notare che la scienza del tempo, ereditata poi dal cristianesimo, era “monogenista”, in quanto faceva discendere tutta l'umanità da un tipo primigenio e unico, per quanto nel racconto jahvista proprio la presenza dell'albero della conoscenza del bene e del male deve far necessariamente supporre la presenza di altre popolazioni, il cui stile di vita veniva considerato “vietato” nell'ambito dell'Eden.

In questo racconto non viene detto che erano “nudi”, eppure i progenitori hanno come unico compito quello di “riprodursi”. La cosa verrà ribadita anche nel racconto del diluvio: “siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 9,1), cioè “siate moltitudini”, come se la “riproduzione” fosse il compito principale del genere umano. Non a caso mentre per noi “storia” vuol dire “indagine”, “ricerca”, la parola ebraica “toledot” significa invece “generazioni”, riproduzione sessuale. È un invito ad amarsi nonostante tutte le possibili differenze. Anche in questo è ben visibile il limite moralistico dell'ideologia religiosa.

È evidente che qui la riproduzione viene considerata come una forma di responsabilità personale, da sottrarsi all'istintività puramente animale. La riproduzione non deve essere avvertita né come un obbligo (qui è semplicemente un invito), né come una fatalità imposta dall'alto, né come una forza cieca, istintiva, del tutto spontanea, proprio perché alla riproduzione gli esseri umani devono dedicare particolare cura e attenzione. “Siate fecondi” infatti può anche voler dire “amatevi” e non soltanto “riproducetevi”, come d'altra parte si evince nel rapporto di coppia del racconto jahvitico, pur essendo esso impostato sul tema dell'innocenza primordiale, quasi priva di sessualità. Quel “facciamo” non indica solo che all'origine della creazione vi è un'entità collettiva, ma anche che questa entità ha sicuramente caratteristiche “umane” e che, in tale umanità, si sta riproducendo.

All'origine della creazione vi è stata una sorta di “parto umano”, generata da una fecondazione aventi caratteristiche analoghe a quelle umane. Sia in ebraico che in arabo Dio viene anche chiamato “rachman”, che significa “colui che ha l'utero”: il concetto di “misericordia” è espresso dal concetto femminile di “rechem”, cioè “utero”.

Insomma siamo stati creati per diventare a nostra volta creatori, generatori di semi che fecondano uova. In tale processo evolutivo mutano soltanto le potenzialità operative, relative al diverso ambiente spazio-temporale, alle diverse dimensioni di vivibilità dell'essere e dell'esserci.

Quanto alla creazione materiale vera e propria va detto che l'autore, benché il testo sia stato strumentalizzato dai fondamentalisti per opporre creazionismo a evoluzionismo, pone una sorta di progresso nella formazione delle specie, in quanto mostra d'avere consapevolezza che i mammiferi vengono dopo gli uccelli e gli uccelli dopo i pesci.

L'immagine della Terra “tohu” e “bohu”, “deserta” e “informe” (“aóratos”, cioè “invisibile”, e “akataskéuastos”, “disordinata”, si legge nel testo greco dei Settanta), indica non tanto un demiurgo che (come nel Timeo platonico) plasma una materia preesistente, quanto la traccia di un disegno creativo ed evolutivo presente da sempre nella mente della divinità-logos, che si sarebbe poi fatta carne, stando ai cristiani, nella persona del Cristo, come se il Cristo fosse l'unico vero dio-uomo all'origine di tutto.

La creazione della luce prima degli astri è stata vista con ironia dagli esegeti laicisti. Oggi invece si ritiene, senza per questo tentare inutili “concordismi” tra religione e scienza, che sia stata una intuizione geniale, in quanto avvicina di più il momento biblico della creazione a quello moderno del cosiddetto “big bang”, in cui un'esplosione di luce è avvenuta nel buio più totale, generando astri che si vanno espandendo nell'universo. In tal senso la creazione andrebbe vista come un evento luminoso nelle tenebre e non tanto come la trasformazione di un caos primordiale in un ordine razionale.

La tenebra non sarebbe che l'assoluta semplicità delle cose, in cui non si riescono a distinguere le singole parti. Non ci sarebbe dunque stato un disordine primordiale ma una semplicità allo stato puro, quale può essere quella di un neonato al cospetto di un adulto. L'infanzia dell'umanità è a immagine e somiglianza dell'infanzia dell'universo.

Nelle tenebre, con la loro semplicità indistinta, si forma improvvisamente la luce, che permette anzitutto di distinguere il giorno dalla notte, il buio dalla stessa luce.

La tenebra è più oscura del buio assoluto, è “divina caligine”, come diceva l'Areopagita, luce inaccessibile. L'essere è quel che è (“Io sono colui che sono”, sentenzia Jahvè): la sostanza è forma, il contenuto è metodo, l'interno è l'esterno, la libertà è la necessità, la potenza è l'atto, la memoria è desiderio e tutto è racchiuso, concentrato, in un unico punto, senza dispersione, senza divisione.

La creazione è stata generata da un'entità che, pur nella propria essenziale semplicità, aveva in sé, potenzialmente, tutta la complessità più infinita, esattamente come il cervello di un qualunque neonato ha in sé le capacità di svilupparsi, condizioni esterne permettendo, senza alcun limite.

Chi usa il concetto di “Dio” in antitesi a quello di “uomo”, tradisce l'uomo, lo mortifica e lo induce ad accettare ciò che lo umilia. L'ateismo è la prima forma umana di emancipazione dal servilismo della religione. È la risposta più adeguata alla domanda di libertà di coscienza. Non a caso qui il tempo è una creazione successiva a quella della luce. La velocità della luce è la misurazione del tempo. “E fu sera e fu mattina”.

Meno facile da capire è la separazione delle acque terrene dalle acque celesti mediante il firmamento. Anche qui le traduzioni fanno perdere al testo il significato originario. Le parole ebraiche “shamayin” (v. 1) e “raqia” (v. 8) andavano tradotte come “cieli” e “volta celeste” (“parete solida”).

Pur con la loro cosmologia fissista e geocentrica gli ebrei già avevano intuito che i “cieli” (l'universo) erano molto più estesi e infiniti del firmamento (il cielo, l'atmosfera) che contiene o racchiude la Terra. I “cieli” sarebbero stati pieni non di aria o di fuoco o di “vuoto”, ma di “acque”. La Terra, per gli ebrei, era come un feto immerso nelle acque di un utero cosmico, al di fuori del quale vi erano altre acque. Paolo di Tarso parla di “creazione che soffre le doglie del parto” (Rm 8,22).

Per molto tempo si è pensato che la Terra, in sé immobile, galleggiasse sugli oceani, mentre il cielo non era che una cupola di cristallo che poggiava sui bordi del mondo. La luce poteva anche non provenire dal Sole. In fondo è solo un'acquisizione recente che il nostro pianeta, coi suoi movimenti di rotazione e di rivoluzione, sia in realtà sospeso nel vuoto. Non dimentichiamo che gli astronauti fanno molte simulazioni proprio stando sommersi nelle acque delle piscine.

Impossibile comunque non vedere qui l'idea di un'origine acquatica della vita sulla Terra. Viene anzi detto esplicitamente che le terre emerse sono il prodotto di un prosciugamento delle acque. Fuoco e Acqua sono per gli ebrei più primordiali o comunque più significativi di Terra e Aria.

Ancora meno facile da capire è come possa esserci la luce e la vita stessa sulla Terra, prima ancora che siano stati creati il Sole e la Luna. Qui evidentemente si è in presenza di un equivoco. La luce di cui s'era parlato prima non può essere quella stessa prodotta dal Sole. Anzi lo stesso Sole è un prodotto della luce.

Sole, Luna, stelle servono più che altro per dare il senso del tempo agli esseri viventi, che devono ancora essere creati. Il tempo precede l'esserci, lo costituisce come tale, tant'è che subito dopo vengono creati gli esseri viventi, prima animali (nelle acque e nel cielo) e poi umani (sulle terre emerse).

La luce era un atto spontaneo di autocreazione della materia, senza finalità eteronoma. L'essere umano invece pare sia un atto di consapevole autopromozione, con evidente finalità eteronoma.

Fonte jahvista

La funzione di questo racconto non è quella di raccontare l'evoluzione dell'universo o del pianeta Terra, cui dedica un mezzo versetto ([2,4b] “Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo”), quanto quella di raccontare la formazione e la caduta del genere umano.

Sotto questo aspetto i due racconti non sembrano affatto in contraddizione tra loro, semplicemente esprimono due posizioni diverse: quello sacerdotale è di tipo filosofico-astratto (una cosmogonia vera e propria), quello jahvista è di tipo socio-esistenziale (una sorta di antropogonia).

Là dove l'uomo lavora sentendosi solo, al punto d'aver bisogno di qualche animale per potersi relazionare con qualcuno, e che poi, non trovando soddisfazione, si rasserena solo in presenza d'una compagna umana di sesso femminile, in grado di collaborare alla pari con lui, i sacerdoti preferiscono invece vedere un uomo interiormente felice, pago d'essere stato posto da un Dio onnipotente in un pianeta ricco di risorse, e che è già, secondo natura, maschio e femmina, preposto alla riproduzione, un uomo che materialmente non “lavora”, come nel racconto jahvista, ma semplicemente raccoglie i frutti della terra.

Adamo, cioè una determinata popolazione tribale, vive nell'Eden, l'ultima zona di una determinata regione (Mezzaluna fertile?) in cui è ancora possibile vivere dei rapporti umani all'insegna della libertà. Al di fuori vi è l'inferno dello schiavismo.

Adamo vive circondato e si sente solo: ha bisogno di trovare una compagna cui infondere piena fiducia. Vede solo nemici attorno a sé e non può certo trovare appagamento nel semplice mondo animale.

L'autore di questo racconto, che forse sta pensando alle difficoltà di un rapporto uomo-uomo nell'ambito delle civiltà schiavistiche, s'illude di poter trovare un'alternativa in quello uomo-donna, in cui la componente sessuale e riproduttiva può giocare un ruolo favorevole alla sua realizzazione.

Ma un uomo che cerca il recupero di sé soltanto nel rapporto con la donna, è già prossimo alla caduta. È un uomo la cui comunità d'origine sta diventando sempre meno significativa, sempre meno vincolante. Il dramma della sconfitta definitiva del villaggio, oppresso dagli appetiti delle città confinanti, è annunciato.

E tuttavia è stata grande l'abilità redazionale nel mostrare la nascita della donna come un aspetto strutturale all'esserci, che nella propria debolezza (il “torpore profondo”) partorisce ciò che virtualmente dovrebbe dargli forza.

[2,5-6] “... nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo”.

[2,15] “Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”.

La Terra non va “dominata” (“radah”) o “soggiogata” (“kavash”) – come nell'altro racconto, seppure le traduzioni non rispecchino fedelmente il senso dell'originale –, ma “governata”, “organizzata”, nel senso di “coltivata” (“'abad”) e “custodita” (“shamar”), e il riferimento geografico non è tanto la Terra, come nell'altra versione, quanto piuttosto un giardino (un bosco, una foresta) o comunque una porzione di territorio delimitata da confini.

La Terra comunque era già stata popolata, e anzi si è già passati dalla fase nomade (in cui l'uomo è semplice raccoglitore) a quella stanziale (in cui diventa agricoltore). I popoli, con le loro diverse identità (poligenismo), si sono già formati nelle loro rispettive identità, prendendo possesso di determinati territori.

Ciò che differenzia gli uomini dagli animali è proprio la capacità lavorativa, con cui si possono trasformare le cose. Nei miti antichi spesso si parla del lavoro, ma viene sempre presentato in termini negativi, come un'attività servile alla quale l'uomo non può sottrarsi, che non ha scelto di fare e che svolge a vantaggio esclusivo della divinità o di chi sta al potere. Qui invece il lavoro appartiene in maniera naturale alla vocazione umana; ogni attività rientra in qualche modo nell'imperativo che Dio rivolge all'uomo, quello di “coltivare e custodire” il giardino nel quale egli si trova. In particolare il verbo “'abad” indica sia il lavoro, sia il servizio o anche il culto, nel senso che l'uomo edenico deve custodire qualcosa che non gli appartiene ma che gli viene dato in usufrutto.

In questo racconto la presenza dell'acqua è praticamente scontata, ma non quella utile alla vita, che faceva spuntare l'erba campestre. L'assenza di irrigazione rendeva la Terra invivibile, almeno per l'uomo, se non per tutti gli esseri viventi sulla superficie terrestre.

[2,7] “... allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente”.

Gli esseri umani dispongono di un qualcosa in più rispetto agli altri animali: “un alito di vita” che li rendono “esseri viventi”. Lo “spirito vitale”, che nell'originale è detto “neshamah”, nella Bibbia ricorre 24 volte e sempre in riferimento o a Dio o all'uomo. Nei Proverbi viene addirittura detto che lo spirito vitale “scruta tutte le camere oscure del ventre” (20,27), cioè scava nell'inconscio. Gli animali non hanno la “neshamah” proprio perché non hanno potere introspettivo, non hanno autocoscienza. Ed è questo particolare elemento che ci fa capire che all'origine della creazione e quindi del genere umano vi è una materia pensante e senziente.

[2,16-17] “Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: – Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”.

I progenitori (simbolo di un'umanità “innocente”) potevano ancora vivere in un luogo delimitato, dai confini sempre più angusti, oltre i quali la vita non era più “paradisiaca” ma “infernale”. Esisteva cioè un luogo migliore di altri (Eden), che poteva essere oggetto di invidia, di avidità da parte di chi aveva già sperimentato o scelto l'antagonismo sociale.

Lo attesta la stessa presenza, all'interno dell'Eden, di qualcosa di proibito, da cui i progenitori devono tenersi alla larga: l'albero della conoscenza del bene e del male, che in latino fu detto “melo” (“malus”), in quanto è comune la radice con “male” (“malus”).

Gli uomini possono mangiare i frutti dell'albero della vita, che assicura l'innocenza-uguaglianza, cioè l'esperienza della libertà (dalla schiavitù), ma non devono lasciarsi tentare dai frutti di un albero che mistifica le cose, che fa credere vere le cose false e false quelle vere. Questo albero è lì a testimoniare che l'Eden ormai è diventato un'eccezione e che oltre i suoi confini si vive nella colpa.

Gli uomini dell'Eden sanno già che esiste la “colpa”, che è l'arbitrio della proprietà privata, ma non la vivono al loro interno: conoscono già il male come realtà esterna alla loro comunità.

L'albero della conoscenza quindi rappresenta la presunzione di stabilire individualmente che il male esterno alla comunità non è più “male”. È l'albero del libero arbitrio, cioè della possibilità di scelta, che è sempre condizionata dalle circostanze, ma che, in ultima istanza, dipende dalla coscienza dell'essere umano. L'esperienza della libertà non può ovviamente essere imposta, essa ogni volta va ridecisa.

Chi mangerà il frutto del male smetterà di vivere positivamente, vivrà come se fosse “morto”, cioè senza innocenza, senza certezza del bene, vivrà con l'angoscia della colpa.

Una volta posto l'arbitrio, all'esterno di un collettivo tribale rimasto ancora non colpevole, i due alberi devono inevitabilmente convivere nell'Eden, anche se solo uno, quello positivo, è piantato in centro. Chi trasgredisce il divieto di considerare lecito l'illecito, dovrà per forza essere espulso dal “paradiso”, altrimenti, non rendendosi conto della gravità della colpa, finirebbe col diffonderla a quanti sono rimasti ancora innocenti.

Il racconto vuole essere emblematico di una transizione dalla fase della comunità primitiva a quella della formazione della civiltà urbana, la cui divisione in ceti e classi è alla base di tutte le altre caratteristiche sociali, culturali e politiche.

Adamo ed Eva non verranno cacciati dall'Eden in quanto conoscitori del bene e del male, ma in quanto seguaci, in tale conoscenza, del male. “È stata lei”, dirà Adamo. “È stato il serpente”, dirà Eva.

[2,18] “Poi il Signore Dio disse: – Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. [19] Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. [20] Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. [21] Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. [22] Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. [23] Allora l'uomo disse:

– Questa volta essa

è carne dalla mia carne

e osso dalle mie ossa.

La si chiamerà donna

perché dall'uomo è stata tolta.

[24] Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. [25] Ora tutti e due erano nudi, l'uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna”.

Nel racconto sacerdotale uomo e donna vengono creati insieme, a immagine di Dio. Qui invece vi è una successione temporale, un processo evolutivo che sembra essere determinato da una situazione di inadeguatezza esistenziale: la solitudine, che dà tristezza, malinconia. Adamo ('adam, singolare collettivo con cui si indica l'umanità, una popolazione umana) viene creato dalla terra ('adamah), ma la materia, in sé, non è sufficiente a definire l'umano: occorre precisare, di quest'ultimo, il lato femminile, un aiuto (‘ezer) che gli sia di fronte o accanto e nel contempo gli sia contrapposto (ki-negdò), come antitesi che assicuri il processo dialettico, un partner alla pari ma diverso. Nella letteratura sumerica “ti” significa sia “donna” che “costola”.

Come all'origine della creazione della donna vi è la malinconia dell'uomo, così all'origine della creazione dell'uomo vi è una malinconia cosmica. Infatti la creazione, nel linguaggio semitico, è stata un'opera giocosa per vincere una sorta di malinconia. La cosmologia cabalistica ebraica con la parola intraducibile “tzimtzum” indica una certa impotenza divina, che si ritrae dalla propria “tuttezza” proprio nel momento in cui crea. Tale “contrazione divina” sarebbe visibile proprio nell'uso della “parola”. La divinità si fa “umana” nel momento stesso in cui crea come “logos”.

La donna (o meglio la “uoma”, stando all'ebraico “'ishah”) diviene “atto” perché è già in “potenza” nell'uomo (“'ish”). Il lato femminile dell'uomo si materializza nel momento della debolezza esistenziale: l'uomo non può stare solo e tutti gli altri animali non colmano il vuoto che lo intristisce. Questo spiega il motivo per cui in origine non c'era un rapporto di dominio dell'uomo nei confronti della donna: l'uguaglianza sociale garantiva quella familiare e interpersonale. Proprio perché si sapeva che in origine vi è il due e non l'uno.

Pur essendo presente una qualche separazione dei sessi, il racconto mostra che il rapporto maschio-femmina è strutturale all'essere e quindi anche all'essere umano (che è uno e bino) e agli esseri animali (dove persino i casi di ermafroditismo presentano caratteri sessuali maschili e femminili).

La donna non viene più considerata, a motivo della sua debolezza fisica, un essere inferiore preposto alla procreazione e a tutte le attività correlate a tale compito, ma viene considerata un essere di pari dignità umana. Se dopo l'uomo vi è la donna, dopo la donna non vi è più nulla. Vi è solo, per entrambi, la possibilità di riprodursi. La donna, con la sua bellezza e quindi con la sua capacità di attrarre sessualmente l'uomo, rappresenta il limite massimo che l'etica può raggiungere senza negare se stessa. L'estetica è una componente inscindibile dell'etica, che si estrinseca nella donna in maniera accentuata, e che viene in un certo senso “contenuta” da limiti organici, strutturali, come il ciclo mestruale, il parto, la debolezza fisica nei confronti dell'uomo. L'uomo che approfitta di questi limiti per imporsi, facilmente trasforma la discriminazione di genere in una discriminazione a tutti i livelli, sociale, culturale e politica, anche se, generalmente, la discriminazione di genere (nell'ambito privato) è una conseguenza di quella sociale.

Nel racconto sacerdotale non si ha la percezione di questa evoluzione esistenziale nei rapporti personali tra i sessi. L'uguaglianza, sancita nel primo racconto, è astratta, offerta dalla natura come cosa scontata, in quanto la riproduzione è strettamente correlata alla divisione dei sessi, e in tale divisione, essendo primordiale a tutto, esiste uguaglianza ontologica.

Qui invece l'uguaglianza diventa un fatto storicamente acquisito. L'uomo s'accorge da solo d'avere al suo fianco un essere umano diverso, che è a un tempo suo simile e altro da sé. E probabilmente se ne accorge nel momento del bisogno, quando cioè con le sue sole risorse maschili non è più in grado di risolvere i problemi che lo affliggono. L'uomo prende progressivamente consapevolezza che la donna non va governata come gli animali, ma va amata e rispettata come se stesso.

Il redattore vuole recuperare con la donna un rapporto che nella fase monarchica del regno s'era probabilmente perduto. In tal senso non è affatto favorevole al ripristino di una tipologia di famiglia allargata di tipo patriarcale, in cui il ruolo della donna resta subordinato a quello dell'uomo. Proprio il bisogno di cercare un partner alla pari sta ad indicare una certa evoluzione verso il rapporto democratico della coppia.

[2,24] “Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”.

Il rifiuto dei matrimoni combinati qui appare netto. La ricerca del partner giusto è di fondamentale importanza ai fini dell'umana riproduzione; lo è molto di più che nel mondo animale, in quanto occorre trovare un'intesa anche sul piano affettivo. Se non si avvertisse forte il bisogno di diventare adulti, lasciando i propri genitori, si resterebbe sempre “figli”.

In questo racconto viene precisato ch'erano “nudi e non se ne vergognavano”. Ciò appare come una sorta di ultima spiaggia dell'innocenza che stanno per perdere, a causa delle pressioni esterne favorevoli allo schiavismo, in cui solo lo schiavo è tenuto nudo per disprezzo, mentre lo schiavista è completamente vestito.

Evidentemente gli ebrei dovevano sapere che nelle comunità tribali la nudità era osservata con occhi innocenti, infantili, come una condizione naturale dell'essere umano. Sapevano cioè che in queste comunità non era sufficiente l'osservazione della nudità per far scattare il desiderio.

Questo perché gli uomini non attribuivano al sesso l'importanza che gli viene attribuita nelle civiltà antagoniste, per la realizzazione di sé. Anzi, se il sesso, ai primordi dell'umanità, veniva visto più che altro in funzione della riproduzione, è facile che fosse la sola donna a regolamentare i rapporti sessuali. E in tale regolazione è molto probabile che l'impulso sessuale fosse connesso ai ritmi o cicli della natura e delle stagioni, in maniera analoga al mondo animale. E che quindi la diversità del rapporto uomo-donna, rispetto a quello del mondo animale, non avesse un collegamento particolare con la sfera sessuale, ma semmai con quella affettiva.

Quando i nostri progenitori perderanno l'innocenza, a motivo dell'arbitrio, s'accorgeranno che la differenza sessuale poteva costituire un “problema” nel rapporto equilibrato tra i generi. La tendenza sarà infatti quella di riprodurre nel privato coniugale le stesse contraddizioni presenti nel pubblico della vita sociale: là dove domina la proprietà privata dei mezzi produttivi, lì può affermarsi un desiderio egoistico di appropriazione, da parte dell'uomo, nei confronti della donna. La differenza sessuale può essere percepita come occasione di violenza sul corpo, fisicamente più debole, della donna, la quale, a un certo punto, sarà indotta o verrà costretta a coprirsi.

[3,1] “Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: – È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino? [2] Rispose la donna al serpente: – Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, [3] ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete. [4] Ma il serpente disse alla donna: – Non morirete affatto! [5] Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. [6] Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. [7] Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Il serpente è il simbolo del male esterno all'Eden, intenzionato a entrarvi. È astuto perché sa che deve mentire per farsi accettare. La sua è una sapienza rovesciata, al negativo, favorevole all'individualismo.

Deve dimostrare che la trasgressione del divieto, l'affermazione dell'arbitrio contro regole condivise, non porta alla morte della schiavitù ma a una vita di libertà. E non gli sarà difficile. Infatti chi ormai è costretto a vivere la libertà solo a condizione di rispettare un divieto, può facilmente illudersi, se non comprende la vera necessità del divieto, che, una volta trasgredito, una certa condizione sociale e personale o una certa situazione ambientale migliorerà in maniera decisiva.

Qui il serpente si rivolge agli ultimi, facendo loro credere che potranno diventare i primi. Il conflitto tra civiltà urbana e comunità rurale è pressante. Si tratta di confermare o smentire una scelta di vita, la quale viene fatta ogni volta che nella storia s'incontra l'opzione libertà-schiavitù, ovviamente con gradi diversi di condizionamento, dettati dai diversi contesti ambientali. Il dogma cattolico-romano del peccato originale, secondo cui la colpa si trasmette geneticamente, non fa che favorire, in tal senso, la soggezione dell'uomo ai poteri dominanti.

La colpa non era inevitabile, la caduta non era necessaria. Si trattava soltanto di rispettare delle regole comuni. La debolezza però ha prevalso. Dalla debolezza dell'uomo è nata la donna, dalla debolezza della donna è nata la civiltà ed è finito il comunismo primitivo.

La donna che cede per prima non rappresenta che la parte più debole (maschile e femminile) della comunità primitiva in via di dissoluzione. La sua decisione, all'inizio minoritaria, diverrà a un certo punto maggioritaria, determinando il definitivo trapasso alla civiltà schiavista.

Una serie di debolezze ha prodotto la colpa, la rottura dei legami tribali originari, la nascita dell'individualismo. Ognuno ha scaricato su altri la responsabilità della colpa: “È stata lei”, “È stato il serpente”.

Non poteva esserci la colpa se non nella consapevolezza del bene e del male, solo che con la colpa il male si è interiorizzato. E ora, anche conoscendo la differenza (qui espressa da un modo diverso di guardare la nudità), non si è più capaci di bene, non si riesce a tornare indietro come se nulla fosse accaduto, non ci sono più le condizioni esterne per rieducarsi alla comunanza dei beni. Ora bisogna ricrearle con uno sforzo di volontà. Senza rivoluzione dei rapporti di proprietà, il senso di umanità dell'uomo non ha futuro.

[2,15] “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.

Il trapasso dal comunismo primitivo alla civiltà resta tuttavia antinomico: il senso innato della libertà lo rifiuta. Di qui la lotta incessante tra bene e male, espressa nelle parole: “porrò un duello incessante (“'ohebah” significa “scontro continuo”) tra il tuo seme (l'istanza di liberazione) e il suo seme (l'esperienza della schiavitù)”. Eva qui rappresenta l'umanità che si pente d'aver scelto l'individualismo.

Inevitabilmente, guastandosi i rapporti tra libertà edenica e schiavitù nell'ambito sociale, si sono guastati anche i rapporti tra uomo e donna nel rapporto interpersonale. Nell'originale ebraico è molto evidente che il dominio esercitato dall'uomo sulla donna è analogo a quello del sovrano nei confronti dei propri sudditi.

Ricco o povero che sia, l'uomo, reso schiavo dal proprio arbitrio, tende a schiavizzare la donna. Soltanto l'uomo libero può continuare a dire: “osso delle mia ossa, carne della mia carne”, cioè può riconoscere l'altro da sé come suo simile.

[2,16] “Alla donna Dio disse:

– Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze,

con dolore partorirai figli.

Verso tuo marito sarà il tuo istinto,

ma egli ti dominerà”.

Partorire diventa una maledizione per la donna che vi è costretta, per la donna che non lo sceglie sulla base delle proprie esigenze vitali, per la donna che non può più accettarlo in un contesto naturale di uguaglianza sociale e personale. Con la caduta la riproduzione non è più un fenomeno naturale ma un problema.

Lo stesso vale per chiunque svolga un lavoro: “Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita” (2,17). La schiavitù rende orribile qualunque cosa si faccia, anche se, per attenuarne il peso, la si interiorizza come abitudine.

Una volta creati, gli esseri umani non possono più morire (in quanto la materia è eterna), ma possono esserlo in senso spirituale; ecco perché era giusto il significato del divieto: l'individualismo uccide lo spirito; la disperazione è la malattia mortale, direbbe Kierkegaard.

Quel che si è perduta è stata la familiarità con l'origine, e si è reciso il legame con la comunità primitiva: l'uomo s'è improvvisamente trovato “nudo”, cioè solo, senza protezione, diverso da quel che era, bisognoso di mascherarsi.

È singolare come il clericalismo abbia voluto attribuire delle caratteristiche “teologiche” a un racconto del tutto antropocentrico, in cui l'essere e l'esserci condividevano un destino comune, senza avvertire tra loro alcuna differenza di sostanza, benché qui sia più esatto dire che in luogo dell'antropomorfismo delle religioni politeistiche, l'ebraismo ha preferito, ponendo l'uomo a immagine di Dio, una sorta di teomorfismo.

In effetti un “Dio” che passeggia nell'Eden non poteva certo essere superiore a un qualunque capo-tribù o anziano del villaggio, o al massimo poteva essere paragonato a un visir che nei grandi parchi e giardini pensili di Babilonia dialogava coi suoi sudditi privilegiati.

Qualunque riflessione “teologica” resta comunque un'astrazione senza senso, poiché il postulato che dà per scontato (l'esistenza di Dio) è, come disse Kant, indimostrabile. Più interessanti risultano quelle speculazioni religiose che asseriscono la totale incomprensibilità dell'esistenza divina, ma in queste teorie l'apofatismo è a un passo dall'ateismo.

Riassumendo

L'essere donna è il massimo di estetica possibile nell'ambito di un'etica venuta meno o indebolita. E questa forma di estetica, perché non abbia a perdersi, è fissata entro limiti fisici che la inducono all'eticità, pur sempre nella libertà di scelta, che resta ovviamente intangibile. Questo a dimostrazione che la natura umana può restare se stessa entro un range prestabilito.

Quando gli antichi filosofi e teologi sostenevano che la donna era un errore della natura o un uomo mancato o malriuscito, non si rendevano conto che ciò non era dovuto al caso, ma proprio alla debolezza del sesso maschile, che non riesce a restare coerente con la propria etica; e soprattutto non capivano che tale incoerenza è del tutto naturale e che non implica affatto un giudizio negativo né sull'uomo né sulla donna.

La donna è l'espressione sublime di una sofferenza umana, una sofferenza poco comprensibile, ma inevitabile, che rientra nella natura delle cose. Il genere femminile è una forma di consolazione all'incapacità maschile di restare coerente, in maniera assoluta, ai propri valori o ideali di vita. È cioè la dimostrazione che siamo “umani” e che dobbiamo accettarci nelle nostre debolezze. È, se vogliamo, una forma di simbolizzazione del fatto che l'imperfezione è parte organica della natura e, in particolare, della natura umana. Senza la donna, l'uomo sarebbe meno tollerante e, di fronte, alla propria incoerenza, inevitabilmente più falso.

Ecco perché, se è giusto che nel Genesi si dica che l'uomo e la donna furono creati insieme (contemporaneamente), a immagine della divinità, la quale quindi era “umana” come loro, è anche giusto che si dica che la donna è uscita dal costato di un uomo malinconico, che ha creduto di ritrovare in lei una felicità perduta, una serenità tutta interiore, che nessun altro essere vivente poteva assicurare.

Chi non comprende che all'origine di tutto non vi è l'uno bensì il due, non comprende nulla della vita, nulla della natura e nulla del rapporto di coppia.

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1.7) Conclusione

La religione nasce quando i problemi della vita vengono percepiti come troppo difficili da affrontare con soluzioni di tipo naturale. Quanto più le contraddizioni si acuiscono, tanto più, in assenza di progetti alternativi all'antagonismo sociale, si cerca di risolverle in maniera astratta o riduttiva, trasformando le proprie aspettative in un'istanza sovratemporale, in cui l'azione riparatrice di qualcuno viene considerata miracolosa.

In una situazione di così forte disagio socio-esistenziale è facile elaborare un culto dei propri morti, al fine di guadagnarsi la loro protezione. Ma è solo nel passaggio da tale culto al politeismo che la religione diventa uno strumento nelle mani del potere, un diversivo con cui tenere le masse lontane dall'idea di poter rivendicare qualcosa.

I racconti che narrano il passaggio dalla creazione alla caduta possono essere letti anche come il tentativo da un lato di fare del singolo un criterio di verità e, dall'altro, di abbellire con forme illusorie il dramma del fallimento di questo criterio.

Pur parlando di riconciliazione della creatura col creatore, la religione contribuisce a tenere l'umanità il più lontano possibile dalle proprie origini.

Il racconto della creazione, descritto nel Genesi, è in tal senso emblematico. Esso fu scritto quando lo schiavismo era prevalente e l'autore s'immagina un periodo in cui ancora esisteva il collettivismo egualitario, cui l'uomo rinunciò volontariamente, sotto la propria responsabilità, senza poter ovviamente immaginare tutte le conseguenze di questa decisione.

Il testo, in origine, voleva essere laico, in quanto Dio, nella descrizione che se ne fa, non appare più grande dell'uomo; successivamente però esso è stato manipolato da una mano religiosa, probabilmente in un momento in cui si dava per scontato che lo schiavismo non poteva essere più superato, ritornando alle origini.

L'esigenza di credere in un Dio diverso dall'uomo era conseguente al fatto che l'uomo, essendo schiavo, non riusciva più a credere in se stesso. E in questo generale sentimento di mortificazione i sacerdoti avevano buon gioco nel prospettare consolazioni illusorie.

Che il testo sia nato “laico” lo si nota in tutta una serie di strane espressioni, come p.es. “facciamo l'uomo”, “a nostra immagine e somiglianza”, “lo spirito aleggiava sulle acque”, “il settimo giorno si riposò”, “Dio passeggiava nel giardino”.

“Facciamo” indica una decisione collettiva, incompatibile con la monarchia divina (che nell'ebraismo ha un carattere assoluto, così come nell'islamismo), e può anche rimandare a una contestuale presenza femminile, all'origine della creazione (che peraltro nel testo è creazione della Terra e del suo sistema solare, non dell'universo, la cui eternità e infinità viene data per scontata).

Ciò inoltre è confermato dal fatto che la parola “uomo” non voleva affatto dire “maschio”, ma maschio e “femmina”: “uomo” e “uoma”, si dovrebbe tradurre.

Che in origine ci sia un elemento femminile è palese, in lingua ebraica, anche là dove è scritto che “lo spirito aleggiava sulle acque”. Lo spirito (ruah) non è di genere maschile o neutro, ma è proprio femminile.

Dunque “a nostra immagine e somiglianza” può voler dire soltanto alcune cose molto precise (come d'altra parte è precisa la formulazione tecnica che l'autore ha voluto usare):

- all'origine dell'universo esiste una differenza di genere: non c'è l'uno ma il due, la coppia non il singolo, e quel “nostra” non è un generico plurale maiestatis, che anche un singolo potrebbe usare, ma proprio il concorso di entità diversificate;

- l'essere umano (di genere diverso) era simile a chi l'aveva generato (infatti si tratta di “generazione” non di “creazione” dal nulla);

- non esiste alcun Dio che possa andare oltre le caratteristiche umane. Il “soffio vitale” indica appunto l'immortalità dell'essere umano, la sua capacità di distinguersi da ogni altra cosa vivente sulla Terra.

Il fatto poi che un Dio abbia bisogno di “riposarsi” dalla sua fatica, non gioca certo a favore della sua onnipotenza, ma semmai della sua umanità. Egli era così familiare all'uomo e alla donna che questi potevano tranquillamente incontrarlo e parlargli di persona, nel cosiddetto “giardino” (che non necessariamente era una “foresta”).

Insomma tutto quanto dà l'impressione, nel racconto della creazione, che Dio sia qualcosa che va oltre l'umano, va considerato come un'interpolazione da parte delle caste sacerdotali.

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2) Dio e il serpente: dal collettivismo all'individualismo

Premessa

Nel libro del Genesi la colpa originaria dell'uomo, quella in forza della quale egli ha potuto abbandonare il comunismo primitivo e lanciarsi nell'avventura delle società divise in classi antagonistiche, non sta nell'aver voluto acquisire la conoscenza, poiché l'innocenza dell'uomo primitivo non era legata all'ignoranza, come d'altra parte non lo è oggi, né ha senso connettere la conoscenza alla colpevolezza.

L'unica vera ignoranza che aveva era quella sulle conseguenze ch'egli poteva subire su di sé se in luogo del collettivismo avesse scelto l'individualismo. Che poi una parte di conoscenza doveva averla, in quanto non gli sarebbe stato possibile cadere nella tentazione dell'individualismo se questa opzione esistenziale non fosse stata già praticata da qualcuno nel momento della scelta (a meno che non si voglia affermare che la caduta era inevitabile, in quanto nell'uomo esiste qualcosa d'imperfetto: cosa che però non spiegherebbe perché per milioni di anni l'uomo poté vivere in armonia con se stesso e con la natura). Il racconto del Genesi vuole rappresentare simbolicamente il mutamento avvenuto in uno stile di vita condizionato da uno stile di vita opposto. Ovvero il passaggio da una negatività di pochi a una di molti, ovvero una negatività di molti che condiziona sempre più la positività di pochi.

Per il resto l'ignoranza di Adamo era relativa al suo tempo storico, e la sua innocenza era consapevole, altrimenti non ci sarebbe stata colpa, ma solo inevitabile destino. Egli era perfettamente consapevole dei vantaggi del collettivismo, e questo tuttavia non gli impedì di metterli in discussione finendo con l'accettare l'individualismo.

La differenza tra ebraismo e paganesimo, nelle cosmogonie, sta proprio in questo: che la libertà umana, nell'ebraismo, gioca un ruolo rilevante. L'uomo non è mai obbligato a peccare, ma se lo fa, è obbligato a pentirsi, se vuole tornare a essere “umano”. Non esiste un fato che lo induca a fare ciò che non vuole.

Ecco, in questo senso, se l'uomo contemporaneo accettasse consapevolmente il collettivismo libero, lo farebbe con una consapevolezza che l'uomo primitivo, prima di rompere col collettivismo, non poteva avere, se non indirettamente, osservando dall'esterno le forme individualistiche di quei soggetti che già avevano rotto col collettivismo. Non per questo, tuttavia, la libertà dell'uomo contemporaneo sarebbe superiore a quella dell'uomo primitivo. Non è la consapevolezza di ciò che l'individualismo permette di fare, che di per sé rende più liberi.

Il Genesi comunque non vuole essere una lode dell'ignoranza, in quanto sarebbe assurdo immaginare che il “frutto della conoscenza” fosse destinato a non essere mai mangiato. L'uomo primitivo avrebbe potuto beneficiare dei vantaggi dell'individualismo senza per questo dover rompere con la prassi del collettivismo. L'antinomia individuo/comunità è falsa, poiché la colpa sta proprio nell'aver voluto contrapporre l'individuo alla comunità, cioè di “aver scelto” una valorizzazione unilaterale dell'individuo senza passare attraverso la mediazione del collettivo. Si badi: qui non si vuole considerare il collettivismo in maniera astratta; il passaggio all'individualismo dipese in buona parte anche da alcuni elementi di crisi che necessitavano d'essere risolti. La scelta a favore dell'individualismo dipese appunto dal fatto che non si volle cercare nelle modalità del collettivismo la soluzione delle contraddizioni, che ad un certo punto si erano sviluppate in questa formazione.3

Il Genesi comunque non ha l'intenzione di rievocare nostalgicamente il periodo infantile e primitivo dell'umanità, poiché se è indubbiamente un testo che guarda al passato, essendo stato scritto in un periodo storico di crisi e di decadenza, esso ha anche un'esigenza volta verso il futuro, com'è tipico della cultura ebraica (che, proprio per questa ragione, è sempre stata una delle culture più avanzate della storia). Il Genesi infatti non rappresenta tanto la rievocazione della felicità perduta, quanto il desiderio di ritrovarla.

Dunque, la felicità è stata perduta non perché l'uomo ha acquisito la consapevolezza del male, ma perché, nell'acquisirla, ha rotto un rapporto di solidarietà (i credenti qui usano l'espressione “comunione con Dio”). L'uomo primitivo si è cioè staccato dalla comunità d'origine in modo arbitrario, affermando un potere personale, individuale (acquisito, in questo caso, attraverso la violazione di un divieto), contro le consuetudini vigenti nell'ambito della comunità. La contrapposizione quindi non è tra ignoranza e conoscenza, ma tra solidarietà e arbitrio, tra collettivismo e individualismo. E il divieto era appunto relativo alla pericolosità di un certo modo di vivere l'individualismo, anche se proprio la sua presenza “giuridica” era già indice di una tentazione o di una debolezza interna al collettivo.

Certo, si può qui obiettare che la consapevolezza piena del male non avrebbe potuto essere acquisita se l'uomo non ne avesse fatta diretta esperienza. In tal senso la minaccia del castigo della “morte” poteva essere colta dall'uomo collettivista solo nel suo significato simbolico, come qualcosa di “terribile” che gli sarebbe potuto accadere se avesse scelto la strada dell'individualismo.

Tuttavia, l'uomo collettivista non aveva bisogno di vivere l'esperienza dell'arbitrio per comprendere la differenza tra il bene e il male. Questa differenza già la conosceva, altrimenti non ci sarebbe stata neppure la tentazione di trasgredire il divieto. E, in un certo senso, egli conosceva anche gli effetti della trasgressione, benché non ancora su di sé come entità collettiva. L'uomo può vedere al di fuori di sé gli effetti del male senza per questo doverlo compiere.

Sbaglia chi sostiene che il divieto non aveva alcun senso, in quanto l'uomo non avrebbe potuto capire il peso o la gravità di quell'imposizione, se non dopo averla trasgredita. In realtà doveva già esistere una consapevolezza della colpa, altrimenti la colpa stessa non avrebbe avuto senso. Cioè non c'era solo il timore di trasgredire il divieto che frenava dal compiere un atteggiamento arbitrario, ma anche una certa consapevolezza delle conseguenze che avrebbe generato la trasgressione. Altrimenti dovremmo dire che nell'eden gli esseri umani vivevano sotto tutela di un soggetto autoritario, che non li rendeva edotti di nulla.

Semmai si poteva facilmente constatare che la colpa (della trasgressione) era già stata messa in atto da soggetti esterni alla comunità o che dalla comunità erano usciti. E naturalmente lo stile di vita che questa colpa aveva generato costituiva una tentazione per quel collettivo che ancora non l'aveva compiuta. Esiste un momento in cui tra la consapevolezza di un colpa esterna e la tentazione di ripeterla personalmente l'angoscia gioca un ruolo rilevante. È in questo frangente che si gioca la libertà di coscienza.

L'albero della vita, cioè del bene, e l'albero della conoscenza del bene e del male potevano tranquillamente coesistere nel medesimo giardino. Si trattava soltanto di non cedere alla tentazione di stabilire autonomamente, senza la mediazione del collettivo, la differenza tra bene e male.

Sarebbe comunque errato sostenere che la trasgressione, essendo già presente in qualche modo l'individualismo, fosse inevitabile. Il racconto vuole appunto dimostrare che, pur in presenza del “serpente”, si trattò di compiere una libera scelta, cioè una scelta che avrebbe potuto essere evitata. Se non ci fosse stata la libertà di scegliere, cioè di assumersi una responsabilità personale, l'uomo non avrebbe potuto pentirsi della scelta compiuta, poiché non l'avrebbe colta col senso di colpa.

Indubbiamente la necessità del “divieto” attesta di per sé la presenza di una crisi all'interno della comunità: la perdita di una credibilità; ma non era una crisi così vasta e profonda da determinare il passaggio inevitabile all'individualismo. Il divieto è sempre una soluzione transitoria, in attesa che maturi una responsabilità personale. Probabilmente la soluzione individualistica, scelta al principio da un ristretto numero di persone, stava cominciando a radicarsi, a trovare sempre più seguaci. Finché tuttavia essa rimase patrimonio di una minoranza, il dramma fu scongiurato. Il Genesi racconta proprio i due atti di questo dramma: il prima della minoranza e il dopo della maggioranza.

Prima del divieto la crisi della comunità si era manifestata in altri due modi:

La crisi della comunità ha origine all'interno della comunità stessa, per motivi che solo con la libertà umana si possono spiegare. Quando gli uomini hanno cominciato a cercare delle soluzioni individualistiche ai loro problemi di “senso”, essi hanno finito per accettare anche quelle esterne alla comunità.

Continuamente, nella storia dell'umanità, si ripropone il problema di come conciliare in modo adeguato l'individuo e la comunità. Spesso le soluzioni che si danno a questo problema propendono per un eccesso o per un altro: vivere maggiore collettivismo con minor autonomia personale, oppure, al contrario, vivere maggiore autonomia con minor collettivismo.

L'obiettivo della scienza è correlato a questo problema: è preferibile un socialismo con una scienza circoscritta, controllata, oppure è meglio un individualismo con una scienza illimitata, senza controlli, in grado di garantire, almeno in teoria, un continuo progresso? Nel socialismo la scienza dovrebbe essere acquisita gradualmente, rispettando i tempi di crescita dell'intera collettività. Nell'individualismo invece questa preoccupazione non esiste, per cui i guasti, gli errori che si compiono sono innumerevoli.

Il “peccato” dell'uomo non è stato tanto quello di voler diventare “come Dio”, quanto piuttosto di diventarlo contro l'umanità stessa dell'uomo, cioè contro il suo simile e, in fondo, contro se stesso. È stato quello di non aver voluto rispettare alcuna legge obiettiva, alcuna necessità naturale e sociale, di aver voluto trasgredire un divieto contro la volontà della comunità. È stato quello di aver voluto porre una pretesa, una libertà, senza averne la responsabilità adeguata; quello di aver voluto diventare “come Dio” prima del momento necessario, che solo la storia può decidere. La storia dell'uomo “arbitrario” è stata un continuo tentativo di cancellare le tracce dell'esperienza comunitaria primitiva, e nel contempo un continuo tentativo di riprodurre quell'esperienza in modo conforme alle mutate esigenze e modalità storico-sociali.

Analisi della “caduta”

L'albero della vita rappresenta, in un certo senso, il comunismo primitivo; l'albero della conoscenza è la possibilità dell'individualismo, che è sempre presente, anche nel comunismo primitivo. Nell'innocenza si è liberi, anche se non si è in grado di stabilire con esattezza (per inesperienza) dove sta il bene e dove il male, in quanto ancora non si conosce a fondo il male dell'individualismo. Si sa soltanto che esiste una comunione da rispettare, un senso del collettivo.

La mela forse può rappresentare il tentativo di attribuire un inedito primato all'agricoltura (ai frutti della terra ottenuti attraverso un intervento diretto da parte dell'uomo) e quindi necessariamente a una qualche forma di proprietà esclusiva, rispetto a quella comune, tradizionalmente consolidata, o rispetto alla raccolta libera dei frutti (nella foresta) e anche rispetto all'allevamento (rapporto di Adamo con gli animali), per le qual cose non si prevedeva una proprietà privata o recintata.

La donna sarebbe dunque il simbolo della parte debole che nella comunità d'origine (boschiva) scopre l'importanza economica dell'agricoltura, e che cerca in una parte forte della medesima comunità l'appoggio politico per rivendicare un diritto esclusivo.

La risposta della donna al serpente (che rappresenta la giustificazione della tentazione dell'individualismo, non scevra da una mistificazione di tipo religioso) testimonia della presenza di una certa consapevolezza della differenza tra il bene e il male: Eva sa, da un lato, che non di “tutti” ma solo di “un albero” non debbono mangiare i frutti e, dall'altro, sa che, se trasgrediscono il divieto, andranno incontro a una grave punizione, quella di essere espulsi dalla comunità.

Se il vero “peccato” è quello ch'esiste nella consapevolezza di farlo, allora questo significa che la scelta dell'individualismo era già stata fatta, e la presenza del serpente stava lì a testimoniarlo. Solo che quella scelta ancora non era dominante, non aveva ancora avuto la forza d'imporsi sulla vita collettivistica. Ciò che Eva ancora non conosce sono tutte le conseguenze della trasgressione su di sé, anche se la presenza del divieto categorico stava a indicare che le conseguenze sarebbero state drammatiche (il testo usa la parola “morte”).5

Il “male” rappresentato dal serpente è sempre una forma di astuzia che inganna l'innocenza, la buona fede. In particolare, l'astuzia deve servirsi di una norma morale positiva, reinterpretandola negativamente: un compito tipico della religione, il cui linguaggio mistico è suscettibile di interpretazioni non scientifiche, non verificabili. Per il serpente “tutti gli alberi non dovevano essere mangiati”. La donna s'accorge della falsità della domanda e la corregge precisando il vero obbligo, come prima si è detto.

Il serpente reagisce in due modi: 1) esclude la necessità della punizione (“non morirete affatto”), 2) chiarisce, a suo modo, il motivo del divieto (“Dio non vuole che diventiate come lui, conoscitore del bene e del male”). In pratica esso mira a porre in contrasto le esigenze del collettivo con quelle dell'individuo, cioè l'oggettività dei fatti con la libera volontà degli uomini. Il divieto – vuol far capire il serpente – è funzionale a una gestione della comunità contraria agli interessi dei singoli individui. La comunità va superata perché opprime l'uomo. Il serpente (cioè la coscienza individualistica dell'uomo) ha dovuto affermare una menzogna credibile, che avesse la parvenza della verità.

Va detto, tuttavia, che se una parte della comunità, separandosi da questa, aveva imparato a conoscere la differenza tra il bene del collettivismo e il male dell'individualismo, ciò significa che la rottura di Adamo non rappresenta tanto gli inizi delle società antagonistiche, quanto la loro piena affermazione, in netto contrasto con le dinamiche sociali delle società collettivistiche primitive (non dimentichiamo che la stesura del Genesi risale al VI sec. a.C.).

Che la comunità fosse in crisi è attestato da due aspetti: 1) la perdita d'identità dell'uomo e 2) la presenza del divieto.

Nel testo l'importanza attribuita alla donna, quale entità singola, emerge nel momento in cui comincia a declinare quella dell'uomo collettivo, il quale, per ritrovare la propria identità o verità di sé (che si era indebolita), si era relazionato, prima ancora di valorizzare la donna singola, col mondo animale, fallendo nel tentativo: è sintomatico che l'uomo dia un nome agli animali nel momento in cui sente di perdere la propria identità. È altresì evidente, nel racconto mitico, che è la donna ad aiutare l'uomo, sul piano privato-personale, a ritrovarla, anche se tale ritrovamento non impedirà all'uomo di scegliere l'individualismo. Anzi è proprio il rapporto con la donna, vissuto in maniera unilaterale, esclusiva, che porta l'uomo ad accettare meglio la via dell'individualismo (la famiglia vissuta come forma di esclusione dal collettivo). La donna, come prima gli animali, è soggetta a una strumentalizzazione da parte dell'uomo ogni volta che l'uomo la mette in antitesi all'interesse della comunità.

Il divieto avrebbe lo stesso scopo della donna, ma sul piano sociale: esso serve per rinsaldare la coscienza di un uomo in crisi, che si angoscia a causa delle possibilità che la sua libertà gli offre; esso, in maniera formale, non sostanziale, ha lo scopo di farlo sentire più unito alla comunità. Il “peccato” non sta nella debolezza esistenziale, poiché la debolezza è parte costitutiva dell'identità umana, che non può percepire o vivere il senso delle cose con un'intensità (emotiva, spirituale) sempre identica a se stessa, ma sta proprio nel fare di questa debolezza un motivo di orgoglio o, al contrario, di disperazione, tale per cui, ad un certo punto, scatta il meccanismo dell'estraniazione.

Nel rispetto del divieto l'uomo può nuovamente rendersi conto delle proprie capacità o responsabilità, riacquistare fiducia nel proprio ruolo, sentirsi più realizzato, almeno finché non avrà interiorizzato il bene, rendendo inutile il divieto. L'uomo vacilla nella sua responsabilità personale solo quando ha l'impressione che i rischi di modificare arbitrariamente una consuetudine esistente da tempo sono diventati così grandi da rendere quasi inevitabile la rassegnazione, l'avvilimento, e quindi la tentazione della trasgressione.

È in questo contesto d'incertezza, di precarietà morale, di sfida alle istituzioni che avviene l'abbandono del comunismo primitivo. Per compiere la rottura, l'uomo ha dovuto darsi delle giustificazioni soggettive, che nella fattispecie sono di tre tipi, in ordine d'importanza. L'albero della scienza era: 1) “buono” (il piacere fisico), 2) “bello” (il piacere estetico), 3) “desiderabile” (il piacere intellettuale).

L'ultimo “piacere” è quello che fa scattare, in definitiva, la trasgressione: l'uomo potrà acquisire la “libertà”, offerta dal serpente, attraverso il potere di decidere, autonomamente, senza la mediazione collettiva, ciò che è bene e ciò che è male. Qui sta una delle più profonde illusioni delle società divise in classi, quella cioè di ritenere che la libertà non sia tanto l'esperienza sociale del “bene”, quanto la possibilità individuale di scegliere tra il bene e il male. Una delle grandi differenze tra il comunismo primitivo e la società divisa in classi sta proprio nella pretesa di voler considerare la libertà individuale superiore alla vita sociale, o meglio: quella di far coincidere conoscenza del bene e del male ed esperienza del bene dal punto di vista della mera conoscenza, cioè di far coincidere il libero arbitrio con la libertà, come se questa si riducesse alla facoltà di scelta e non anche a un'esperienza di valore.

Viceversa, il testo documenta che con la trasgressione l'uomo non si rende conto della propria libertà (che ha già perso), ma solo delle conseguenze del proprio arbitrio. Egli infatti perde l'innocenza e acquista la colpa, di cui si angoscia. Si badi, non diventa colpevole per aver acquisito la scienza del bene e del male, ma per averla acquisita in modo arbitrario. La colpa non sta tanto nel “sapere” quanto nel “volere arbitrario”.

La vita, in realtà, è superiore alla conoscenza, tant'è che nell'innocenza l'ignoranza del male non era avvertita come un peso. La contraddizione di Adamo non stava tra la realtà del divieto e la possibilità della trasgressione, non stava tra innocenza e ignoranza, ma stava nella consapevolezza di non riuscire più a identificarsi totalmente con la comunità, stava nella perdita progressiva dell'identità, cui non riusciva a porre un argine attraverso una vera forza morale.

Oggi, il compito, estremamente difficile, dell'uomo è diventato proprio questo: tornare a vivere il bene del comunismo primitivo nella consapevolezza dei limiti dell'individualismo.

Tuttavia, la vera colpa d'origine non sta solo nella trasgressione ma anche e soprattutto nel rifiuto del pentimento. Dal primo gesto al secondo vi sarà stato senz'altro un periodo di tempo sufficiente per recuperare l'identità originaria.

Che tale identità potesse ancora essere recuperata è indicato dalla presenza del giudizio. Nella colpa, infatti, l'uomo può rifiutare il pentimento ma non può sfuggire al giudizio. Nel rifiuto del pentimento il senso di colpa aumenta all'aumentare del giudizio. Non solo l'uomo non può nascondersi, ma neppure mentire: l'uomo cioè si “nasconde” non perché si sente “nudo”, ma perché avverte la propria “nudità” con colpevolezza, in quanto si sente un estraneo rispetto alla comunità primordiale, ch'era innocente. Il rifiuto del pentimento è appunto indicato dal triplice tentativo di sottrarsi al giudizio, per attenuare il senso di colpa:

– nascondendosi (fisicamente), poiché ci si vergogna della propria sessualità, vissuta non più liberamente ma per affermare una identità personale, prevalentemente fisica;

– scaricando la responsabilità sulla parte “debole” della comunità (rappresentata da Eva): qui l'uomo attribuisce all'individualismo femminile la causa della propria rottura col collettivo, come se la donna l'avesse indotto ad anteporre al rapporto con la comunità il rapporto di coppia;

– scaricando la responsabilità su una “causa esterna” (il serpente), cioè l'individualismo già in atto al di fuori della comunità.

Conseguenze sociali della caduta

Successivamente alla caduta adamitica, il concetto di “alleanza” tra uomo e Dio altro non sarebbe servito che a recuperare, in forma religiosa o simbolica, quel rapporto concreto di fratellanza che esisteva nella società primitiva e che nella nuova società antagonistica (rappresentata dal mito di Caino e Abele) veniva messo seriamente in discussione. Già dalla semplice domanda che Caino rivolge a Jahvè: “Son forse io il custode di mio fratello?” (Gn 4,9), si può cogliere quanto il racconto di Caino e Abele rifletta un'epoca in cui comincia a imporsi l'individualismo, ovvero l'antagonismo sociale. Infatti, nel comunismo primordiale sarebbe parso del tutto naturale che all'interno della tribù tutti avvertissero la responsabilità del comportamento altrui.

In particolare la rivalità tra i due fratelli (che forse anticipa anche quella tra primogenito e cadetto) esprime quella tra due forme socioeconomiche di esistenza materiale: agricola e pastorale, che tendono progressivamente a specializzarsi, a separarsi, a rivendicare una diversa autonomia. Il fatto che Jahvè preferisca i sacrifici dell'allevatore Abele, deve farci pensare che la classe sociale rappresentata da quest'ultimo fosse in ascesa, mentre l'altra svolgeva un ruolo tradizionale, consolidato; oppure il redattore ha voluto far capire che l'affermazione dell'agricoltura privata era di ostacolo alla sicurezza dell'allevamento, sempre bisognoso di campi non recintati.

I coltivatori detenevano il monopolio della terra o comunque volevano ampliare i loro possedimenti per affrontare meglio le crisi e non sopportavano di doverla dividere con gli allevatori. S'imposero ad un certo punto le recinzioni, le prime forme di proprietà privata, mentre gli allevatori, costretti ai continui spostamenti delle mandrie, avevano invece bisogno di terreni pubblici, aperti a tutti. Caino rappresenta quella parte di comunità che vuole privatizzare la terra e che vuol fare della propria stanzialità un privilegio sociale, mentre Abele rappresenta la comunità nomade dedita all'allevamento, con maggiori capacità democratiche.

Poiché gli allevatori erano economicamente più deboli degli agricoltori, fu proprio in loro che si sviluppò una concezione religiosa più sentita, più spiritualistica, con cui cercare i favori dei capi-tribù, e che prevedeva il sacrificio degli animali, mentre quella di Caino restava di tipo naturalistico: l'offerta di cibi della terra. Il racconto dà per scontato che la religione già esistesse, essendo essa il frutto del peccato originale. Quindi al tempo di Caino e Abele la società era già impostata in modo patriarcale o comunque stava evolvendo in quella direzione. Agricoltori e allevatori facevano parte di un unico collettivo, dove però vigeva la differenziazione dei ruoli economici: l'ingrandirsi progressivo di quello degli allevatori (che evidentemente all'allevamento erano sempre più costretti a causa di insufficienti risorse agricole), venne ad un certo punto a confliggere con gli interessi degli agricoltori.

Il capo del villaggio (o patriarca), che aveva bisogno di veder aumentare il senso religioso, con cui tentare, illusoriamente, di ricomporre i conflitti sociali, preferì cercare un'alleanza con la classe emergente (gli allevatori), per ridurre il potere di quella consolidata (gli agricoltori), mostrando la maggiore eticità di chi offre di più pur avendo meno. E in maniera particolare esalta un'offerta votiva rivolta non alla terra ma a un'entità astratta, che somigli di più non a una “madre” ma a un “padre”, a un “padre-padrone”, cioè in sostanza a lui stesso. Il patriarca ha saputo approfittare di un delitto per aumentare il proprio potere.

Caino diventò assassino perché cercò una forma di giustizia personale a una contraddizione sociale. Non voleva rassegnarsi a cedere parte del proprio potere monopolista. E il patriarca ebbe buon gioco nel cacciarlo dal villaggio: non voleva far scoppiare una guerra intestina tra agricoltori e allevatori. Impedì a chiunque di ucciderlo, anche per scongiurare che la proprietà privata prendesse decisamente il sopravvento su quella collettiva. Senonché Caino, non potendo svolgere più il mestiere dell'agricoltore, divenne “costruttore di città” (Gn 4,17), dove l'individualismo e la proprietà privata avrebbero trovato ben ampie possibilità di realizzazione.

*

Ora, come si può facilmente notare, le conseguenze del peccato d'origine sono state esattamente corrispondenti alla natura delle tre tentazioni:

  1. la nudità sentita come vergogna fa da contrappasso al piacere della carne;

  2. la morte sentita come paura va messa in relazione al piacere degli occhi, alla percezione di sé come persona;

  3. la coscienza sentita come colpa va messa in relazione al piacere della mente.

Si può in un certo senso affermare che esiste qui una progressione delle forme narcisistiche della vita individualistica: quella elementare relativa al culto del proprio fisico, quella più sofisticata relativa al culto dell'immagine di sé come persona, e infine quella più elevata di tutte: il culto dell'idea in sé, elaborata con la propria mente. Si passa dal concreto all'astratto.

  1. La nudità sentita come vergogna lega il sesso alla colpa, cioè dalla primordiale inimicizia tra singolo e comunità si passerà, nell'ambito dell'individualismo e a livello personale, all'inimicizia tra psiche e soma, tra coscienza e istinto, che troverà un riflesso concreto nell'inimicizia tra uomo e donna.

    Il senso di estraneità del singolo nei riguardi del collettivo porterà ad avvertire la nudità in maniera innaturale: essa diventa occasione di possesso egoistico del corpo. Il corpo cioè appare come un oggetto, come una proprietà personale per il soddisfacimento sessuale. L'identità non viene più ricercata nell'esperienza del collettivo, in cui tutto era “naturale” (nudità, sessualità, ecc.), ma nel rapporto fisico di coppia.

  2. L'angoscia della morte, o meglio, la morte avvertita come paura è la conseguenza della debolezza fisica di chi è uscito dal collettivo. Alla paura della morte si cerca di porre come rimedio esclusivo la procreazione. La donna comincia ad essere vista in maniera strumentale, come oggetto della riproduzione fisica. Viceversa, nella comunità primitiva la donna era anzitutto vista come “compagna” (“osso delle mie ossa e carne della mia carne”) e se alla sua funzione procreativa si attribuiva un valore significativo, ciò avveniva nella consapevolezza che i figli appartenessero alla comunità in generale, non alla coppia né alla stessa donna. Nella comunità d'origine non c'era ancora il bisogno di salvaguardare la specie o di lasciare un'eredità o di trasmettere i poteri ai propri discendenti. L'amore tra uomo e donna precedeva nettamente il bisogno di procreare e la morte era avvertita come un fenomeno del tutto naturale.

  3. Il senso di colpa avvertito nella coscienza non si trasmette geneticamente. Si ereditano piuttosto le conseguenze della colpa. Oggi, ad es., le comunità primitive, che non conoscono il senso del peccato, subiscono ancora le sue conseguenze, poiché tutta l'umanità si è unificata sotto il capitalismo. Ciò peraltro pone il problema di come far uscire tutta l'umanità da questa moderna schiavitù, riportandola allo spirito collettivistico originario.

A queste conseguenze, che colpiscono l'essere umano dall'interno, l'autore del Genesi ne aggiunge altre due, che lo colpiscono dall'esterno:

  1. il lavoro è sentito come condanna. Nell'Eden l'uomo lavorava come persona libera, fuori dell'Eden deve farlo perché costretto. Ora l'uomo si sente solo nel suo rapporto con la natura, perché in realtà avverte il proprio simile come un “nemico”. Non è più la comunità intera che provvede alla sussistenza di tutti i suoi membri (anche in tutte le mitologie pagane il lavoro è compito dello schiavo);6

  2. la procreazione è sentita come dolore. Si afferma cioè la soggezione della donna nei confronti dell'uomo, nonché la difficoltà di dover sopportare condizioni socio-ambientali sfavorevoli. Oggi in fondo la contraccezione, che separa meccanicamente l'amore dalla procreazione (ed eventualmente anche il sesso dall'amore), rappresenta un modo, artificiale, di recuperare la naturalezza dei rapporti primitivi, in cui la procreazione non era avvertita, da parte della coppia, come un peso, ma come un aspetto imprescindibile della comunità, di cui tutta la comunità era responsabile. Tuttavia è un recupero effimero, in quanto è proprio la contraccezione che favorisce l'uso strumentale del corpo.

    Nella donna la contraddizione assume un connotato particolare. Essa si sente attratta e respinta dalla forza dell'uomo: attratta, perché la protegge; respinta, perché vede l'uomo come un nemico che la vuole opprimere. Nella coscienza della donna si riflette l'antagonismo vissuto a livello sociale: essa ha bisogno della protezione di un singolo contro le minacce di altri singoli, ma il singolo che la protegge spesso non è molto diverso dai singoli che la minacciano. Ciò che qui manca è la comunità, che garantisce protezione a se stessa, senza fare differenze fra chi “è tenuto a proteggere” e chi “deve essere protetto”.

Il concetto del “male” nel peccato d'origine

Qualunque definizione del “male” come entità a sé o come sostanza separata o autonoma rispetto al bene, comporta il rischio di un atteggiamento qualunquistico nei confronti delle contraddizioni antagonistiche. Non solo, ma il sostenere (come vuole Agostino) che “il male è assenza di bene” non è ancora sufficiente per persuadere circa la necessità di una transizione, almeno finché non si chiarisce che l'assenza non può mai ipostatizzarsi.

Il male è sempre frutto di una libertà, seppur usata negativamente. Sotto questo aspetto il serpente dell'Eden, posto come tentazione esterna alla donna, ha senso soltanto se lo si considera come il simbolo di un antagonismo che precedeva la caduta: nel senso che la donna si è lasciata sedurre da una tentazione ch'era già stata posta, come esperienza di vita, prima della trasgressione all'interno della comunità primordiale.

Il suo peccato può essere definito di “origine” solo nel senso che quel tipo di peccato dà sempre origine a un antagonismo sociale nell'ambito di un collettivo, il quale fino a quel momento poteva conoscere l'antagonismo solo come realtà esterna, non avendolo ancora vissuto come realtà interna.

Gli uomini hanno esercitato la loro libertà fin dal momento in cui si sono separati dal mondo animale. I frutti negativi di questa libertà sono tanto più aumentati e si sono tanto più aggravati quanto meno s'è cercato di ostacolarne la crescita.

La caduta adamitica altro non vuole rappresentare che la drammaticità di un male il cui spessore è diventato troppo consistente per poter essere affrontato con superficialità. Tant'è che il male, come realtà esterna, per potersi affermare anche come realtà interna, ha dovuto usare una sottile menzogna, quella appunto di voler far credere che la trasgressione avrebbe prodotto il contrario di ciò che ci si sarebbe dovuto aspettare.

Ed è noto che tanto più facilmente il male riesce a far breccia nella coscienza dell'uomo quanto più questi si trova a vivere in condizioni precarie, difficili, ambigue. La caduta di Adamo, in fondo, rappresenta la crisi progressiva di un collettivo che non aveva più fiducia nelle proprie risorse, in quanto si trovava a vivere in una situazione di sbandamento, di indeterminatezza, in cui s'imponeva, con urgenza, la necessità di assumere delle decisioni risolute a favore del recupero dell'identità originaria, pena il rischio di perdere tutto.

Quell'Adamo che dapprima cercò un rapporto di dominio con gli animali e che poi si sentì indotto a cercare nella donna il senso della propria identità (non trovandolo più in se stesso), e che infine si trovò costretto da un divieto a dover rispettare una proprietà collettiva che avrebbe voluto privatizzare (il giardino dell'Eden) – è un soggetto che ben rappresenta le varie fasi di una crisi progressiva, profonda, che ha determinato il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Chi dunque arriva a sostenere che lo spessore del male, in conseguenza di quella colpa d'origine, è diventato talmente grande da rendere impossibile una sua piena rimozione, facilmente sarà indotto ad affermare che il male è un'entità a sé stante. Esattamente come Adamo accusò Eva e questa il serpente.

In realtà il male non esiste come entità autonoma; esiste soltanto l'uomo con la sua libertà. La libertà può compiere scelte negative e queste scelte possono fossilizzarsi in strutture che condizionano anche molto pesantemente il libero arbitrio, inducendo quest'ultimo a riprodurre, se non addirittura a perfezionare le strutture di male in cui esso vive.

Tuttavia l'essere umano non è mai in grado di compiere per puro istinto delle azioni di male, a meno che non le compia nella più totale inconsapevolezza, come nei bambini privi di raziocinio o nei folli, o anche negli adulti sani di mente che vivono molto superficialmente; ma questa possibilità, se esiste, è limitata nel tempo. Essendo costituito di libertà, l'essere umano, per poter compiere il male, ha prima bisogno di operare una scelta consapevole, più o meno profonda. Ecco perché nessuno può sostenere di aver compiuto il male semplicemente per obbedienza e pretendere d'essere creduto.

Sono le convinzioni mentali, per lo più ereditate da determinati stereotipi culturali, che inducono sul piano esistenziale a compiere scelte negative. Chi non accetta di rivedere la logica delle proprie idee e della propria cultura, conferma quella profonda tesi cristiana che dice: “Il male esiste solo per chi lo vuole”. Cioè esiste ontologicamente solo se vi si aderisce personalmente. È ben noto comunque che la grandezza dell'essere umano sta anche nella capacità di saper trarre il bene dal male più profondo.

Il peccato d'origine e la proprietà privata

Sul piano metaforico, equiparando il concetto di “Dio” alla situazione storica del “comunismo primitivo”, non sarebbe sbagliato sostenere che il peccato più grave dell'umanità è stato quello di aver affermato il principio dell'individualismo (che ha generato anzitutto lo schiavismo) contro quello del collettivismo.

Forse si potrebbe addirittura sostenere che nel racconto della caduta la donna rappresenta l'esigenza di stanzialità (e quindi di privatizzazione dei frutti della terra) contro la prassi dominante del nomadismo, in cui l'uomo raccoglitore-cacciatore si riconosceva da millenni.

Tuttavia il dogma cattolico del peccato originale, secondo cui questo si trasmette attraverso la concupiscenza, induce inevitabilmente l'uomo alla rassegnazione, ovvero a sperare solo in una libertà post-mortem.

È fuor di dubbio invece che gli uomini, già sulla Terra, dovranno tornare al collettivismo, poiché sotto l'individualismo la tendenza è quella della distruzione dei rapporti umani e dei rapporti ecologici con la natura e quindi, in definitiva, è quella dell'autodistruzione.

Fino ad oggi l'umanità non ha fatto altro che sperimentare varie forme di società individualistiche: schiavismo, servaggio, capitalismo... Lo stesso socialismo amministrato è stato una forma autoritaria di individualismo: il capo dello Stato-partito era un despota, esisteva una nomenklatura privilegiata, la burocrazia schiacciava le esigenze sociali, ecc.

Il collettivismo o è libero o non è, o è accettato consapevolmente dai suoi componenti, oppure è una forzatura. Tuttavia, affinché venga accettato liberamente, conditio sine qua non è la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi: è proprio questa infatti che toglie, a chi non ne dispone, il diritto di vivere.

La proprietà privata o è per tutti, nel senso che a tutti viene effettivamente garantita, oppure è sempre e solo di pochi privilegiati o di persone senza scrupoli. È ovvio che nella misura in cui una proprietà privata venga assicurata a chiunque la voglia, lo stesso concetto di “proprietà privata” viene ad assumere un significato molto diverso da quello attuale.

Oggi spesso ci si appropria di un bene che supera di molto le proprie necessità, e senza preoccuparsi minimamente di sapere o fingendo di non sapere che certi beni non possono essere posseduti ad abundantiam senza fare, nel contempo, un danno a qualcuno (si pensi p.es. alle materie prime, alle fonti energetiche, alle risorse idriche ecc.). In via generale dovrebbe valere il principio secondo cui va garantita la proprietà personale finché tale proprietà non viene usata per sfruttare il lavoro altrui, oppure finché il diritto altrui di vivere viene rispettato anche a prescindere da tale proprietà.

Il futuro come ritorno al passato

Nei confronti del cosiddetto “peccato d'origine” – che altro non è, nel Genesi, se non la rappresentazione simbolica del distacco dalla vita comunitaria primitiva (pre-schiavistica) –, la Chiesa cattolica ha sempre assunto un atteggiamento piuttosto fatalistico, che si è andato accentuando in quella protestante.

Infatti, mentre la Chiesa ortodossa ha sempre sostenuto l'insensatezza di una trasmissione ereditaria (genetica) di quel peccato, poiché ciò impedirebbe all'uomo la possibilità di una libera scelta, e ha preferito limitarsi a credere che gli uomini soffrono i condizionamenti storici (sociali ecc.) derivati da quella colpa; la Chiesa romana invece ha sempre fatto del peccato originale uno dei principali pretesti per indurre gli uomini a rinunciare a qualunque forma di liberazione terrena.

Qui è bene sottolineare che il criterio interpretativo del cattolicesimo romano, in merito al racconto del Genesi, è piuttosto regressivo anche rispetto a quello ebraico, poiché, mentre gli ebrei, attraverso quel racconto, volevano evocare la nostalgia di un paradiso perduto e suscitare quindi il desiderio di ritrovarlo sulla Terra; l'esegesi cattolica, al contrario, si serve di quel racconto per sostenere che sulla Terra non è possibile alcun paradiso e che quello adamitico è stato perduto una volta per sempre, e che l'unico paradiso possibile è quello dei “cieli”, ideato e costruito unicamente da Dio, senza concorso umano.

L'idea ebraica di poter realizzare il paradiso nell'ambito di una particolare nazione, circondata dall'inferno di altre nazioni “pagane”, caratterizzate da rapporti di tipo schiavistico, non era un'idea del tutto peregrina. Discutibili forse furono i modi usati per realizzarla (il regno davidico, p.es., ha senza dubbio conosciuto momenti di forte intolleranza).

Tuttavia il torto maggiore degli ebrei fu un altro, quello di non aver compreso con sufficiente chiarezza che il desiderio di liberazione appartiene a ogni uomo e che un popolo libero non può essere delimitato da confini geografici. Il concetto di “nazione eletta” esprime un certo pessimismo nei confronti del diritto a una libertà universale dall'oppressione. È il genere umano che va considerato “eletto”, non un popolo particolare, anche se può esserci un popolo migliore di altri.7

In sé dunque non è sbagliata l'idea di voler realizzare la giustizia in una nazione particolare; è sbagliata l'idea di credere che tale realizzazione sia possibile solo entro quella nazione, in virtù della propria particolare storia e cultura.

Senonché non ha alcun senso – come invece ha fatto la Chiesa romana – porre come alternativa a questo limite della civiltà ebraica la rinuncia a lottare per la giustizia sociale, nell'attesa di ottenerla, come premio della propria rassegnazione, nel cosiddetto “regno dei cieli”. La Chiesa romana avrà sempre ragione contro quanti sostengono che per realizzare il bene è sufficiente rispettare la legge, ma avrà sempre torto quando sostiene che per realizzare il bene è sufficiente aver fede in Dio, praticandone le opere (che poi l'opera principale, per questa Chiesa, è, in ultima istanza, l'obbedienza al pontefice e l'avere – proprio come gli ebrei – un proprio territorio in cui sentirsi “privilegiata”).

Dio è un ente così astratto che la fede riposta in lui può assumere delle manifestazioni tutt'altro che umane. Quando p.es. si afferma che il vero cristiano è colui che imita il Cristo, si rischia facilmente di cadere in un'aberrazione ideologica, in quanto, essendo il Cristo vissuto duemila anni fa, qualunque pretesa di contemporaneità col suo messaggio può anche essere considerata come frutto di un'interpretazione irrazionale. Non basta dire che i vangeli sono la quintessenza dell'umanità dell'uomo per essere sicuri di mettere in pratica i loro princìpi con coerenza. Cioè anche se i vangeli esprimessero fedelmente il messaggio di Cristo (il che comunque non è), resterebbe sempre da dimostrare che l'applicazione alla lettera dei loro princìpi costituisca il meglio per l'uomo contemporaneo.

Non è singolare che quanti dicono di voler “imitare Cristo”, si concentrino soprattutto sul momento critico della crocifissione, senza rendersi conto che possono essere esistiti dei martiri la cui vita non è stata affatto un modello di esemplarità? Una morte cruenta può forse essere di per sé indice di santità?8

Non è assurdo (o se vogliamo ingenuo) pensare che il senso della vita di un uomo possa essere racchiuso nel fatidico e breve momento della sua morte? Non è forse una forzatura credere che il martirio di una persona possa riscattare, di colpo, un'intera vita vissuta con disperazione o risentimento?

Certo, il dolore che si subisce ingiustamente può impressionare, può anche farci credere che tutta la vita di quel martire sia stata caratterizzata da lealtà e sincerità (quando mai in fondo si parla male dei morti? e quando mai si dice che da vivi erano state delle persone ingiuste?), ma una conclusione del genere sarebbe sicuramente affrettata, dettata come minimo dall'emotività. Per poter veramente capire se una persona è degna di fiducia, si ha bisogno di metterla alla prova, cercando di conoscerla mentre è “viva”. E questa fiducia va ogni volta riguadagnata, poiché fa parte della natura umana essere incostanti.

Quando la Chiesa romana sostiene che il momento più alto dell'amore di Cristo per il mondo, è avvenuto nel momento del patibolo, essa dimentica di aggiungere che la scelta del martirio non poteva che essere stata dettata da ragioni di opportunità, che spesso possiedono quanti lottano davvero per la giustizia. Ci si sacrifica per salvare gli altri più che se stessi, non per uno strano senso religioso del dovere o per una follia personale (p.es. per riscattarsi da una vita trascorsa in maniera insulsa, piena di fallimenti e delusioni), ma semplicemente perché si ritiene che quella sia la soluzione migliore per il proseguimento dell'ideale di liberazione.

“Salvare gli altri” non tanto dall'ira di un Dio vendicativo, che dai tempi di Adamo ha conservato rancore per il genere umano, quanto piuttosto dalle conseguenze dell'immaturità degli uomini, del loro primitivismo. Gli uomini vanno educati con la persuasione alla democrazia, costasse anche il sacrificio di sé. In tal senso il martirio può anche servire a “salvare se stessi” dalla tentazione di voler imporre con la forza i propri ideali.

Gli uomini hanno bisogno non di essere colpiti emotivamente da gesti eclatanti, ma di essere coinvolti attivamente in un'esperienza significativa per la loro vita quotidiana. Abbiamo bisogno di incontrare persone normali che vivano un'esperienza gratificante sul piano della giustizia sociale, e non persone eccezionali che vivono secondo i criteri del più puro individualismo.

Le persone normali non hanno mai la pretesa di “imitare Cristo” e di imitarlo addirittura fino al Golgota. È assurdo pensare di poter imitare una persona al punto da identificarsi totalmente con la sua storia personale. Una identificazione del genere sarebbe altamente improbabile persino se si finisse realmente sulla croce.

Peraltro, l'idea stessa di voler affermare una stretta coerenza tra ideale di assoluta perfezione e prassi quotidiana (sempre piena di contraddizioni), a partire dal supremo sacrificio di sé, cioè a partire dalla logica del martirio (la sola con cui si crede di poter nascondere il proprio vuoto), è un'idea che riflette una concezione di vita secondo cui, non potendo esserci vera felicità sulla Terra, l'unica possibile è quella che assume consapevolmente la sofferenza, il dolore, come criterio di vita.

“Chi soffre ha sempre ragione” – dice l'integrista. Questa affermazione però non viene detta coll'intenzione di vedere l'oppresso liberarsi dalla sofferenza; al contrario, essa è un invito a vedere nella propria oppressione una fonte di felicità per l'aldilà.

Un integrista o fondamentalista lo si riconosce sempre da almeno una di queste caratteristiche:

1. non compie mai nessuna vera autocritica, neppure di fronte all'evidenza, perché preferisce sempre dar la colpa a qualcuno;

2. non ha alcun senso della storia o della realtà, in quanto tende a reinterpretarla secondo il proprio uso e consumo;

3. non riconosce alcun valore alle idee diverse dalle proprie, salvo poi appropriarsene facendo vedere che sono state partorite dalla sua mente o che hanno trovato la migliore realizzazione grazie alla sua volontà.

Queste caratteristiche possono ritrovarsi in chiunque, a prescindere dal fatto che sia credente o non credente.

Tutto questo discorso è stato fatto, in realtà, per dire altro, e chi può comprendere, comprenda. Quando arriveremo a capire, dopo aver percorso tutte le tappe del processo storico basato sull'individualismo (schiavismo, servaggio, lavoro salariato...), che la realizzazione dei valori veramente umani è possibile solo in una forma di esistenza collettivistica, in cui la persona venga valorizzata come tale e per i rapporti sociali che la caratterizzano, la storia dovrà necessariamente subire una svolta radicale, poiché sarà molto forte la percezione d'essere tornati alle origini dell'umanità, cioè nel periodo in cui prendeva corpo la formazione dell'essere umano.

Gli uomini avranno allora la sensazione d'aver percorso un cammino inutile, e solo la possibilità concreta di vivere un'esistenza completamente diversa rispetto a quelle abbandonate, potrà ridare loro il senso della vita. Quando gli uomini si volgeranno indietro a guardare tutto il loro passato, assumendolo nella piena consapevolezza storica dei suoi limiti, non potranno desiderare di ritornare, sic et simpliciter, all'innocenza primitiva, poiché questo non sarà più possibile.

Una cosa infatti è vivere l'innocenza nell'ignoranza di ciò che può accadere se ci si separa dal collettivo; un'altra è vivere l'innocenza nella consapevolezza di quali incredibili guasti può procurare un'esistenza individualistica.

Gli uomini avranno bisogno di misurare la loro libertà non in una situazione che li costringa, in un modo o nell'altro, a restare uniti, ma in una situazione in cui il collettivismo sia vissuto in maniera totalmente libera. Gli aspetti spirituali o interiori della coscienza dovranno prevalere su quelli della materialità della vita, ma solo perché questi saranno già stati in qualche modo risolti.

La rivalutazione del collettivismo dovrà essere il frutto non tanto della consapevolezza della negatività dell'individualismo, quanto piuttosto il frutto di una libera scelta. Lo sviluppo della coscienza sarà il compito principale del futuro. Ma perché ciò avvenga occorre che siano risolte le contraddizioni antagonistiche della vita materiale, o comunque occorre che gli uomini si educhino ad affrontare tali contraddizioni con impegno non meno forte di quello che dovranno dimostrare per le contraddizioni non materiali.

Primati assoluti non si devono concedere a nessun aspetto della vita umana, ma solo all'essere umano nella sua interezza. La falsità dell'idealismo è stata proprio quella di averne concesso uno alla coscienza, dimenticandosi degli antagonismi materiali, o illudendosi di poterli risolvere con l'unico strumento del pensiero, senza trasformazioni sociali. Il materialismo storico-dialettico è caduto nell'errore opposto.

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3) La figura di Abramo

Se diamo per scontato che la figura di Abramo sia leggendaria (la personificazione di una distinzione tribale), dobbiamo comunque chiederci perché questa figura ebbe così tanto successo presso il popolo ebraico. Io penso che, anche prescindendo totalmente dalla cornice religiosa che avvolge questo personaggio, Abramo rappresenti una sorta di desiderio di liberazione da qualcosa di opprimente, cioè l'evoluzione di una consapevolezza della dignità umana.

Quando, nel XVIII sec. a.C., lasciò la terra di Ur (Bassa Mesopotamia, dominata dai Sumeri) non era un poveraccio, poiché apparteneva a un'importante tribù di allevatori, guidata dal padre Terah. Il motivo della dipartita probabilmente era di tipo politico: una contestazione nei confronti dell'accentramento del potere monarchico (“Regno antico di Babilonia”), fondato su uno schiavismo non meno insopportabile di quello egizio, allora coevo.

L'emigrazione dovette comportare la rinuncia a una relativa sicurezza economica, per sperare di avere in cambio maggiore autonomia politica. Ecco perché la Bibbia dice che “Abramo ebbe fede”: lasciava il certo, non amato, per l'incerto, ancora da amare. Che poi, detto questo, si sia favoleggiato sulla “santità” di quest'uomo, è altro discorso.

Quando Abramo, colpito dalla carestia nella terra di Canaan, decise di recarsi in Egitto, trasformandosi da allevatore a mercante di sua moglie, nel senso che, facendola passare per sua sorella, la rese disponibile al faraone, come una sorta di prostituta di lusso a tempo indeterminato, non fece certo mostra di particolare “santità”, per quanto quella scelta non possa essere capita senza un'adeguata contestualizzazione storica, non solo relativa alla coscienza etica in generale, di quel tempo, ma anche in riferimento alla scarsa considerazione in cui allora si teneva l'onore della donna.9

Comunque sia i testi biblici non hanno remore nell'affermare che Abramo, in cambio del favore, ricevette “greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asini e cammelli” – in una parola diventò un ricco mercante.

Singolare resta il fatto che l'esegesi, sia ebraica che cristiana, abbia sempre giustificato un comportamento del genere. Abramo non passa soltanto per persona timorata di Dio, ma anche per uno il cui fiuto per gli affari non si pone in antitesi alla fede religiosa.

Abramo infatti richiese la moglie solo dopo essere diventato ricco al punto giusto, cioè al punto in cui il faraone non avrebbe potuto negargli la richiesta senza incorrere in spiacevoli conseguenze. Abramo – dice la Bibbia – era diventato molto ricco in “bestiame, argento e oro” e il faraone lo fece espatriare “insieme con la moglie e tutti i suoi averi”. Sembra qui di vedere non solo il capostipite del popolo ebraico ma anche l'antesignano dell'astuzia semitica.

Ritornato nel Negheb e nel Paese di Canaan, ebbe un colpo di genio: dare al nipote Lot le terre migliori della valle del Giordano pur di non farselo nemico. E quando questi pagò il suo amore per la bella vita cadendo prigioniero degli Elamiti, Abramo, pur potendolo evitare, decise di liberarlo e, liberandolo, non ne approfittò per dominarlo, non pose alcuna condizione.

Finché, ormai anziano, venne il giorno in cui si rese conto che aveva assolutamente bisogno di un discendente per evitare che tutti i suoi beni si frantumassero, alla sua morte, in mille rivoli. Occorreva un altro escamotage e lo trovò col consenso della moglie Sara: fare un figlio con la schiava Agar. Non era il massimo dell'onorabilità, ma questo avrebbe scongiurato lotte intestine tra i clan per la successione.

Senonché, dal giorno in cui rimase incinta, Agar smise di servire Sara, anzi prese a comportarsi in maniera arrogante. Il saggio Abramo permise a Sara di cacciarla, ma Agar si pentì del suo ribellismo e tornò sottomessa alla padrona, nella consapevolezza che quello era l'unico modo per garantire un sicuro avvenire al figlio che avrebbe avuto. Ed ebbe Ismaele.

Pensando non fosse sufficiente, per tenere unito il popolo alla sua morte, l'aver avuto l'erede universale (il cui sangue mezzo schiavo a tutti era noto), Abramo escogitò un'altra trovata: imporre al suo popolo la circoncisione, proprio per distinguerlo da tutti gli altri della terra di Canaan.

La circoncisione veniva a supplire la mancanza di sangue puro, non schiavo, nei discendenti di Abramo. Con la sua istituzione tutti potevano riconoscersi in un'unica comunità: “l'alleanza sussisterà nella carne” – si legge nel Genesi.

Tutto ciò ovviamente andrebbe interpretato. È probabile che Abramo, ad un certo punto, si sia reso conto che i legami tribali si stavano sfaldando e che abbia cercato di porre rimedio a questa crisi sociale con misure che in quel momento potevano apparire dei palliativi, ma che un popolo poco istruito avrebbe anche potuto considerare efficaci.

Tuttavia, il vero dramma di Abramo, quello di carattere politico e insieme personale e che in un certo senso lo pone ai vertici della dignità umana, scoppiò quando Sara concepì Isacco. Egli infatti si rese subito conto che Isacco, essendo di sangue puro, andava favorito rispetto a Ismaele, ma che né questi né Agar né forse una parte del popolo l'avrebbe tollerato.

Con la nascita del vero erede e successore Sara non voleva più tenere con sé né Agar né Ismaele: “ora che sono piccoli giocano insieme, ma da grandi che succederà?”, diceva.

Abramo si convinse che Sara aveva ragione e, suo malgrado, relegò Agar e Ismaele in una remota località, provvedendo alle loro necessità.

L'angoscia tuttavia colse Abramo proprio nel momento in cui sembrava che l'interesse politico fosse salvo: l'angoscia d'aver abbandonato nel deserto un figlio che amava.

Per punire il suo gesto decise di compiere un atto riparatore: sacrificare Isacco sull'altare dell'equità, di nascosto del suo popolo.

Senonché, proprio nel momento cruciale del sacrificio, Abramo ebbe un nuovo ripensamento: la morale personale non può essere superiore agli interessi di un popolo. La coscienza della colpa individuale non può avere la meglio sulla realizzazione di un ideale collettivo. Isacco non può essere sacrificato non tanto perché innocente quanto perché dalla sua vita dipende il futuro di un intero popolo. Isacco, “colui che ride”, il “down” avuto in tarda età sarebbe stato il suo legittimo successore.

Abramo questa volte pose una condizione a Isacco: che sposasse una donna della terra di origine, di Ur. Il suo sangue non doveva mescolarsi con quello straniero dei Cananei, come invece sarebbe accaduto per la sua tribù.

E così Isacco, sulla cui vita quasi nulla si sa, sposò la cugina Rebecca, figlia di un fratello di Abramo, dalla quale ebbe Esaù e Giacobbe (almeno così dicono i testi, ma è probabile che Abramo abbia imposto quella condizione proprio perché sapeva che Isacco non avrebbe potuto fare figli normali e nessuno del popolo cananeo sarebbe andato a verificare a Ur di chi era l'effettiva paternità di Esaù e Giacobbe).

Noi sappiamo soltanto che con Isacco la Bibbia inizia a parlare del passaggio dall'allevamento all'agricoltura.

Interessante è l'episodio in cui Isacco si permette di usare la moglie Rebecca nella stessa maniera strumentale di Abramo nei confronti di Sara. Egli si giustifica dicendo che temeva di morire, a causa della bellezza di lei, ma il sacerdote lo riprende severamente. Questo probabilmente a testimonianza del fatto che i costumi erano mutati e che Isacco rappresentò una mezza figura nella storia del popolo d'Israele.

*

L'interpretazione ufficiale della Chiesa cattolica di questo racconto è assolutamente inadeguata: Abramo è stato messo alla prova da Dio, che misteriosamente voleva verificare se amasse più Lui di tutto il resto.10 Per verificarlo con certezza gli era stato chiesto di sacrificare la cosa che aveva più cara: il figlio. In tal modo Abramo non è un assassino, ma un credente con una fede perfetta.

Quest'immagine della divinità è a dir poco veterotestamentaria (il Dio geloso, vendicativo ecc.). Il finale relativo al cervo con le corna impigliate non giustifica la richiesta. Cioè l'esegesi cattolica non può sostenere che la richiesta di Dio era legittima in quanto non avrebbe permesso ad Abramo, in ultima istanza, di uccidere Isacco. Abramo diventa un burattino nelle mani di Dio.

*

Anche nei racconti greco-classici relativi al mito di Ifigenia è palese il leit-motiv della ragion di stato, ma vi è una certa differenza dal racconto biblico del sacrificio di Isacco. Il Dio di Abramo non è capriccioso e vendicativo come Artemide; lo stesso Abramo non è crudele e cinico come Agamennone, anzi, è un uomo pieno di scrupoli, l'antesignano dell'uomo di coscienza, che fa valere la forza della ragione sulla ragione della forza. La ragion di stato è relativa alla “conservazione” di un popolo, alla sua salvaguardia nel tempo, non implica lo sterminio di un popolo nemico (i troiani per gli achei). Il destino di Isacco ha una coloritura politica: il figlio dovrà sostituire il padre nella guida del popolo. Ifigenia invece diventerà sacerdotessa di Artemide (il che può far pensare che sia stata effettivamente sacrificata). Abramo infine fu solo nel prendere la sua decisione di coscienza; Agamennone invece era circondato da losche figure, tra cui spiccava Ulisse.

Chi era davvero Abramo?

Abramo era sicuramente una persona legata agli affari, ma aveva anche la percezione che lo schiavismo imperante in Mesopotamia aveva raggiunto livelli inaccettabili. Probabilmente come Mosè avrà tentato in patria una riforma delle istituzioni e avrà scelto l'esilio come estrema ratio. Le due tribù di Abramo e Mosè in fondo costituiscono le due uniche e documentate alternative (o forse potremmo dire le alternative che nella storia scritta sono risultate più significative) alle civiltà schiavistiche che allora caratterizzavano un territorio geopolitico come quello della Mezzaluna fertile.

Noi non possiamo tralasciare questo, altrimenti non riusciamo a capire il motivo per cui un semplice mercante è diventato il capostipite di ben tre grandi religioni.

Nella vicenda di Abramo ci sono questioni etiche che vanno oltre quelle semplicemente economiche, questioni che la religione ha poi deformato come meglio ha creduto, ma di cui noi non possiamo non tener conto, ancorché vadano interpretate in maniera laico-umanistica.

C'è qualcosa nella personalità di Abramo che appare abbastanza singolare rispetto ai tempi in cui è vissuto. In un certo senso egli rappresenta la coscienza della necessità di superare lo schiavismo in un periodo storico in cui ormai lo si considerava fondamentale per lo sviluppo delle strutture delle civiltà.

La sua storia non è semplicemente legata al doppio esodo dai due regimi schiavistici (babilonese ed egizio), ma anche a un tipo di coscienza etica che per quel tempo doveva apparire del tutto eccezionale.

Quanto alla nascita di Isacco, c'è anche chi sostiene che sia stato adottato e che la sua sindrome di down sia apparsa solo raggiunta una certa età, ma dai testi si evince ch'egli nacque da una donna che non aveva mai potuto avere figli e che ormai non ne avrebbe più potuti avere.11 Forse Sara rimase incinta durante il periodo della menopausa, quando gli sconvolgimenti ormonali avrebbero potuto renderla improvvisamente gravida: Isacco, quindi, sarebbe stato il frutto di un incidente di percorso, di una gravidanza indesiderata. Che poi gli esegeti biblici, riscrivendo l'A.T., abbiano stravolto le cose, questo è del tutto comprensibile.

Sarebbe invece interessante sapere se Abramo pensò di sacrificare Isacco per la disperazione di avere un figlio down o per equiparare il torto fatto a Ismaele, che sicuramente amava di più e che non abbandonò mai al suo destino (un po' come i ricconi fanno coi figli naturali o illegittimi). Il fatto comunque che all'ultimo momento, sul monte Moriah, ci abbia ripensato è indicativo di quale profonda coscienza umana dovesse avere quest'uomo.

Quanto alla circoncisione, questa pratica esisteva in Egitto prima ancora che Abramo la praticasse. Diciamo che in Egitto non era ufficiale (forse apparteneva a qualche tribù) e che non aveva quel significato politico che lui le diede di appartenenza tribale: probabilmente in Egitto veniva usata come rito formale di iniziazione alla vita adulta o come pratica per la casta sacerdotale. Invece per Abramo era una sorta di segno di riconoscimento sociale e questo poteva tornar comodo a un piccolo popolo in mezzo ai colossi dello schiavismo pagano.

Siamo ancora in un periodo di primitivismo tribale, però non dimentichiamo che tra gli ebrei circoncisi c'era molta più magnanimità e benevolenza che non tra ebrei e pagani. Questa magnanimità intratribale le civiltà schiavistiche non l'hanno mai avuta, né egizia né babilonese.

Certo, noi dobbiamo affidarci a testi molto discutibili, in quanto ampiamente manomessi o preimpostati a fini religiosi. Ma bisogna anche dire che in tutti i testi del passato c'è qualcosa che non va... Anzi più sono generici (come p.es. quelli della sapienza orientale) e meno sono utilizzabili per capire il contesto in cui sono stati redatti. I testi, di per sé, servono a poco, perché sono espressioni di civiltà fondate sull'antagonismo sociale, e quindi sono testi viziati in partenza (di regola sono testi apologetici o comunque manipolati da chi deteneva il potere).

Forse le uniche civiltà davvero positive sono state quelle che non hanno lasciato testi scritti, cioè quelle primitive, che per milioni di anni hanno vissuto un'esistenza degna dell'uomo e che non si sono fregiate del titolo così altisonante di “civiltà”.

Nella Bibbia ci sono reminiscenze di queste civiltà, ma niente di più: gli ebrei han dato il massimo con la legislazione mosaica, col profetismo e ovviamente con la nascita del cristianesimo. Oggi son soltanto la longa manus degli USA nel Medioriente. Quindi sarebbe meglio spostare il discorso dai “testi fondamentali” al concetto di “civiltà”, ma purtroppo con gli storici occidentali non possiamo farlo, poiché i primi a non capire l'ambiguità del concetto di “civiltà” son proprio loro.

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4) La figura di Noè

Con Noè (figura leggendaria della mitologia ebraica) troviamo già sviluppata la civiltà antagonistica. Prima del diluvio si parla di “generale corruzione”, da localizzarsi nel Mediterraneo orientale, essendo nata qui la “civiltà” (quella egizia in primis), o forse addirittura nel Medioriente assiro-babilonese.

Ciò viene documentato dal fatto che i “figli di Dio” (Gen 6,2), che qui rappresentano il “male”, in quanto appunto “religiosi”, seguaci di “credenze” non umane, non tradizionali, non naturali, sottraggono agli uomini, con la violenza, le donne che vogliono, per schiavizzarle. All'origine della nascita della civiltà schiavile vi è l'ideologia religiosa, con cui si cerca di giustificare l'arbitrio, la propria superiorità fisica, materiale...

Forse a questi “figli di Dio” cercarono di opporsi, ma inutilmente, i cosiddetti “giganti” o “titani” (6,4), gli “eroi dell'antichità, uomini famosi”, di cui però s'era persa ogni traccia. Non riuscirono nel loro intento probabilmente perché la loro reazione era stata soltanto individuale, con strumenti inadeguati, e furono sterminati.

Noè invece trovò la soluzione giusta: l'autonomia produttiva. Creando una gigantesca imbarcazione, piena di animali domestici, da cui avrebbe potuto ricavare latte, formaggio, carne e uova, oltre ovviamente a tutto quanto il mare poteva offrirgli, Noè, con altri sette parenti, poteva sperare nella possibilità di vivere un'esistenza indipendente dalle città costruite dai “figli di Dio”, un'esistenza modesta ma relativamente sicura.

Quando improvvisamente avvenne il diluvio, Noè si salvò perché la sua comunità, pur non essendo una grande città (o forse proprio per questo), era meglio attrezzata ad affrontare pericoli del genere.

Noè dimostrò che l'autoconsumo era meglio del mercato. Dimostrò che nell'autoconsumo l'uguaglianza era più facile, la violenza più difficile. Dimostrò che l'uomo appartiene alla natura e non la natura all'uomo.

Noè ricostruì la civiltà umana su basi nuove, più democratiche, approfittando del fatto che eventi naturali catastrofici avevano minato le fondamenta della civiltà precedente. E pose due principi basilari per la futura convivenza: proprietà comune dei beni e divieto di uccidere. “Chi uccide un uomo verrà ucciso dall'uomo” (9,6).

Tuttavia qualcosa non funzionò. Noè fu agricoltore e fu il primo a piantare una vigna. Un giorno bevve il vino, si ubriacò e si addormentò nudo nella sua tenda” (9,20).

Cosa avesse fatto nella sua tenda, dopo essersi ubriacato, non viene scritto, ma, guardando la reazione che ebbe, dopo essere stato scoperto dal figlio minore Cam, vien da pensare che fosse qualcosa di poco dignitoso dal punto di vista morale.

Cam, senza volerlo, aveva violato la privacy di suo padre e, invece di tenere per sé la spiacevole scoperta, andò subito a riferirla ai fratelli maggiori, Sem e Jafet, che invece si comportarono con molto fair-play, probabilmente ben conoscendo le debolezze del padre.

Fatto sta che da quell'incidente Cam ne uscì diseredato e ridotto in schiavitù, anche se poi i suoi discendenti riuscirono comunque a ottenere propri territori.

La storia del popolo ebraico tuttavia andò avanti soltanto con uno dei due avveduti fratelli: Sem. Inspiegabilmente Jafet e i suoi discendenti spariscono di scena. Tra i suoi discendenti però viene citato un certo “Magog”, che insieme a “Gog”, fu successivamente identificato con gli Sciti, i Goti, i Mongoli, i Tartari, gli Ungari, ma anche con i Khazari, popolo caucasico che abbracciò l'ebraismo.

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5) Il roveto ardente

Sull'idea di “resurrezione dei corpi” sappiamo almeno tre cose: che è stata particolarmente sviluppata dai cristiani, che si ritrova in moltissimi racconti mitologici delle religioni pagane, che è presente in alcune correnti (p.es. quella farisaica) nell'ultimo periodo dell'antica cultura ebraica.

Eppure, se analizziamo il racconto del “roveto ardente” (Es. 3,6), si ha l'impressione che in maniera simbolica gli ebrei avessero già chiara l'importanza di questo tema.12

Il roveto che arde senza consumarsi viene visto da Mosè in due modi differenti ma contestuali: come materia e come energia, contemporanei nello spazio-tempo. Poi l'energia diventa così tanta ch'egli è costretto a coprirsi il volto. I Sinottici riprenderanno questo episodio là dove parlano di trasfigurazione del Cristo sul monte Tabor.

In questo racconto simbolico-mitologico vi è una parte scientifica (la concezione della materia, strettamente correlata all'energia) e una parte religiosa (l'idea che l'identità di materia ed energia abbia origine divina).

Mosè si deve coprire il volto perché, pur avendo compreso la straordinarietà di un fenomeno naturale, appartenente solo agli astri e, in particolare al Sole, di cui egli era sacerdote alle dipendenze del faraone Akhenaton, non sapendo come riprodurlo nella dimensione terrena, ne attribuisce la causa a qualcosa di sovrannaturale.

Successivamente il racconto che lo descriverà scendere, col volto raggiante, dalle pendici del Sinai, si preoccuperà di dimostrare ch'egli aveva sperimentato addirittura su di sé la proprietà fondamentale della materia, cioè quella di essere una cosa sola con l'energia. Tuttavia gli ebrei attribuiranno questa scoperta scientifica a motivazioni di ordine religioso, compiendo con ciò un'opera di mistificazione.

Resta comunque straordinario il fatto ch'essi, già nell'antichità, in maniera simbolica, avessero intuito come tra materia ed energia vi sia uno scambio di proprietà che non fa perdere a nessuna delle due la propria sostanza.

Se ora applichiamo questa intuizione scientifica all'idea di resurrezione di un corpo (che altro non è in fondo che la sua trasformazione materiale) si può arrivare a un'ipotesi che non ha bisogno di alcun supporto religioso.

Infatti, se la materia è parte essenziale dell'universo, e se essa è destinata a trasformarsi, in virtù della potenza energetica dello stesso universo, la morte non può essere la fine della materia corporea, ma l'inizio di una nuova forma di vivibilità, di cui ovviamente non possiamo sperimentare nulla finché restiamo in questa dimensione terrena.

Materia ed Energia sono in eterno movimento, con dei tempi che possono essere molto lunghi o molto corti, assolutamente relativi all'eternità e infinità dell'universo (si badi che la parola stessa “universo” è relativa in quanto potrebbero esistere dei “pluriversi”).

Gli ebrei antichi avevano capito che, per quanto spirituale sia l'essenza delle nostre idee, noi non possiamo mai fare a meno della fisicità in cui esprimerle. Siamo fatti di “corpo” e di corpo resteremo, benché in forme più energetiche di quelle attuali, non soggetta a entropia.

Il corpo è fatto di istinti e passioni che in un certo senso vanno trasfigurati in modo tale che il loro uso non danneggi la libertà di coscienza, propria e altrui. Questa forma di libertà è, oltre alla materia e all'energia, il terzo elemento fondamentale che costituisce l'universo.

Forse l'esperienza che meglio si è avvicinata a questa concezione della fisicità umana è stata quella esicasta, che però ha voluto racchiuderla nella dimensione religiosa. La filosofia palamitica, se viene depurata di tutti gli elementi spiritualistici, resta potente (soprattutto là dove distingue tra essenza ed energia e là dove dice che l'energia ha un'essenza inconoscibile ma sperimentabile attraverso un'illuminazione interiore, che è appunto un'esperienza di tipo energetico. Lui, ch'era un grandissimo intellettuale, diceva che l'illuminazione spirituale è completamente diversa dalla conoscenza teoretica. Parlava di “negazione della negazione” 300 anni prima di Hegel e aveva già capito ch'era insufficiente come metodo per ottenere un concetto definitivo).

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6) Sansone e i Filistei. Fiaba per adulti

Più di tremila anni fa, in Palestina, prima ancora che si formasse tra gli ebrei l'istituzione della monarchia, durante quindi il regime dei Giudici (1200-1000 a.C.), le tribù conducevano un'esistenza sempre meno nomadica e pastorale e sempre più stanziale e agricola.

Pur avendo una comune stirpe, esse erano relativamente indipendenti tra loro e stavano molto a contatto con le popolazioni non ebraiche confinanti: p. es. i Filistei a nord, i Cananei al centro, i Gebusei a sud. Queste popolazioni, approfittando della debolezza politica ed economica delle tribù d'Israele, spesso riuscivano ad avere la meglio sul piano militare.

Una di queste tribù era quella di Dan, che dovette emigrare dalla regione della Giudea a causa delle pressioni da parte dei Gebusei.

Ebbene la storia di Sansone nasce proprio dentro la tribù di Dan. A contatto con popolazioni straniere più evolute, gli ebrei rischiavano di perdere la loro identità. Sansone rappresenta appunto la gravità del pericolo che incombeva sui destini del popolo ebraico.

Nel libro dei Giudici la sua storia è narrata con particolare ampiezza. Il libro è stato scritto e riscritto più volte nel corso dei secoli: in origine le storie che racconta si tramandavano solo oralmente. La fusione di tutti i racconti fu fatta per la prima volta dopo la caduta del regno del nord (722 a.C.), all'epoca del re Ezechia, mentre l'ultima venne fatta all'epoca di Esdra (450 a.C.).

*

Un giorno un uomo dall'aspetto molto maestoso, ebbe una relazione con una donna ebrea sposata, che non aveva mai avuto figli dal proprio marito, e la mise incinta.

Quest'uomo impose alla donna di consacrare a Dio con un voto di nazireato (Num 6,1-8) il bambino che avrebbe avuto: in tal modo non ci sarebbe stato bisogno di riconoscere il vero padre. Il suo unico vero padre sarebbe stato Dio stesso. Insomma Sansone, il nome del bambino, era destinato a diventare una sorta di profeta.

L'uomo volle mantenere ufficialmente l'anonimato e nello stesso tempo aveva promesso che si sarebbe preso cura di Sansone. Chiese ovviamente ai due coniugi di non rivelare a nessuno la propria identità, altrimenti sarebbe stato costretto a ucciderli, ed essi mantennero la parola.

Divenuto adulto, Sansone s'innamorò di una ragazza filistea, contro il parere dei propri genitori, che non vedevano di buon occhio una relazione con una donna del popolo nemico, che aveva preso a estendersi oltre il proprio territorio, minacciando seriamente l'indipendenza di Israele. Ma Sansone la voleva addirittura sposare.

Per averla fece a pezzi un leone dimostrando la propria forza fisica e sottopose a un indovinello i parenti di lei, dimostrando così anche la propria intelligenza, ma la donna, che riuscì dopo molte insistenze a conoscere la risposta (Sansone aveva un debole per le donne), lo tradì, rivelandola ai parenti, che comunque avevano minacciato di morte sia lei che suo padre, se non avesse detto loro la soluzione. I Filistei infatti non volevano assolutamente questo matrimonio.

Siccome era sicuro di vincere, poiché l'indovinello era davvero molto difficile, fu costretto a uccidere 30 persone pur di onorare l'impegno della promessa fatta se avesse perso. Li uccide ad Ascalon, poi prende le loro vesti e le porge agli invitati della sposa. Dopodiché se ne ritorna dai suoi genitori, lasciando la donna da sola: il matrimonio era stato fatto, ma, avendo perso la scommessa e diffidando dei Filistei, Sansone se ne andò mostrando d'essere molto adirato.

Dopo un po' di tempo andò di nuovo a trovare la sua donna, ma scoprì che il padre di lei, convinto che lui l'avesse ripudiata, l'aveva ceduta al compagno che gli aveva fatto da testimone alle nozze, sicché il padre propose a Sansone di accettare la sorella minore.

Con fare provocatorio Sansone reagì a questo affronto procurando un grave danno materiale ai Filistei: sentendosi offeso nella propria onorabilità, bruciò molti campi di grano, di vigne e di oliveti.

I Filistei reagirono alla devastazione dei raccolti uccidendo sia la moglie di Sansone che il padre di lei. Sansone se la prese tantissimo e fece strage di molti Filistei, dopodiché si nascose in una grotta.

Per tutta risposta i Filistei attaccarono una città dei Giudei, i quali, vista la sproporzione delle forze in campo, decisero non di uccidere Sansone ma di consegnarlo legato ai Filistei, che ovviamente, in cambio della pace, accettarono ben volentieri l'offerta.

Senonché all'ultimo momento Sansone si liberò delle corde e, consapevole della propria forza, fece strage di altri Filistei e pretese anche che i Giudei lo riconoscessero come supremo capo (cosa che fecero per ben 20 anni).

Ma Sansone aveva un debole per le donne filistee e a Gaza giacque con una prostituta. Cercarono di catturarlo, ma invano.

Poi s'innamorò di un'altra filistea, Dalila, che accettò di essere ben pagata dai suoi compatrioti se fosse riuscita a farlo catturare.

Dopo vari tentativi (Sansone era molto furbo), finalmente vi riuscì. Aveva capito che Sansone non era solo un debole sessualmente, ma anche un po' spaccone, non avendo praticamente nemici in grado di sconfiggerlo.

Subito dopo averlo catturato, i Filistei lo accecarono e, per burlarsi di lui, lo misero a far girare la macina del grano, come uno schiavo.

Sansone si pentì delle proprie debolezze e stette al gioco. Lui ch'era astuto con gli uomini e stupido con le donne, accettò di farsi sbeffeggiare nella festa del Dio Dagon e, facendo finta di nulla, si vendicò.

Con la forza notevolissima che non l'aveva mai abbandonato, demolì le colonne portanti dell'edificio in cui, giocando come un buffone, avrebbe dovuto far divertire i Filistei. Ne morirono tantissimi, compreso lui.

*

La favola c'insegna quattro cose: non solo quella più evidente, che una donna può circuire anche l'uomo fisicamente più forte del mondo; ma anche quella più nascosta, che riguarda i rapporti tra genitori e figli.

Sansone è la dimostrazione che una vocazione (in questo caso il “nazireato”) non può essere imposta dai genitori ai figli, o comunque che una vocazione non può essere vissuta, da adulti, come una scelta scontata, solo perché essa è stata il frutto della volontà dei genitori. Un figlio ha il diritto e il dovere di chiedersi se il progetto che i genitori hanno su di lui sia proprio quello giusto. Non ci si può sentire in obbligo quando è in gioco la propria libertà personale, le proprie scelte di vita.

La povertà materiale dei propri genitori non è un motivo sufficiente per sentirsi obbligati nei loro confronti, soprattutto quando vanno prese decisioni per lo sviluppo della propria identità.

Sansone buttò via una vita di rinunce e di sacrifici proprio perché non aveva riflettuto adeguatamente sul significato del progetto che i genitori avevano su di lui, un progetto condizionato molto dalle circostanze della povertà materiale e che non poteva certo supplire alla colpa di un rapporto extraconiugale da parte della madre.

La terza cosa è l'aspetto politico del racconto: Sansone è un individualista, combatte da solo, fidando solo nella propria astuzia e nella propria forza, non cerca alleati, non riesce a organizzare una resistenza popolare, è costretto a sotterfugi di bassa lega per cercare di avere la meglio sui propri nemici. Non poteva che uscire sconfitto, anche se nel racconto viene detto il contrario, e la sua morte eroica non rende più convincente il suo operato, complessivamente inteso.

L'ultima cosa riguarda l'aspetto umano: Sansone è capace di ravvedimento, seppur alla fine della sua vita.

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7) L'ateismo di Giobbe

I

Nel libro biblico di Giobbe, scritto forse nel V sec. a.C., il protagonista è un ricchissimo agrario con dieci figli, i quali conducevano una vita spensierata, a volte licenziosa.

Quest'uomo, che passava per “timorato di Dio”, moralmente integro e retto, viene messo alla prova da Satana, col permesso di Dio, al fine di verificare la credibilità della sua fede e della sua morale, che nel libro coincidono: chi “crede” è anche “buono”.

La prima prova è quella della povertà. I popoli pagani dei Caldei e dei Sabei, privano Giobbe di tutti i suoi beni. A tale catastrofe si aggiungono anche eventi atmosferici molto sfavorevoli, che portano a morte i suoi stessi figli.

Giobbe però continua ad aver fede in Dio. “Nudo uscì dal ventre di mia madre e nudo vi ritornerò”, così diceva, pensando di dover morire povero.

La seconda prova da superare fu una grave malattia della pelle, che riempie Giobbe di pustole e foruncoli, tanto da costringerlo a vivere separatamente dagli altri. Al vederlo così, la moglie si meraviglia che continui a credere in Dio; ma Giobbe le risponde, fatalisticamente: “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?”.

A quel punto tre suoi amici vanno da lui per consolarlo: Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita. Non pronunciano una parola per una settimana, limitandosi a piangere.

Poi Giobbe viene fuori con un discorso. Comincia a dire che sarebbe stato meglio non essere mai nato o essere morto subito dopo, piuttosto che vivere una sofferenza del genere, a lui del tutto inspiegabile.

Il primo a rispondergli è Elifaz il Temanita. Cerca di consolarlo in maniera ingenua, dicendogli che Dio premia i buoni e castiga i cattivi già su questa Terra. E siccome lui è l'unico essere buono, è giusto che faccia ciò che vuole: di fronte a Dio nessun mortale può essere completamente giusto. Quindi fa capire a Giobbe che qualcosa di negativo deve aver fatto, anche se non ne ha consapevolezza. È solo nell'ignoranza del male compiuto che Giobbe, inevitabilmente, avverte come inspiegabile quanto gli è accaduto. Dio quindi l'avrebbe punito solo per correggerlo. Prima o poi, se gli resterà fedele, lo premierà.

Rispondendo a Elifaz, Giobbe fa capire che se anche avesse compiuto qualcosa di sbagliato, quanto sta soffrendo in quel momento gli appare del tutto sproporzionato, per cui avrebbe sperato di ottenere, da parte di Elifaz, un aiuto consolatorio, non una richiesta di pentimento. Infatti, se proprio deve pentirsi di qualcosa, gli si deve prima dire in che cosa ha peccato, altrimenti sarà costretto ad attribuire al caso le sue disgrazie. (Si noti come qui già s'intravvede un principio di ateismo).

Resosi conto della incongruità tra colpa e pena, Bildad il Suchita non chiede a Giobbe di pentirsi per una colpa personale, ma per una colpa che possono aver compiuto i suoi figli. E questa per lui non può che essere quella dell'ateismo. I suoi figli non avevano il suo stesso “timor di Dio”. Dopodiché aggiunge che se lui, nonostante questa grande disgrazia di cui soffre, continuerà a rimanere fedele a Dio, otterrà di sicuro più di quanto gli è stato tolto, poiché Dio non può negare se stesso e punire chi gli è riconoscente. Non l'ha mai fatto nella storia delle generazioni precedenti alla nascita di Giobbe. Bisogna quindi aver solo pazienza.

Giobbe fa capire subito a Bildad che confrontarsi con un Dio come quello che loro gli stanno dipingendo, è impossibile: si finirebbe con l'avere sempre torto. Questo Dio è per lui troppo misterioso, troppo potente, troppo incomprensibile per poterlo conoscere o frequentare.

Infatti – questo è quanto lui dice di un eventuale rapporto dialettico con tale Dio: “Se avessi anche ragione, non risponderei”, proprio perché sarebbe naturale temere spiacevoli conseguenze. Non se la sentirebbe, di fronte a un'entità così onnipotente, di mostrare saggezza o giustezza in qualcosa. Ecco perché aggiunge: “Al mio giudice dovrei domandare pietà”, facendo quindi la parte del colpevole, anche se in coscienza ritiene di non esserlo.

Di fronte a un Dio del genere, che in fondo gli appare abbastanza assurdo, Giobbe dichiara di non essere sicuro di niente: “Se io lo invocassi e mi rispondesse, non crederei che voglia ascoltare la mia voce”. Quando, in effetti, si ha a che fare con un'entità così imprevedibile, non val neppure la pena avere un confronto. “Egli con una tempesta mi schiaccia, moltiplica le mie piaghe senza ragione...”.

Per Giobbe sarebbe come avere a che fare con un sovrano assoluto e capriccioso, padrone di un potere così grande che lo autorizza a considerare gli esseri umani dei semplici sudditi da manipolare, nella convinzione di avere anche tutte le ragioni per comportarsi così. Infatti egli constata amareggiato: “Se avessi ragione, il mio parlare mi condannerebbe”, nel senso che per un uomo sarebbe meglio tacere, visto che Dio conosce i pensieri di tutti e nessuno conosce i suoi. “Se fossi innocente, egli proverebbe che sono colpevole”, proprio perché il diritto, quando è in gioco la figura di Dio, appartiene alla forza di chi comanda, che è infinitamente superiore a quella di chi ubbidisce.

Alla fine di questa riflessione Giobbe è costretto a chiedersi: “Sono innocente? Non lo so neppure io”. Solo un'entità esterna, onnipotente e onnisciente, può davvero sapere se lui è colpevole o innocente. A questo punto però, per un uomo così ferito e angosciato, in balìa di una volontà nei cui confronti è del tutto impotente, non è neppure importante sapere la verità. Infatti è Dio che “fa perire l'innocente e il colpevole”, e in una maniera che all'uomo comune pare del tutto casuale o arbitraria.

Quindi non è affatto vero che Dio salva sempre l'innocente o condanna sempre il colpevole. Nel percorso della vita, nella storia del genere umano colpevoli e innocenti vivono o muoiono senza riferimenti a questioni di giustizia o di diritto. “Se un flagello arriva all'improvviso, della sciagura degli innocenti Dio ride”, dice a Bildad, non senza apparire cinico e quindi, sul piano religioso, blasfemo. Giobbe manifesta chiaramente una concezione della divinità del tutto diversa, in quanto rifiuta l'idea che la divinità non potrebbe mai fare del male, o comunque permetterlo. Anzi, per lui Dio sembra essere un'entità che va al di là del bene e del male, proprio in quanto bene e male sono soltanto categorie umane.

Giobbe aggiunge ancora, per far vedere che gli uomini sono degli inetti, del tutto incapaci di voler il bene, di essere razionali, che Dio non ha alcuna difficoltà a permettere che “la Terra venga lasciata in balìa del malfattore”. In balìa nel senso che chi dovrebbe giudicare il malfattore non è in grado di farlo: “Dio vela il volto dei suoi giudici”. Altro che “giustizia divina”! Altro che “storia maestra di vita”! Altro che “tribunale della storia”! Le società, le civiltà sono più che altro amministrate da uomini dissoluti, corrotti, irresponsabili.

Dunque (ecco un'altra conclusione efficace nei ragionamenti disincantati di Giobbe): “Se sono colpevole, perché affaticarmi invano?”. Qui va sottintesa la necessità di dover pentirsi di qualcosa, di dover chiedere perdono, o anche di trovare delle giustificazioni alla propria condotta. Giobbe sembra essere propenso ad assumere un atteggiamento rassegnato, cioè a lasciar fare al destino. D'altronde è inutile mettersi a discutere con uno “che non è un uomo come me, cui io possa rispondere: 'Presentiamoci alla pari in giudizio'. Non c'è fra noi due un arbitro che ponga la mano su noi due”.

Sono parole, queste, di una profondità eccezionale. In effetti, che senso ha credere in un Dio con cui è impossibile confrontarsi? Se questa non è una forma incipiente di ateismo, che cos'è? Se un Dio ha la facoltà di terrorizzare, è impossibile che l'uomo possa essere sincero, onesto con se stesso. È come essere sotto tortura: si è disposti a dire qualunque cosa per far smettere il carnefice. O, al contrario, si dà per scontato che col carnefice non vi sia alcuna possibilità d'intesa, per cui ci si lascia morire. Se Dio non rinuncia alla sua capacità reale di terrorizzare, sarà sempre impossibile parlarci senza temerlo. Si dovrà per forza subire o essere ipocriti, ambigui nel parlare, doppi nelle intenzioni.

Soltanto s'egli si metterà allo stesso livello dell'uomo, Giobbe si sentirà in dovere di chiedergli: “È forse bene per te opprimermi... e favorire i progetti dei malvagi?”. Cioè il povero sventurato, ignaro delle cause di ciò che lo opprime profondamente, si sentirà autorizzato a porre un dubbio sulla giustezza dell'operato di Dio. Potrà chiedergli il motivo di così tanto accanimento, che apparentemente sembra insensato. Questo perché Giobbe ha l'impressione che Dio si comporti proprio come gli uomini che non hanno rispetto di niente, in quanto vogliono esercitare unicamente il loro potere. “Hai tu forse occhi di carne, o anche tu vedi come l'uomo?”: questo il rimprovero che gli muoverebbe, se potesse discutere con lui alla pari, senza timore d'essere incenerito. L'importante è chiarirsi sul perché delle cose, altrimenti l'uomo potrebbe arrivare a dire che la vita non ha alcun senso.

Quindi delle due l'una: “Se sono colpevole, guai a me! Se giusto, non oso sollevare la testa...”. Non la solleverà perché comunque di fronte a un Dio così, qualunque reazione è impossibile. Ma per lo meno egli avrà la soddisfazione di sapere che non stava pagando il prezzo di qualche specifica colpa. Se poi Dio vorrà lo stesso punire Giobbe, per una colpa che solo lui, in virtù della sua onniscienza, conosce, lo faccia pure. Resta tuttavia il fatto che i suoi interlocutori, umani come lui, non hanno il diritto di chiedergli di accettare la pena come se dovesse meritarla. Infatti, per quanto lo riguarda, l'incoerenza, finché manca un confronto alla pari, è tutta del Creatore, nel senso che se egli deve essere punito senza valide ragioni, tanto valeva non averlo mai fatto nascere. “Perché tu mi hai tratto dal seno materno?”, si chiede Giobbe. E si dà anche una risposta: “Lasciami ritornare nelle tenebre”, tanto la vita su questa Terra non ha alcun senso.

Detto questo, interviene Zofar il Naamatita, che è sulla posizione degli altri due, dando per scontato che Giobbe abbia peccato in qualcosa, altrimenti l'azione di Dio sarebbe folle.

Gli fa però capire due cose: 1) se Dio voleva toglierlo di mezzo, a causa della sua iniquità, l'avrebbe già fatto, per cui, se si limita a farlo soffrire, vuol dire che ha intenzione di perdonarlo, ovvero che gli ha già condonato almeno una parte della colpa; 2) sapendo questo, Giobbe non dovrebbe avere difficoltà a pentirsi, nel senso che gli basta poco per tornare ad essere felice come un tempo, anche se in una condizione materiale molto diversa.

Giobbe gli risponde assumendo un tono critico: la sapienza non appartiene solo agli amici che sono venuti a trovarlo, ma anche a lui stesso, in grado di fare i medesimi ragionamenti. Non accetta l'idea che vi siano intermediari tra lui e Dio, dei mediatori che pretendono d'essere più sapienti di lui, più capaci d'interpretare la volontà divina.

Ciò che Giobbe continua a rifiutare è l'idea di doversi pentire a priori per una colpa che ignora e che, secondo i saggi, deve per forza aver compiuto (o devono aver compiuto i suoi parenti). Infatti, se egli si sentisse davvero colpevole di qualcosa, non avrebbe l'ardire di misurarsi con un'entità dai poteri straordinari. Giobbe rivendica l'autonomia dell'uomo, il diritto a non farsi calpestare senza reagire.

Egli non rifiuta d'essere processato per qualche colpa che ha commesso. Rifiuta però che nella procedura processuale lui si debba sentire schiacciato come un verme da una realtà onnipotente. Vuol sentirsi libero di parlare, di difendersi, persino d'interrogare chi lo accusa.

Poi fa una rimostranza contro lo stesso Dio, dal sapore irriverente: l'uomo non è come la natura, che, nonostante le avversità, può sempre riprendersi; l'uomo è mortale, in maniera irreversibile, e nessuno sa che fine farà dopo morto; dunque a che pro ridurgli così duramente il tempo della sua esistenza, senza dargli modo di rimediare a qualche errore compiuto? Che razza di Dio è quello che considera un albero più importante dell'uomo?

II

A partire dal cap. 15 inizia il secondo ciclo di discorsi. Parla Elifaz il Temanita. Ora il saggio non pone più delle domande a Giobbe, ma formula delle precise accuse. “Tu distruggi la religione e abolisci la preghiera innanzi a Dio”.

Elifaz ha capito che Giobbe tende seriamente, convintamente all'ateismo, per cui sta per pronunciare un'invettiva contro tutti coloro che non riconoscono l'Onnipotente. Ora attribuisce all'ateismo di Giobbe la colpa morale che gli ha meritato il castigo, nel senso che Giobbe si condanna da solo proprio mentre cerca di difendersi. Arriva a dire che gli atei, anche se sono dei grandi condottieri armati di spada, periranno miserevolmente. Il fatto che gli empi muoiano in maniera rovinosa, dimostra appunto, secondo lui, l'esistenza di un Dio giusto giudice.

Giobbe però non s'intimorisce affatto, anzi, comincia a inveire contro i suoi interlocutori, dicendo loro che se le parti fossero invertite, anche lui sarebbe in grado di fare dei gran bei discorsi moralistici o religiosi. Proprio non riesce ad accettare l'idea che si debba sopportare il dolore a causa di una qualche colpa commessa, di cui non si ha contezza. Non vuol credere in una inspiegabile fatalità, né vuole abbassare la testa di fronte a una imperscrutabile volontà divina. Lui non si sente colpevole di nulla, a meno che qualcuno non glielo dimostri concretamente. E non accetta prediche morali per le quali dovrebbe sentirsi colpevole a priori, in virtù del fatto che il Creatore ha “sempre” ragione.

Attorno a sé non vede alcun aiuto, ma solo nemici che vogliono approfittare della sua debolezza. Non ama essere giudicato da un senso schematico della giustizia, da chi non mette mai in discussione i valori dominanti. Piuttosto che adeguarsi passivamente alla concezione che lo obbliga a pentirsi senza saperne la ragione, preferisce morire. In nome dell'ateismo Giobbe ha il coraggio di dire che il sepolcro è “suo padre”, e i vermi che lo mangeranno sua madre e le sue sorelle.

Ecco che Bildad il Suchita riprende a parlare. E gli dice soltanto che tutte le giustificazioni che fino a quel momento ha ascoltato, sono soltanto inutili chiacchiere. Se continua così, Giobbe è destinato a far la fine degli empi che non credono in Dio. Non c'è scampo per lui. E lo rimprovera di aver fatto passare i suoi amici per bestie insensibili.

Di nuovo Giobbe replica, e questa volta con tono minaccioso, invitandoli ad andarsene. È stufo d'essere insultato, maltrattato. Rivendica la giustezza del suo comportamento; e loro non possono pensare d'aver ragione solo perché lui, in quel momento, si trova in uno stato di abiezione.

“Grido contro la violenza, ma non ho risposta; chiedo aiuto, ma non c'è giustizia!”. Gli amici moralisti gli fanno ribrezzo come i nemici che gli hanno portato via tutto. Per lui non ha più senso credere in un Dio che lo considera alla stregua di un nemico. Non ha più voglia di discutere coi sapienti moralisti. Si affida soltanto alla speranza che, dopo la sua morte, qualcuno lo vendicherà, o quanto meno si assumerà l'onere di dimostrare ch'egli era nel giusto.

Spera insomma che venga smascherata l'ipocrisia di chi lo giudica negativamente solo perché lui è andato materialmente in rovina. Giobbe rifiuta recisamente l'idea che lui sia tenuto a pagare il prezzo di una qualche grave mancanza, di cui per fondati motivi non avverte alcuna responsabilità.

Ora a contestarlo è Zofar il Naamatita, ma lo fa ribadendo cose già dette. Gli atei sono destinati a scomparire dalla faccia della terra. Non c'è futuro per l'ateismo, poiché già nel passato, nel suo confronto con la fede religiosa, ha sempre perso la partita. Gli atei cercano la ricchezza, poiché sono immorali, non hanno rispetto di alcun valore; ma i loro figli dovranno restituire tutti i beni sottratti alle popolazioni affamate.

Zofar vuole spaventare Giobbe con immagini terrificanti, come tutte le religioni han sempre fatto usando la raffigurazione dell'inferno ultraterreno. L'ebraismo ha però questo di diverso: gli empi devono vivere l'inferno già in questo mondo, poiché saranno le persone pie e devote a ribellarsi alla loro malvagità.

Ma Giobbe non si fa impressionare e al cap. 21 reagisce così. Smentisce Zofar su tutta la linea: non gli concede nulla di ciò che gli ha detto. Infatti ritiene che sia sotto gli occhi di tutti che gli atei se la passano molto bene e non sono affatto puniti da Dio.

Le considerazioni di Zofar sono un falso storico, anzi ideologico, in quanto viziate da un pregiudizio di fondo, quello appunto religioso. Gli atei – spiega Giobbe – “finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi”. È proprio la loro condotta a dimostrare l'inesistenza di Dio. E di fronte alla morte credenti e non credenti verranno trattati nella stessa maniera: solo che gli uni in vita avranno goduto, gli altri no, avendo avuto il timore di trasgredire i precetti divini. “Uno muore in piena salute, tutto tranquillo e prospero... Un altro muore con l'amarezza in cuore, senza aver mai gustato il bene”. Poi “nella polvere giacciono insieme e i vermi li ricoprono”. Insomma non esiste alcuna giustizia divina: gli uomini se la devono fare per conto loro.

Di nuovo interviene Elifaz il Temanita, che non demorde, anche se ha capito di avere a che fare con un intellettuale che sprovveduto non è. Questa volta però le accuse sono gravissime, e stupisce che per i primi 21 capitoli nessuno ne abbia fatto cenno. Ci si sarebbe risparmiati tante illazioni, o vuote supposizioni, o inutili lamentele, o frasi retoriche e moralistiche... Vien da pensare che questo terzo ciclo di discorsi sia stato aggiunto da qualche altro autore, resosi conto che la logica di Giobbe era tutt'altro che peregrina.

Infatti Elifaz non ha dubbi nel sostenere che se Giobbe fosse stato una persona giusta, le pene inflitte da Dio non avrebbero avuto alcun senso. Tuttavia esse acquistano ogni giustificazione alla luce del fatto che Giobbe – secondo lui – era stato in realtà profondamente ingiusto.

Nel mostrare le sue prove Elifaz è un fiume in piena. Fa la parte di un fanatico della religione che non si rassegna a credere che un ateo possa essere una persona eticamente irreprensibile. Di qui una sfilza incredibile di accuse. Giobbe possiede una “grande malvagità”, una “iniquità senza limite”, ha “spogliato gli ignudi”, non ha dato “da bere all'assetato”, ha rifiutato “il pane all'affamato”, ha dato “la terra al suo favorito”, ha rimandato “la vedova a mani vuote”, ha addirittura “rotto le braccia agli orfani”.

Elifaz attribuisce tutte queste iniquità all'empietà di Giobbe, che viene fatta coincidere con l'egoismo. Non entra nel merito delle singole scelleratezze, non le circostanzia nel tempo e nello spazio, non cita luoghi e persone, ma le elenca come se fossero a tutti note. È sì costretto ad ammettere che gli empi possono avere immense ricchezze, nei cui confronti Dio non può far nulla. Ma poi aggiunge che anche gli empi, prima o poi, andranno in rovina, per cui l'unico modo di riconciliarsi con Dio è pentirsi di ciò che si è fatto. E per farlo in maniera convincente, Giobbe deve anzitutto “stimare l'oro come polvere”.

Insomma l'accusa è quella di essere stato un “materialista volgare”, attaccato tenacemente ai beni materiali. Ora, come potrà Giobbe scagionarsi di fronte ad accuse così gravi? Riuscirà a trovare argomenti davvero convincenti?

Due interi capitoli (23 e 24) sono riservati alla replica di Giobbe. Ma, per quanto incredibile possa apparire, egli non risponde a tono. Non prende in considerazione neanche una delle accuse di Elifaz. Pertanto ci si chiede: non ha argomenti per obiettare alcunché, in quanto le colpe sono terribilmente evidenti, oppure considera le accuse tutte false, per cui non meritano alcuna attenzione? Sono insomma le farneticazioni grossolane di un impostore, oppure Giobbe vorrebbe mettersi a discutere solo col diretto interessato, cioè Dio in persona?

Da quel che afferma, sembra che la sua posizione non sia cambiata di una virgola, per cui vien da pensare che questi due capitoli non forniscano informazioni in più. Giobbe si sente innocente su tutti i fronti, a tutti i livelli, e vorrebbe poterlo dimostrare non a chi, stando davanti a lui, lo accusa spietatamente, ma direttamente a Dio, che però egli non vede da nessuna parte. Non vuole essere giudicato dagli uomini, ma da un'entità superiore.

“Ma se vado avanti, egli non c'è; se vado indietro, non lo sento. A sinistra lo cerco e non lo scorgo; mi volgo a destra e non lo vedo” – così Giobbe si sente autorizzato a constatare. Non vuole discutere coi suoi interlocutori, poiché li disprezza, li reputa degli ipocriti. Vorrebbe farlo col Dio in cui loro dicono di credere, ma non lo vede da nessuna parte. E, per quanto gli riguarda, egli ribadisce la sua rettitudine, la sua onestà di fondo, la sua fedeltà alla legge. Sente di non meritare quelle disgrazie. Sente di essere vittima di circostanze fortuite e inspiegabili. Nessuno può paragonarlo a un malvagio che “sposta i confini” del proprio territorio, che “ruba le greggi altrui”, che porta via “l'asino degli orfani”, o “prende in pegno il bue della vedova”, o “spinge i poveri fuori strada”. E così via.

Sino alla fine Giobbe continua a dire che le sue azioni non possono essere equiparate a quelle che compiono i malvagi, di giorno e di notte. Continua soprattutto a sostenere che i malvagi fanno quello che vogliono e non c'è alcun Dio che possa impedirglielo. E quando loro vanno in rovina, è perché vengono sostituiti da altri nemici peggiori di loro, non tanto perché chi ha sofferto le loro angherie ha ottenuto giustizia. I malvagi possono andare in rovina come le persone rette e oneste, ma non perché esiste un Dio che li punisce. “Non è forse così? Chi può smentirmi e ridurre a nulla le mie parole? – si chiede, rassegnato, il povero Giobbe.

Al che Bildad il Suchita sembra rispondere, non meno sconsolato, che se anche Giobbe avesse ragione, resta il fatto che, in ultima istanza, l'uomo, di per sé, solo per il fatto d'essere nato, non può in alcuna maniera paragonarsi a Dio. Questo perché di fronte a Dio l'uomo ha sempre torto, che abbia peccato o no.

Ora, da qui in poi, altri due capitoli l'autore li riserva a Giobbe, che schernisce Bildad senza pietà. “Quanto aiuto hai dato al debole e come hai soccorso il braccio senza forza!”, gli risponde seccato. Soprattutto non sopporta che gli si venga a dire di non conoscere Dio, che per lui, in sostanza, coincide con la Natura.

Giobbe è così convinto di ciò che dice, è così convinto di dire la verità che rifiuta di riconoscere ai suoi interlocutori qualunque ragione. “Lungi da me che io mai vi dia ragione; fino alla morte non rinuncerò alla mia integrità”. E poi ancora: “La mia coscienza non mi rimprovera nessuno dei miei giorni”.

Possiamo forse dire che qui Giobbe si comportava come un arrogante, totalmente incapace di autocritica? Da quel che afferma, appariva piuttosto un saggio che non sopportava accuse senza fondamento, critiche fuori luogo, pregiudizi di fondo, e soprattutto le frasi fatte. Avvertiva chiaramente che i suoi interlocutori non erano in grado di capirlo.

Ora è Zofar il Naamatita che interviene. Da un lato conferma quanto già detto dagli altri due sapienti. Non è vero che il malvagio può godere indisturbato. Prima o poi la giustizia colpirà anche lui. Dall'altro giustifica questa certezza dicendo che la sapienza e l'intelligenza non appartengono al genere umano ma solo a Dio. L'uomo può trasformare la natura, può produrre mezzi di lavoro, strumenti tecnologici, cercare il benessere materiale e arricchirsi a dismisura; ma la vera sapienza e la vera intelligenza delle cose gli restano inaccessibili. L'uomo è arrogante, non è capace di temere Dio, e in questa sua presunzione, in questo suo orgoglio sconsiderato è destinato a perdersi.

III

Il terzo ciclo di dialoghi si conclude con la lunga e sofferta apologia di Giobbe. Smentisce categoricamente che non abbia offerto tutto l'aiuto possibile al povero, al cieco e allo zoppo quando glielo chiedevano. Rompeva invece la “mascella” al perverso. Si sentiva un'autorità rispettata per il suo senso di equità e giustizia.

Ora però si sente perduto. Tutti lo deridono, soprattutto i giovani. Invece di consolarlo, se ne approfittano. Quando lo vedono, gli sputano in faccia. Da quando non è più un'autorità, lo disprezzano. Egli chiede aiuto, ma nessuno glielo dà. E lui si lamenta, poiché, se avesse incontrato uno nella sua condizione, non si sarebbe comportato così, non avrebbe infierito, anzi, avrebbe pianto con lui.

Giobbe vuole assicurare tutti coloro che lo guardano, che non è colpevole né di frode né di adulterio. Non ha abusato di nessuna vergine. Non ha privato gli schiavi dei loro diritti. Non ha torto un capello alle persone innocenti. Non ha mai imprecato contro i suoi nemici, perché sapeva tenere a freno la lingua. Non ha mai gioito delle disgrazie altrui. Ha sempre ospitato lo straniero e il viandante, consolato le vedove, assistito gli orfani. Ha sempre ammesso in pubblico, davanti all'assemblea del villaggio, le proprie colpe. Non ha mai rifiutato d'essere castigato. Non ha fatto nulla di cui pentirsi o vergognarsi, perché al cospetto di Dio voleva presentarsi, dopo morto, con una coscienza pulita.

È a questo punto che un altro autore introduce i discorsi di un nuovo protagonista, Eliu, figlio di Barachele il Buzita, della tribù di Ram, i cui discorsi, molti lunghi, riempiono i capitoli dal 32 al 37.

Eliu inveisce contro Giobbe, perché ha la pretesa d'aver ragione di fronte a Dio, ma se la prende anche coi tre interlocutori, perché non hanno saputo tenergli testa come avrebbero dovuto, essendo convinti della sua colpevolezza. In realtà i tre saggi non avevano mai smesso di contestare le argomentazioni di Giobbe. Ma vediamo se ora Eliu sostiene qualcosa di nuovo.

Anzitutto si scusa di non essere intervenuto prima: è che dei quattro saggi lui era il più giovane ed era convinto che la saggezza riposasse nella mente dei più anziani. Ma, a quanto pare, si era dovuto ricredere.

In pratica fa questo ragionamento introduttivo: i tre saggi erano convinti d'essere nel giusto, ma ritenevano che solo Dio potesse convincere Giobbe del suo peccato. Eliu invece è convinto che non c'è bisogno di scomodare Dio per contestare Giobbe: basta una riflessione umana più approfondita.

La prima cosa che dice è che Dio non è mai obbligato a giustificare davanti agli uomini il senso delle proprie azioni, cioè non è obbligato a rispondere alle domande dell'uomo; e, in ogni caso, se anche volesse farlo, potrebbe usare varie forme e modi, che non necessariamente dovrebbero coincidere con quanto l'uomo può attendersi: per es. può farlo attraverso i sogni, quando meno l'uomo se l'aspetta, oppure attraverso il dolore, senza far corrispondere necessariamente o immediatamente una pena a una determinata colpa, e questo dolore può essere causato da fenomeni naturali. Le azioni di Dio non è detto che debbano essere strettamente inerenti alla vita dei singoli individui.

Eliu ha una concezione di Dio come di un'entità totalmente altra, a capo non solo della Terra, ma dell'intero universo. Le sue leggi sono assolutamente oggettive, imprescindibili, in grado di coinvolgere la vita di qualunque essere vivente.

A Giobbe viene rimproverato d'aver fatto di Dio una realtà a sua immagine e somiglianza: in questo sta il suo ateismo. Nel senso che non si rende conto della grandezza di chi gli sta di fronte. Pensa che con Dio si possa discutere come da uomo a uomo, quando di fatto Dio va oltre qualunque pensiero umano. È così onnipotente e onnisciente che non si fa intimorire in alcuna maniera da ciò che gli uomini possono pensare, dire, fare contro di lui. La sua giustizia non può incontrare ostacoli di sorta, e il tempo in cui essa si realizza non può certo essere stabilito dagli uomini. Mettersi a discutere con un'entità del genere è fatica sprecata. Se nella storia esiste un tribunale, l'unico giusto giudice è lui. Gli esseri umani potranno solo ascoltarlo, anche perché i termini esatti della giustizia e dell'equità solo lui può conoscerli.

Di sicuro un Dio siffatto si farà beffe degli atei, li sbugiarderà, non ne avrà molta pietà. Cercare di comprenderlo è insensato, poiché noi siamo mortali, mentre lui è eterno. Le nostre conoscenze sono limitate. È impossibile comprendere un'entità da cui ogni cosa dipende. Egli può fare della natura ciò che vuole, senza subire alcuna conseguenza. Anzi, in genere si serve di sconvolgimenti naturali per dimostrare all'uomo la propria grandezza. Proprio la dipendenza nei confronti della natura dovrebbe indurre l'uomo a sentirsi sottomesso alla divinità. “L'Onnipotente noi non lo possiamo raggiungere... egli non ha da rispondere. Perciò gli uomini lo temono...”.

Giobbe non fa alcuna replica a Eliu, anche se avrebbe potuto dirgli almeno due cose: se Dio è Natura, allora la Natura è Dio, e non c'è bisogno di altro; e se Dio è “totalmente altro”, allora può anche non esistere, in quanto la comunicazione è impossibile. Ciò che è troppo inaccessibile all'uomo, in fondo è come se non esistesse. E se la percezione di questa entità inattingibile ci viene offerta dalla natura, allora bisogna aggiungere che ciò resterà vero solo fino a quando l'uomo non sarà in grado di conoscere tutti i segreti della stessa natura.

IV

I discorsi tra Giobbe e Dio si situano sulla scia di quanto già detto da Eliu. Quindi si può presumere che siano dello stesso autore.

Jahvè, infatti, manifestandosi con un fenomeno naturale, critica immediatamente Giobbe, e non sembra affatto disposto a mettersi a discutere. Fa valere d'imperio la propria autorità. “Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti?”, così esordisce.

È un Dio che schiaccia completamente l'uomo. È un Dio che, essendo padrone di tutta la natura, non ha bisogno di addomesticare alcun animale selvatico, in quanto tutti spontaneamente lo riconoscono. Né permette alle forze della natura di agire oltre certi limiti.

Dunque come può esistere l'ateismo di fronte all'assoluta onnipotenza divina? L'autore dà per scontato che la natura sia infinitamente superiore all'uomo e che tale sia destinata a rimanere. Finché la natura resta inaccessibile, è impossibile per l'uomo non credere nell'onnipotenza e onniscienza divina. L'autore non può accettare minimamente né che la natura sia eterna e quindi increata come Dio, né che l'essere umano possa conoscere la natura nelle sue leggi più recondite.

Al cospetto di un Dio del genere Giobbe si sente impotente e rifiuta di discutere. Può soltanto ammettere la propria limitatezza, di aver proferito parole insensate, di aver avuto di Dio una rappresentazione antropomorfica, cioè completamente sbagliata. “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento...”.

Ma che cosa “vede” Giobbe se non la magnificenza, la grandiosità della natura? Un qualunque esegeta cristiano avrebbe detto ch'egli passa dal proprio ateismo a una sorta di panteismo, per il quale Dio è tutto in tutto. In lui manca la consapevolezza di un Dio “personale”.

Un qualunque esegeta ebraico invece avrebbe dovuto constatare che Giobbe non ha neppure l'idea di un Dio degli “eserciti”, quello che stringe un patto d'alleanza con un determinato popolo e lo porta alla vittoria contro i nemici comuni (del mondo pagano).

Giobbe non sembra neppure un vero ebreo, ma un uomo che vive ai margini della civiltà ebraica (nel Paese dell'Ausitide, ai confini dell'Idumea e dell'Arabia?), e che diventa un vero “ebreo” solo successivamente, stando appunto in contatto con tale civiltà, qui rappresentata da Eliu e non dagli altri suoi interlocutori. Infatti Jahvè redarguisce anche loro: “non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe”. Strano però che dica questo, sia perché la mentalità di Elifaz, Bildad e Zofar non era molto diversa da quella dell'ebraismo tradizionale; sia perché Jahvè, sin dall'inizio dei suoi discorsi, aveva rimproverato Giobbe d'essere un insensato.

Il fatto che i tre interlocutori non avessero detto che di fronte a un Dio onnipotente e onnisciente qualunque discussione, in ultima istanza, è inutile, anzi pretestuosa, non stava di per sé a significare che quanto loro dicevano a Giobbe non rientrasse nella mentalità o nella cultura ebraica. L'associazione di malattia e colpa sarà una costante per molto tempo. Ancora oggi, quando non si trovano spiegazioni razionali, si attribuisce la causa di certi fenomeni a qualche remota colpa (seconda una sorta di “teoria retributiva”).

In ogni caso il libro si conclude col reintegro della fortuna di Giobbe, anzi, questa aumentò del doppio. Ebbe anche sette figli e tre figlie. E lui morì “sazio di giorni”, cioè molto vecchio.

Venne premiato perché in fondo l'autore non poteva dimostrare che Giobbe avesse avuto torto nei suoi ragionamenti. Infatti l'azione di Dio viene giudicata accettabile anche se non è umanamente comprensibile. Nessuna persona religiosa può dimostrare che l'ateismo in sé sia falso.

V

Giobbe era davvero un fatalista o era più astuto di Ulisse? Quando nell'espropriazione sofferta di tutti i beni, dei dieci figli e nella terribile malattia della lebbra, egli, senza scomporsi, rifiuta decisamente la soluzione dell'ateismo, lo fa per convinzione o perché pensava che anche in quella tristissima condizione egli avrebbe continuato a restare al centro dell'attenzione? Giobbe forse sa che il riscatto prima o poi arriverà?

Egli sa di appartenere a un popolo, sa che la sua fortuna dipendeva dalle sue relazioni tribali: ora non può non aspettarsi che la stessa tribù lo venga a togliere da quel mostruoso impaccio. Giobbe non cercherà una soluzione personalistica come Ulisse, non si affiderà alle risorse della propria intelligenza, non rischierà di compiere qualche arbitrio e soprattutto non metterà a repentaglio la vita dei suoi amici, ma aspetterà con pazienza che qualcuno venga ad aiutarlo.

Giobbe è stato intelligente proprio nel senso che ha saputo sfruttare la negatività per continuare a restare sulla cresta dell'onda, attenuando il più possibile gli effetti della devastazione che l'aveva colpito. Per il resto s'è affidato al proprio background di esperienze e di conoscenze, al pregresso di quelle relazioni sociali che gli avevano permesso di acquisire potere e ricchezze. Ha giocato una partita a poker e l'ha vinta. Ha scommesso che la fiducia nel prossimo non sarebbe stata mal riposta.

Certo è che leggendo il racconto sino in fondo si ha l'impressione che la tesi sia un'altra, quella secondo cui nelle disgrazie più terribili l'ebreo riesce a cavarsela anche senza l'aiuto di amici e parenti: gli è sufficiente aver fiducia nelle proprie convinzioni (che nella fattispecie sono filosofico-religiose). Forse l'autore (singolare o plurale non importa) ha voluto dimostrare che, in mezzo alla generale corruzione, insipienza, conformismo della fede, qualcuno può sempre staccarsi dalla massa e apparire migliore degli altri.

Ma chi era Giobbe e quando fu scritto il poema? Giobbe anzitutto non è un nome proprio di persona, in quanto vuol dire “odiato, perseguitato”: non è quindi da escludere che in lui si debba vedere una qualche tribù ebraica di confine, più soggetta di altre alle pressioni, anche violente, delle popolazioni limitrofe. Considerato il capolavoro letterario della corrente sapienziale, il testo, rimaneggiato a più riprese, venne scritto nel V o al massimo IV sec. prima della nostra era, in un ambiente post-esilico, in cui alla preoccupazione per le sorti del Paese era subentrata quella per i destini dell'individuo.

Resta un libro a sé, difficilmente collegabile ad altri dell'Antico Testamento. Il suo autore è del tutto sconosciuto: la leggenda lo attribuisce a Mosé o a uno dei suoi protagonisti, Eliu. D'altra parte Giobbe, che nel testo appare residente tra l'Arabia e il Paese di Edom, era in parte estraneo alla comunità d'Israele, al punto che qualche esegeta ha ipotizzato che in origine il testo sia stato scritto in arabo. Il profeta Ezechiele nomina Giobbe come una persona reale, insieme a Noè e Daniele (Ez 14,14).

I quattro interlocutori di Giobbe rappresentano, in un certo senso, tutta la migliore cultura arabo-ebraica dominante, la quale, di fronte al particolare caso in questione: le sofferenze del giusto, sostiene la tesi che Giobbe deve aver mancato in qualcosa o stia pagando il prezzo d'una colpa altrui. In ogni caso di fronte a Dio egli ha torto, come d'altra parte ogni uomo. Lo stesso Jahvé, alla fine del racconto, interviene di persona, facendo capire a Giobbe che è arrogante la pretesa di voler sondare la volontà divina. Dopodiché decide di premiarlo per la sua pazienza, restituendogli tutto con gli interessi.

Non dimentichiamo che gli ebrei non credevano in una retribuzione ultraterrena. Per loro il caso di un giusto sofferente risultava inspiegabile in una prospettiva di lungo termine. La sofferenza andava considerata soltanto come una prova da superare, delimitata nello spazio e nel tempo, dopodiché la pazienza, la lungimiranza, l'accortezza e tutte le altre virtù del giusto sarebbero state premiate, hic et nunc.

Gli ebrei (o comunque le popolazioni semitiche) non avevano il senso cristiano dell'aldilà, proprio perché s'impegnavano con tutte le loro forze a migliorare le condizioni di vita della loro esistenza, dentro o fuori della “terra promessa”. La rinuncia volontaria ai beni terreni per vivere un'esistenza povera e più spirituale era per loro inconcepibile; anche perché si aveva bisogno di credere che la fede religiosa trovasse sulla terra una conferma ben visibile e tangibile.

Si rifiutava l'eccessivo spiritualismo proprio perché si temevano gli eccessi qua talis, in cui facilmente l'uomo può perdersi. Gli ebrei si sentivano parte di un popolo e in questa realtà volevano vivere un'esistenza tranquilla, in cui i problemi materiali dovevano essere risolti dalla reciproca collaborazione. Ecco, in tal senso, forse Giobbe rappresenta una forma di ebraismo sui generis, un po' border line, influenzato da un certo arabismo individualistico.

Le risposte degli amici di Giobbe al dramma della sofferenza avvertita come ingiusta sono le seguenti:

- la felicità degli empi è di breve durata;

- le disgrazie del giusto saggiano la sua virtù;

- la pena castiga colpe inavvertite o commesse per ignoranza, debolezza, omissione;

- Dio castiga per prevenire colpe più gravi e per guarire il peccato d'orgoglio (quest'ultima giustificazione della sofferenza è la più originale, essendo le altre già delineate nella letteratura precedente).

Come noto, il cristianesimo risponderà all'angoscia di Giobbe con le parole di s. Paolo: “le sofferenze del tempo presente non sono affatto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo” (Rm 8,18); “Perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria, mentre abbiamo lo sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle che non si vedono; poiché le cose che si vedono son solo per un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne” (2 Cor 4,17-18).

A una domanda “terrena” il cristianesimo darà una risposta “ultraterrena”, una risposta che di “storico” non avrà nulla. Il cristianesimo infatti dà per scontato che lo schiavismo (il male) sia invincibile sulla terra e che la liberazione (il bene) sia possibile solo nei cieli. Ecco perché Giobbe attende ancora una vera risposta “umana”.

Dove sta la mistificazione nel libro di Giobbe? Sta nel fatto che non ci viene detto come Giobbe si fosse così enormemente arricchito. Ci viene semplicemente detto ch'egli, pur essendo ricchissimo, era un uomo molto pio; anzi ci si lascia quasi capire che la sua ricchezza e la sua religiosità erano strettamente correlate.

Possiamo infatti immaginarci Giobbe come un uomo molto prudente, accorto, capace di fare valutazioni di opportunità: non aveva rinunciato alla religione per arricchirsi, ma, al contrario, l'aveva considerata come un elemento ineludibile della propria aspirazione al benessere materiale. Intuendo che sarebbe stato più facile arricchirsi con la religione che non coll'ateismo, Giobbe era diventato un uomo non semplicemente benestante, ma incredibilmente ricco: “era l'uomo più importante tra quelli che vivevano a est di Israele” (1,3).

Eppure se è vero che Giobbe non aveva il coraggio di rinunciare alla religione, proprio perché temeva di perdere, senza di essa, tutto il benessere materiale, che con essa si era guadagnato, è anche vero che nel racconto Satana rappresenta in certo senso proprio la tentazione di rifiutare la religione dopo l'acquisizione del potere economico e politico.

Il demonio è la tentazione dell'ateismo, la coscienza inquieta che vorrebbe portare Giobbe a liberarsi delle proprie radici culturali, dei propri valori esistenziali, in cui ha creduto più per convenzione che per convinzione.

Giobbe non è un eroe della fede, ma una mezza figura, un uomo che ha dedicato tutta la sua vita a trovare il modo per arricchirsi, rispettando le regole dominanti, senza mai manifestare apertamente il proprio pensiero. Egli non s'era mai chiesto se le proprie immense fortune potessero essere il frutto di un rapporto negativo col prossimo. Lui sapeva soltanto che religione e agiatezza non erano incompatibili e ora che aveva acquisito un'immensa agiatezza si chiedeva se non poteva rinunciare alla religione.

Giobbe è un borghese ante-litteram, ma di tipo semitico, cioè legato a un contesto sociale significativo, carico di tradizioni ancestrali, in cui l'individuo deve sentirsi necessariamente parte di un collettivo. La mistificazione del racconto sta proprio in questo, che si vuol far dipendere la ricchezza di Giobbe dal fatto ch'era molto religioso. Qui viene anticipata di mille anni la filosofia calvinista. Giobbe era sì lacerato interiormente, ma solo perché per tantissimo tempo aveva tenuto nei confronti della religione un rapporto “politicamente corretto”.

Anche quando gli capitano tutte le peggiori disgrazie possibili, egli esprime sicuramente una filosofia della rassegnazione quando si domanda: “Se da Dio accettiamo il bene, perché mai non dovremmo accettare il male?” (2,10). Forse una persona indigente, che non ha mai posseduto nulla, può fare una considerazione del genere? Ma se essa può essere formulata soltanto da un rappresentante dei ceti più facoltosi, che significato può avere?

Supponiamo ora che Giobbe non fosse quella persona retta e proba descritta nel libro, ma che fosse invece avida e cinica. Supponiamo per un momento ch'egli volesse far vedere che tutte le sue immense proprietà non erano state ottenute sfruttando il lavoro altrui, ma grazie alla benevolenza divina, a che cosa sarebbe servito pubblicare un libro del genere? Non sarebbe forse servito a titolo propagandistico, al fine di dimostrare che nell'eventualità di una situazione assolutamente disastrosa, Giobbe non avrebbe reagito in maniera scomposta, bensì con tutta la dignità di un imprenditore filosofo?

Ma se Giobbe scrisse una storia che lo faceva apparire saggio e lungimirante, quand'egli nella realtà era uno schiavista in piena regola, il suo motto preferito: “Se da Dio abbiamo accettato il bene, perché non dovremmo accettare il male?”, a chi in realtà era riferito? Se uno schiavista ricchissimo dà il buon esempio di fronte a qualunque cosa possa capitargli, anche la più negativa possibile, i suoi schiavi, che non sono mai stati ricchissimi e che per questa ragione avranno molto meno da soffrire nelle loro ulteriori disgrazie, non hanno forse un motivo in più per comportarsi nella stessa maniera?

Perché diciamo che la filosofia di Giobbe, ai fini della liberazione sociale, non vale nulla? Forse perché, come dicono i cristiani, egli non spera in una retribuzione ultraterrena ma la pretende qui ed ora? Se fosse così, dovremmo dire che Giobbe è infinitamente più saggio del più saggio di tutti i teologi cristiani. Dovremmo anzi chiederci come sia stato possibile che una teologia spiritualistica abbia potuto rappresentare un progresso nei confronti di una filosofia materialistica.

In fondo Giobbe rappresenta ancora la possibilità di una rivendicazione umana naturale, a fronte di una completa passività da parte del cristianesimo. Per quale motivo dovremmo considerare la rinuncia a una retribuzione terrena come una forma più alta di spiritualità? E se la considerassimo invece, alla stregua di Nietzsche, come una forma di pusillanime debolezza? Se di fronte alle tragedie della vita deve scattare in noi il meccanismo dell'autocommiserazione, nella sola speranza di ottenere qualcosa oltre la vita, non è forse da preferire la posizione contestativa di Giobbe?

E poi, in ultima istanza, anche Giobbe appariva un rassegnato: dunque che differenza c'è tra la rassegnazione cristiana e quella ebraica? Ha davvero senso sostenere che quella cristiana non è una forma di vittimismo o di frustrazione autoimposta solo perché si ha la certezza di una retribuzione ultraterrena in virtù della resurrezione del Cristo? Al cospetto dei tanti interrogativi che si è posto Giobbe, di fronte alla sua dichiarata e vantata innocenza, il cristiano ha soltanto da far valere la tesi secondo cui qualunque sofferenza patita su questa terra troverà la sua piena ricompensa nei cieli? Davvero Giobbe, se avesse potuto ascoltare una spiegazione così consolatoria per le sue indicibili sofferenze, ne avrebbe tratto grande giovamento?

Ma perché se il cristianesimo non può costituire una risposta convincente ai dubbi di Giobbe, siamo costretti ugualmente a dire che, ai fini della liberazione sociale, la sua filosofia di vita non vale nulla? La sua filosofia di vita non vale nulla perché è quella di un aristocratico che ha già ottenuto tutto dalla vita e che, una volta arrivata la tragedia, piange solo per sé, senza preoccuparsi dei destini altrui.

Giobbe non arriva mai a chiedersi se la sua “innocenza” non fosse in realtà una semplice convenzione sociale; se la sua rettitudine e onestà non fossero in realtà una maschera con cui celare i rapporti di sfruttamento che l'avevano immensamente arricchito; se la sua disgrazia non fosse piuttosto un “bene” per la sua manodopera servile.

Giobbe non arriva mai a decentrarsi: ammette sì che davanti a Dio può anche aver avuto torto in qualcosa, ma non ammette mai di aver avuto torto nei confronti degli uomini. Sino alla fine del libro egli si proclama innocente, osservante scrupoloso delle norme legali, zelante seguace della religione istituzionale.

La filosofia di Giobbe non fa mai alcuna distinzione tra “realtà” e “legalità”: la coincidenza di entrambe viene vista dalla prospettiva non della realtà ma della legalità, la quale, come noto, soffre molto poco del peso delle contraddizioni sociali.

Giobbe in sostanza non si mette mai in discussione e, quando lo fa, è solo astrattamente al cospetto di Dio. Giobbe non ha il senso della realtà perché vede solo la “propria” realtà, non ha il senso della storia perché vede solo il suo rapporto col destino.

Ma perché diciamo che la filosofia di Giobbe, pur non valendo nulla ai fini della liberazione sociale, può ancora valere qualcosa ai fini dell'emancipazione culturale?

Tutti i discorsi fatti dai suoi amici possono essere letti come il tentativo di dare una spiegazione alle sofferenze del giusto all'interno dell'ideologia dominante, ch'era di tipo religioso. Giobbe stava soffrendo perché in realtà – secondo loro – non era innocente al 100%, anche se sul piano legale o formale era impossibile stabilire dove o come avesse effettivamente peccato.

Le risposte di Giobbe invece sono il tentativo di dimostrare che le soluzioni di tipo religioso, per delle problematiche etiche del genere, risultano insufficienti, per cui forse sarebbe meglio rinunciarvi del tutto e abbracciare l'ateismo.

In sostanza, tra la richiesta perentoria e sbrigativa della moglie di diventare ateo maledicendo Dio e i dubbi esistenziali di Giobbe vi sarebbero di mezzo due cose: i travagli interiori di una persona coscienziosa che non sa decidersi su quale strada prendere; le preoccupazioni formali di una persona abituata all'agiatezza e al potere, che sa di non poter rinunciare alle apparenze.

In questo libro quindi si assisterebbe al tentativo di realizzare una transizione culturale da una concezione religiosa della vita a una tendenzialmente ateistica, maturata all'interno di un ceto sociale facoltoso.

È singolare infatti come la proposta, avanzata già dal primo interlocutore, Elifaz, di considerare la tragedia personale come una forma di momentanea correzione divina per colpe che non si conoscono, è in fondo la medesima proposta che alla fine del libro viene fatta dallo stesso Jahvè, con la sola differenza che se anche si accetta l'ipotesi di un giusto sofferente, il fatto di considerarsi del tutto innocenti anche di fronte a Dio costituisce un peccato d'orgoglio, il che rende legittima la prova da superare. Per quieto vivere Giobbe arriverà ad accettare la soluzione “religiosa”, ma non senza aver cercato di lottare in tutte le maniere per ottenerne una di tipo “ateistico”.

La religione in fondo è più astuta dell'ateismo, e lo sarà sempre, almeno finché non le verrà tolto il piedistallo su cui si regge, e cioè l'antagonismo sociale, le differenze di classe. Finché Giobbe sosterrà di non aver fatto nulla di grave per meritarsi un castigo così grande, troverà sempre qualche credente che gli risponderà che questa sua stessa affermazione è un peccato d'orgoglio: nessun uomo è giusto di fronte a Dio.

Ecco perché schiavi e schiavisti devono rimanere, secondo i cristiani, nella propria condizione. Se di fronte a Dio si ha sempre torto, perché mai lo schiavo deve desiderare la libertà? e perché mai lo schiavista deve desiderare l'ateismo? Non lo sa che la religione è lo strumento migliore per tenere sottomessa la fonte delle sue ricchezze?

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8) Democrazia e internazionalismo nel libro di Giona

Che senso ha il libretto veterotestamentario di Giona, profeta renitente? E perché ebbe così tanto successo all'epoca del cristianesimo primitivo? Al dire di Elie Wiesel nessuno nella Bibbia gli somiglia. Molti scrittori, artisti e registi si sono ispirati a lui. Tra i principali l'Ariosto nei suoi Cinque Canti, aggiunti e poi tolti dall'Orlando furioso, quando mette Astolfo nel ventre d'una balena; anche il protagonista del Barone di Münchhausen ci finisce dentro. E il Soldatino di piombo di Andersen? Il Pinocchio di Collodi? Il segno di Giona di Thomas Merton? E Ismaele, il giovane baleniere protagonista di Moby Dick, non può forse esser considerato un Giona? Esiste anche il film Jona che visse nella balena, di Roberto Faenza, che racconta i drammi di un bambino nei lager nazisti, mentre nel film di Peter Weir, Master and Commander (Sfida ai confini del mare), il giovane ufficiale identificato come il “Giona” maledetto, responsabile di una bonaccia senza fine, decide di suicidarsi. Nella Cappella Sistina appare come se litigasse con Dio. Persino il filosofo Leibniz visse un'esperienza simile a quella di Giona, in quanto rischiò d'essere affogato da marinai italiani in presenza di una tempesta solo perché, essendo lui un protestante e quindi per loro un eretico, veniva considerato responsabile del possibile naufragio: li convinse ch'era un buon credente, cominciando a pregare con un rosario in mano.


Riassunto del testo


Jahvè ordina al profeta di avvisare gli abitanti pagani di Ninive che se continuano col loro indegno comportamento, la città verrà distrutta molto presto.

Lui però, invece di eseguirlo, s'imbarca a Giaffa su una nave di marinai pagani, battente bandiera fenicia, diretta a occidente, verso Tarsis, in Spagna (o in Sardegna). Proprio non ne vuol sapere: il mare, d'altra parte, favorisce il tradimento, è la via di fuga.

Tuttavia la nave, sballottata da onde molto agitate, rischia d'affondare. I marinai, presi alla sprovvista, pensano che la responsabilità sia di qualcuno a bordo, e la sorte cade proprio su Giona, il quale conferma i loro sospetti.

Per far calmare i venti, propone che lo gettino in acqua. In un primo momento non avevano intenzione di farlo, ma poi ebbe la meglio il timore di morire affogati. E così la tempesta si calmò. I marinai, molto turbati, capirono che il Dio di Giona era più forte dei loro e gli offrirono alcuni sacrifici.

Giona però, lungi dall'essere affogato, era stato inghiottito da un enorme cetaceo. Restò nel suo ventre tre giorni, cantando un salmo e pentendosi del suo comportamento, sicché Jahvè costrinse il pesce a vomitarlo su una spiaggia.

Quando l'ordine gli viene ripetuto, decide di dirigersi verso Ninive, la terza più grande città dell'impero assiro. Una volta varcate le mura, cominciò a dire ch'essa sarebbe stata distrutta entro 40 giorni, sic et simpliciter.

La gente s'impaurì enormemente e il sovrano, sperando che il Dio s'impietosisse o che almeno attenuasse la portata del castigo, diede ordine che assolutamente tutti facessero digiuni e penitenze, inclusi gli animali!13 Sembravano in preda a un terrore sacro dell'ignoto, dell'imponderabile, come prima i marinai s'erano affidati, magicamente, alla sorte per sapere chi o cosa era causa della tempesta. Giona era forse un profeta già conosciuto e ritenuto attendibile? Oppure Jahvè passava per un Dio terribile, che, se e quando lo decideva, non risparmiava nessuno? Sia come sia, vedendo tale disponibilità al ravvedimento, Jahvè rinunciò a punirli. Si erano comportati meglio dello stesso Giona, che nei confronti del proprio Dio aveva disobbedito.

Il profeta però se ne andò via indispettito: perché? Dentro le mura della città egli non aveva detto: “Pentitevi se non volete morire tutti”; ma aveva dato per scontato che la città sarebbe stata distrutta entro 40 giorni. Dunque cosa voleva far capire l'autore mostrando il disappunto di Giona? La motivazione che gli fa dire è poco comprensibile: “Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio Paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!” (4,2-3).

In pratica accusava il suo Dio d'essere discontinuo, incoerente (oggi diremmo “buonista”). Da un lato infatti lo sente minacciare tremendi castighi; dall'altro invece lo vede impietosirsi di fronte alla contrizione degli abitanti. Ecco spiegato il motivo per cui non voleva andare ad avvisare i Niniviti: sapeva bene che se quelli si fossero pentiti, il suo oracolo non sarebbe servito a nulla, e lui ci avrebbe fatto una magra figura, in quanto avrebbero potuto dirgli che non era un vero profeta.

Giona è così depresso che vorrebbe morire: non si azzarda più a presentarsi in pubblico. È convinto che la sua reputazione sia finita. La sua schematica fede in Jahvè è crollata. D'altra parte da tempo sospettava che questi non fosse più severo come una volta. Ecco perché non voleva eseguire i suoi ordini.

Jahvè cercò di fargli capire che l'incoerenza non è sempre un segno di debolezza, ma anche di forza morale. Infatti, se avesse voluto distruggere la città, avrebbe potuto farlo, ma sapeva anche che non sarebbe stato giusto usare il suo potere, visto che le motivazioni per cui lo voleva usare erano cambiate. Quando è in gioco l'etica, non si può essere inflessibili. L'atteggiamento schematico, unilaterale di Giona aveva fatto il suo tempo; era ora di acquisire maggiore considerazione per chi la pensava diversamente, in quanto vizi e virtù sono patrimonio di tutta l'umanità.

Giona però non se ne torna a casa, ma si mette su una collina adiacente alla città per vedere come sarebbero finite le cose: aspetta la fine dei 40 giorni.

Intanto Jahvè, per dimostrare che aveva la forza di sempre, fa crescere, in una notte, una pianta di ricino per riparare Giona dal sole cocente, anche se poi la fa seccare il giorno dopo.14 Poi però Jahvè s'era accorto che con tale sua esibizione di forza, unita al vento caldo che aveva portato Giona quasi allo svenimento, aveva rischiato soltanto di favorire la sua tendenza suicida, sicché si mette a discutere con lui, dicendogli: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (4,10-11).

Cioè in sostanza Jahvè aveva fatto capire a Giona che quando si ha pietà di qualcuno, vedendolo sinceramente pentito, non si deve guardare né la gravità della sua colpa (non sa distinguere il bene dal male, come i bambini), né il ruolo ch'egli riveste (è un pagano oppressore). Se Giona non capisce questo, non capisce nulla della vita. Sbrigativamente il racconto finisce qui, senza dirci se il profeta aveva davvero afferrato il senso della lezione morale.15

Premessa per una esegesi

Il testo (di soli 48 versetti) è stato collocato tra i dodici profeti minori, ma appare più sapienziale-didattico, una sorta di parabola con elementi allegorici, del tutto priva di riferimenti storici: la vicenda non è conosciuta né dai libri dei Re né dai testi cuneiformi degli Assiri. Il fatto che il testo contenga una pluralità di componenti che non possono essere racchiusi in una formula unitaria, ha indotto non pochi esegeti a definirlo come un midrash, una parabola, un'allegoria, una parodia del genere profetico, una fiaba, ecc. Indubbiamente la parodia fa di Giona un anti-profeta, cioè il corrispettivo dell'anti-eroe sul piano letterario, il quale si serve dell'ironia per esprimersi, affermando il contrario di ciò che intende realmente dire.

Giona era un insignificante profeta coevo del quarto re d'Israele Geroboamo II (783-743 a.C.), citato di sfuggita in 2 Re 14,25 (un libro che termina con l'esilio babilonese), ma il racconto non è suo, perché non è dell'VIII sec. a.C., bensì del V sec. (forse intorno al 400-350 a.C.). Addirittura il salmo 2,3-10 che Giona recita nel ventre della balena è ancora più recente; esso peraltro è del tutto fuori contesto rispetto alla situazione, poiché sono assemblate, in maniera raffazzonata e poco originale, alcune parti di una quindicina di salmi, trasformati in un inno di ringraziamento per lo scampato pericolo, quando in realtà Giona manifestava tendenze suicide, per cui in quella situazione avrebbe anche potuto consolarsi pensando che in maniera oggettiva non avrebbe adempiuto al proprio dovere profetico: quanto meno il salmo avrebbe dovuto essere una preghiera di afflizione o una richiesta di perdono. Invece il manipolatore di questo libretto ha voluto far passare Giona per un buon profeta, immediatamente pentitosi della propria disobbedienza.

Che il testo non sia stato scritto dal profeta lo si capisce anche dal fatto che si parla di lui in terza persona, offrendo un ritratto molto ironico: vedi la scelta stessa del nome Giona, che vuol dire “colomba”, mentre lui appare come un corvo petulante o un gufo malfidente; poi vi è il nome di suo padre, Amittani, che vuol dire “degno di fiducia”, mentre lui non lo era per nulla. Esilarante infine il momento in cui se la dorme profondamente “nel luogo più riposto della nave”, mentre questa stava per sfasciarsi.16

Da notare inoltre che mancano del tutto i dettagli storico-geografici: p.es. quelli della sua patria e del luogo ove fu rigettato dal pesce. Non si conosce neppure il tempo in cui avvenne la sua missione, né il nome del re di Ninive (peraltro non è mai esistito in questa città un “re”, quindi al massimo poteva essere un “viceré”).

Si usano vari nomi divini o si fa riferimento a una varia tipologia di divinità, come Jahvè (quando si parla di Giona, usato ben 25 volte), Elohim (usato quando si parla dei Niniviti), Re del Cielo (quest'ultimo usato anche nei libri di Esdra e Neemia, che iniziano dall'esilio e raccontano la ricostruzione di Gerusalemme). Poi vi sono gli dèi pagani dei marinai, a testimonianza che al tempo della redazione del libretto l'autore non avvertiva più una grande differenza tra un Dio e l'altro, in quanto tutti gli uomini sono in realtà figli di un unico Dio.

La grande città di Ninive (di 100-150 mila abitanti, con 12 chilometri di mura, su un territorio di 750 ettari), era stata edificata dal re Assur sulla riva sinistra del Tigri, a nord della Mesopotamia (nell'odierno Irak), ed era già stata distrutta nel 612 a.C. dai Medi e dai Caldei, segnando la fine dell'impero assiro. Nessuno dei suoi abitanti s'era mai convertito all'ebraismo; anzi, quando andò al potere il re Assurbanipal o Sardanapalo (668-631 a.C.) la corruzione e la violenza avevano raggiunto i massimi livelli, al punto che alla sua morte i regni sottomessi si ribellarono e scoppiò la guerra civile. Erano stati proprio gli Assiri che avevano raggiunto la Palestina nell'VIII sec. a.C., distruggendo la Samaria nel 722 a.C.

Il culto principale a Ninive era quello di Ishtar, dea dell'amore e della guerra, che prevedeva nel tempio il rito della sacra prostituzione, maschile e femminile. Significativo però che proprio nella biblioteca della città siano stati trovati i testi più completi della splendida epopea di Gilgamesh, cui gli stessi ebrei attinsero a piene mani.

La missione di Giona in questa città ha delle assonanze con quelle di Elia in Fenicia e di Eliseo in Siria, anche se l'invio di un profeta ebraico in una città pagana resta del tutto inspiegabile. Meno che mai ha senso vedere che tutti gli abitanti abbiano un timore reverenziale per le sue parole (ridotte peraltro a una pura e semplice minaccia), quando nemmeno gli ebrei ne avevano per i loro massimi profeti. Il re Ioiakim di Giuda aveva gettato nel fuoco il rotolo scritto dallo scriba Baruc con le parole del profeta Geremia che richiamavano al digiuno e a cambiare stile di vita (Ger 36,23 ss.).

Giona comunque non chiede ai Niniviti di diventare come gli ebrei, ma solo di assumere un comportamento più degno (il che li porta a una certa propensione per il monoteismo e ad abbandonare gli idoli). Nel testo non si parla di universalismo centralizzato intorno al Tempio di Gerusalemme. L'universalismo di Giona è senza limiti rituali e geografici. L'autore, tuttavia, per poter dire che i pagani potevano anche essere migliori degli ebrei, deve farlo mostrando ch'essi decisero di credere in massa e seduta stante a Jahvè, rinunciando ai loro Elohim. Cioè il fatto che i Niniviti si convertano all'istante viene messo per far vedere che se anche Giona non era un grande profeta, per non aver obbedito immediatamente all'ordine di Jahvè, lo era però il suo Dio, nei cui confronti tutti avevano timore.

Noi sappiamo che i Niniviti erano pagani e che non si convertirono mai all'ebraismo. Quindi l'autore quale messaggio voleva trasmettere? Il messaggio va letto tra le righe, perché non è chiarissimo o forse non poteva esserlo. Anzitutto non è importante dire esplicitamente che i Niniviti fossero pagani ma che si comportavano come “pagani”, e tale comportamento poteva caratterizzare anche gli ebrei; in secondo luogo, e come conseguenza di ciò, va detto che tra ebrei e pagani non era più il caso di porre steccati insormontabili.

Il nazionalismo post-esilico

Che sia un testo post-esilico è possibile capirlo anche dal fatto che in un ambiente del genere era possibile scandalizzarsi del non adempimento degli oracoli contro i pagani. Prima e dopo l'esilio i profeti avevano annunciato la vendetta divina contro i popoli oppressori di Israele, ma qui Giona fa capire che le minacce erano condizionate, non assolute. Questo però è un punto fondamentale che va trattato a parte.

Il popolo d'Israele, dopo l'esilio si era chiuso in un gretto particolarismo e covava sentimenti di odio contro i pagani, poiché si voleva la punizione di città come Babilonia, Tiro, Ammon, Moab, Edom... Il ritardo di ciò era motivo di scandalo.

L'apertura di Giona verso le divinità straniere è in netta contraddizione con la tendenza stabilita da Esdra e Neemia, per i quali la religione ebraica pre-esilica, fondamentalmente enoteista, in quanto riconosceva l'esistenza di altri dèi, anche se riteneva lecito per Israele esclusivamente il culto di Jahvè, diventa, nel post-esilio, profondamente monoteistica: Jahvè è l'unica divinità esistente, è lui a muovere la storia, al punto che anche un sovrano persiano può essere emissario della sua volontà. I matrimoni misti erano vietati.

Il culto religioso si concentra nelle mani dei sacerdoti: s'impone una sorta di ierocrazia a sfondo razzistico. Anche il loro re perde qualunque funzione sacerdotale; anzi, l'ultimo discendente di Davide, Zorobabele, pur col ruolo di semplice governatore, sparisce all'improvviso dalla Bibbia in circostanze misteriose.

Chi è davvero Giona?

Ma chi è Giona? Cosa rappresenta? Il nazionalismo giudaico geloso dei propri privilegi o il relativismo antropologico in materia di fede religiosa?

Il suo nome è puramente fittizio; probabilmente era stato scelto perché in 2 Re 14,25 non aveva fatto nulla di particolare, per cui lo si poteva usare senza fargli alcun torto. Semplicemente aveva proclamato che la riconquista dei territori perduti della Transgiordania era voluta da Jahvè, favorendo così l'iniziativa bellica di Geroboamo.

Qui Giona fa la parte della persona retriva, schematica, ideologica, ma il messaggio che trasmette è progressista (interculturale, interetnico, internazionalista).17 Com'è possibile un'incongruenza del genere? Nei libri del DeuteroIsaia, di Rut e di Giobbe era abbastanza evidente come i popoli pagani avessero il diritto a far parte della comunità umana destinata alla salvezza: se esisteva un Dio, non poteva essere solo per gli ebrei. Anche l'Ecclesiaste criticava la dottrina tradizionale della retribuzione.

Jean-Pierre Sonnet ha sottolineato come nella figura di Giona (la “colomba”) e nella sua reazione alla chiamata di Jahvè si condensino due versetti altamente metaforici del libro di Isaia (60,8-9), che descrive la processione trionfale verso Gerusalemme: “Chi sono quelli che volano come una nube, come colombe verso le loro colombaie? Perché le isole tendono verso di me, navi di Tarsis in testa, per condurre i tuoi figli da lontano”. L'incipit del libro di Giona riecheggia i versetti di Isaia: “e si alzò Giona per fuggire a Tarsis dal cospetto di Jahvè e scese a Giaffa e trovò una nave che andava a Tarsis” (1,3). In questo modo, il calco di Gio 1,1-3 inverte l'orientamento della visione metaforica di Is 60,8. Mentre in Is 60 le navi-colombe vengono da Tarsis, in Gio 1,3 Giona s'imbarca deliberatamente verso Tarsis. Facendo il bastian contrario con l'ordine divino che lo manda a Ninive, Giona rende l'oracolo di Isaia un controsenso. Imbarcarsi alla volta di Tarsis equivale per il profeta-colomba a invertire la visione e la metafora di Is 60,8-9: Giona è la colomba che vola in senso contrario. Ciò facendo, contesta, almeno apparentemente, l'universalismo dichiarato in Isaia.

Ma nel libretto di Giona vi è qualcosa di più. Sembra che l'autore anonimo non fosse libero di esprimersi, forse perché abituato a vivere una vita servile, in cui la libertà di parola era talmente ridotta al minimo che la morte sarebbe stata solo un vantaggio. C'è chi, tra gli esegeti, ha visto Giona come una sorta di simbolo del fatto che la grande tradizione profetica d'Israele era terminata e che la loro missione era diventata per tanti aspetti molto più difficile.

Non a caso è proprio lui a proporre ai marinai di buttarlo a mare. Quando l'autore lo fa dormire tranquillamente in mezzo alla tempesta, non è per dimostrare che il suo Dio era nettamente superiore a quelli dei marinai, per cui a lui non sarebbe potuto accadere nulla, ma proprio perché vuol mostrare che Giona era del tutto indifferente alla sorte che gli sarebbe toccata. Non è un eroe ma un antieroe. Non era andato a Ninive perché aveva paura di morire, ma proprio perché non sopportava la tolleranza del suo Dio. Il profeta aveva reagito con la fuga dalle proprie responsabilità, ma se lo si fosse messo troppo alle strette, avrebbe scelto una strada ancora più tragica.18

Gli stessi marinai, quando Giona fa la sua proposta, appaiono più umani: non stanno neppure a sentire le sue intenzioni suicide. E anche i loro dèi non erano così sprovveduti, visto che avevano saputo individuare che il responsabile della tempesta era proprio lui. Erano inferiori soltanto perché non sapevano fermare il vento.

L'autore voleva far capire che anche i pagani provano dei sentimenti di umanità e sono in grado, seppur a modo loro, di avvicinarsi alla verità. Essi fanno di tutto, remando come pazzi e alleggerendo la nave di tutto il suo carico, per riuscire ad approdare alla riva più vicina, e solo quando, per il vento troppo forte, si vedono disperati, decidono di accettare l'idea di Giona, ma non prima d'aver implorato il suo Dio di non punirli per questo delitto. Naturalmente qui ci si può chiedere perché Giona, visto che sapeva cosa bisognava fare, non si sia affogato da solo. Chissà, forse perché voleva scaricare su altri la responsabilità delle proprie azioni.

Poi, siccome la tempesta si placò subito, la ciurma si converte alla religione ebraica: “offrirono sacrifici al Signore e fecero voti” (1,16). Giona li aveva convertiti senza volerlo. E loro non sapevano che lui si era salvato.

Il profeta però non aveva motivo di ringraziare il suo Signore per averlo salvato. Sapeva soltanto che, di fronte alla sua potenza, non poteva che obbedire. Per questo, alla seconda richiesta di andare a Ninive, per rimproverare gli abitanti della loro iniquità, cede senza discutere.

A questo punto la domanda cui vien voglia di rispondere è la seguente: a Giona la missione non piaceva perché, non essendoci, secondo lui, una fondamentale differenza di comportamento tra ebrei e pagani, la riteneva insensata, oppure perché, conoscendo l'incoerenza del proprio Dio, che, dopo aver comandato una cosa, si pentiva d'averlo fatto, temeva di fare brutte figure? Non era forse stato il Deuteronomio (18,21 s.) a imporre come criterio di affidabilità di un profeta, il compimento puntuale dei suoi oracoli? E non erano forse stati i libri profetici di Naum e Sofonia a dire che Ninive, essendo una città sanguinaria, guerrafondaia, malvagia e crudele nei confronti dei popoli che conquistava, meritava d'essere completamente distrutta da Jahvè?

La risposta, alla luce di quel che si è già detto, può apparire semplice ma non lo è. Nel testo l'autore vuol far vedere che Giona rappresentava il clero fanatico, non disposto ad accettare le incoerenze del proprio Dio. Nelle sue intenzioni però, che non si possono dire, egli vuole andare oltre persino le idee del profeta Geremia (18,7-12), per il quale Dio può anche cambiare la volontà di distruggere una nazione, se questa si converte. Vuol andare oltre perché il vero problema non sta più in ciò che un popolo crede, ma nel modo come vive ciò in cui crede. In altre parole, Israele non deve cercare d'imporsi in nome di un'etica che, senza la forza militare (quella che un tempo aveva), può apparire debole; semplicemente deve smettere di volersi imporre.

Apparentemente Giona fa fatica ad accettare la transizione da un Dio degli eserciti, inflessibile coi propri nemici, a un Dio della misericordia, che muta atteggiamento al vedere la contrizione degli uomini. Piuttosto che avere a che fare con un Dio così, sarebbe disposto al suicidio. Eppure la sua convinzione interiore è opposta a questa.

Aveva forse un senso puntare sul nazionalismo, sul fanatismo ideologico quando l'antropologia dimostrava che gli esseri umani son tutti uguali, provano sentimenti comuni, vivono situazioni analoghe, benché adorino divinità differenti? Giona dunque rappresentava ufficialmente il giudizio di condanna espresso dalla casta sacerdotale e insieme, ufficiosamente, la sua critica. Da una parte pretende che la minaccia divina venga eseguita alla lettera, non foss'altro che per salvare la propria reputazione di profeta oracolare; dall'altra è convinto che non esista affatto un popolo che di per sé possa essere considerato migliore di un altro. Esistono solo atteggiamenti migliori o peggiori a seconda delle situazioni contingenti. Qualunque generalizzazione è inutile oltre che fuorviante.

Questo libro quindi non può essere stato scritto da Giona ma contro di lui, proprio perché l'anonimo autore ha usato il nome di Giona come simbolo di ciò che Israele non avrebbe dovuto essere, come emblema del fatto che i sacerdoti giudaici (quelli del secondo Tempio) non erano in grado di capire che un Dio, per essere credibile, deve essere umano, altrimenti gli uomini continueranno a combattersi tra loro. Questo è un libretto altamente pacifista e, in tal senso, assomiglia ai testi di Giobbe, Daniele, Tobia, Giuditta...

Insomma Giona non può considerarsi migliore degli altri solo perché ebreo. Forse lo è il suo Dio, ma Giona, apparentemente, non l'ha fatto vedere, perché lo contesta di continuo, mostrando in questo modo il suo coraggio, fino al punto di trasgredire l'ordine e di rifiutare la sua esecuzione. Semmai il bello di Giona sta proprio in questo, che col suo Dio lui discute come se fosse un compagno di viaggio. Il profeta, malgré soi, non soffre di complessi d'inferiorità; anzi, ha il coraggio di dire quello che pensa, senza timore delle conseguenze, anche se proprio quello che pensa lo rende più retrivo del suo Dio, che invece vorrebbe cambiar pelle umanizzandosi. Giona sarebbe apparso ancora più coraggioso se avesse capito che chi dà ordini ha il diritto di ripensarci, senza che per questo l'esecutore debba sentirsi un frustrato. Ma evidentemente qualcosa impediva all'autore di dirlo chiaramente, e questo qualcosa era il regime oppressivo dei sacerdoti, i quali, dopo il ritorno dall'esilio, avevano preso a odiare a morte il mondo pagano. Quello stesso odio che oggi sono i sacerdoti islamici dell'Isis a provare per il mondo pagano e occidentale, e che li ha portati a distruggere le ultime vestigia di questa antica città.

Giona e il cristianesimo primitivo

Tale racconto ebbe molto successo nella Chiesa antica perché si vedeva in questo profeta, rimasto tre giorni nel ventre della balena (simbolo degli inferi o degli abissi) e poi tornato sulla terra, una prefigurazione del Cristo morto e risorto. Viene detto in Mt 12,39 ss.: “Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno. Ed egli rispose: Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c'è più di Giona! La regina del sud [di Saba] si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c'è più di Salomone!”. Lo stesso viene detto in Lc 11,29-32.

Gli evangelisti usarono il testo di Giona come se fosse storico, quando, se davvero Ninive si fosse convertita in massa al monoteismo, sarebbe stato un fatto più unico che raro nella storia di tutte le religioni. Neppure i grandi profeti ebraici, che pur agivano in mezzo a un popolo già monoteista, riuscirono mai a ottenere risultati così strabilianti.

Ma c'è di più: gli evangelisti usarono il testo di Giona in forma antisemitica; cioè là dove era stato Giona a rammaricarsi che Dio non era stato coerente a non sterminare i pagani, qui sono gli stessi cristiani che invocano la necessità di giudicare senza appello gli ebrei che hanno rifiutato la predicazione del Cristo.

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9) Cronologia del popolo ebraico

Come dice Sergej A. Tokarev, “La religione degli ebrei è una delle poche religioni del mondo antico che si è conservata con qualche piccola variante fino ai nostri giorni”.19

Fonte principale per lo studio di questa religione è la Bibbia (dal greco biblia, libri), suddivisa in Pentateuco, Libri storici, Libri sapienziali e Libri profetici: il che fa parte di quello che i cristiani definiscono col nome di Antico Testamento (in latino testamentum significa “patto”), per distinguerlo dal Nuovo, che gli ebrei non riconoscono.

Alla base del Pentateuco (cinque rotoli) vi sono almeno quattro diverse fonti, chiarite solo nel XIX sec.: quella jahvista, composta in Giudea intorno al 950 a.C., quella elohista, composta in Efraim intorno all'800 a.C., quella deuteronomica, composta verso il 621 a.C. e rielaborata verso il 500 a.C. e quella sacerdotale, composta verso il 550-500 a.C.

Altre fonti importanti che si possono esaminare sono i testi di Giuseppe Flavio, La guerra giudaica e Antichità giudaiche, nonché tutti i testi ritrovati a Qumran.

La storia del popolo ebraico20 inizia nella Bibbia con le vicende di Abramo, che risalgono circa al 1850 a.C., ma questo popolo ha origini ancora più antiche, risalenti a un periodo in cui viveva, semplicemente, come tribù di allevatori, nomadi, nell'Arabia settentrionale, la cui religione aveva sicuramente caratteristiche molto diverse da quelle che poi vennero codificate.

Gli stessi patriarchi nominati nella Bibbia sono probabilmente soltanto delle personificazioni di distinzioni tribali, in quanto le loro vicende sono mescolate a fatti del tutto leggendari.

Stando comunque alla cronologia di questi testi, Abramo avrebbe avuto come antenati i Cananei, nomadi in Mesopotamia e, nel tempo in cui uscì dalla terra di Ur per dirigersi verso Canaan (nome originario della Palestina), i sumeri vivevano una florida civiltà schiavista, mentre l'altra grande civiltà schiavista, quella egizia, sul versante opposto della cosiddetta “mezzaluna fertile”, controllava la costa siro-palestinese, adiacente a quella di Canaan.

Poiché ad un certo punto gli Egizi erano in grado di sfruttare la Palestina come una loro colonia, e poiché questa non riusciva a liberarsi da quella dominazione, buona parte delle tribù israelitiche si vide costretta, in occasione di una grave carestia, a trasferirsi direttamente in Egitto (epopea di Giuseppe, divenuto primo ministro, e dei suoi fratelli), al tempo in cui regnavano gli stranieri Hyksos, nella speranza di migliorare la loro sorte.

Tuttavia, cacciati gli Hyksos, durante il Nuovo Regno gli ebrei furono costretti a lavorare in Egitto in condizioni molto dure, come operai nelle fornaci di mattoni, come manovali e muratori per costruire edifici di ogni genere.

Il periodo della schiavitù Egizia durò all'incirca dal 1700 al 1250 a.C., dopodiché, alla guida di Mosè (un leader egizio la cui riforma politico-religiosa in direzione del monoteismo aveva incontrato l'ostilità dei sacerdoti), gli ebrei, con un grande “esodo”, ritornarono nella terra di Canaan. Praticamente approfittarono di un momento di debolezza dell'impero alle prese coi cosiddetti “Popoli del Mare”.

Con Mosè nasce il culto di Jahvè, che significa “Io sono”. Sua caratteristica fondamentale era che non si poteva rappresentare in alcun modo e che andava rispettato sulla base di alcune precise leggi o comandamenti. Questo Dio prometteva in cambio del rispetto delle leggi una terra in cui poter vivere come popolo libero.

Tuttavia Mosè morì prima di raggiungere questa terra. Infatti solo verso il 1220-1200 a.C., alla guida di Giosuè, le tribù ebraiche sono in grado di occupare militarmente tutta la Palestina, con l'intenzione di stabilirvisi definitivamente. Viene praticamente sconfitta quasi tutta la popolazione indigena della regione, specie i Filistei, dal cui nome proviene “Palestina”.

Nasce l'epoca dei Giudici (1200-1025 a.C.), una sorta di federazione democratica di tutte le tribù israelite, che da nomadi diventano sostanzialmente sedentarie, dedicandosi prevalentemente ai lavori agricoli.

Ancora non esisteva il culto di un Dio imposto come unico, ma semplicemente la dominanza prevalente del culto di Jahvè (monolatria), appartenente alle tribù giudee. È solo a partire dal X sec., con la nascita della monarchia, che questo culto comincia a diventare una religione di stato (monoteismo).

La monarchia nasce quando s'impongono le differenze di classe e l'ordinamento tribale non è più in grado di tenerle sotto controllo coi mezzi e metodi tradizionali; inoltre quando i Filistei tornano a rivendicare il possesso dei loro territori.

Il primo potere reale che s'impone è quello della tribù di Beniamino, con Saul (1030-1010 a.C.), che morì combattendo appunto contro i Filistei. Poi sarà quello, ben più importante, della tribù di Giuda, con Davide (1010-970 a.C.), che ridimensionò decisamente il potere dei Filistei e che pose la capitale del regno a Gerusalemme, nonché quello di Salomone (970-931 a.C.), sotto il cui regno i confini si estesero fino al golfo di Aqaba sul mar Rosso.

Salomone trasformò Israele in uno Stato organizzato, non molto diverso da quelli schiavistici del tempo: fece costruire una flotta navale, le mura di Gerusalemme e fece edificare un tempio per centralizzare il culto di Jahvè, affidandolo alla gestione esclusiva dei sacerdoti provenienti dalla tribù di Levi.

Questa situazione piaceva sempre meno e molte tribù cominciavano a rimpiangere le libertà del passato, sicché alla morte di Salomone ne approfittano per separare il regno (931 a.C.): quello a nord, composto da 10 tribù, si chiamerà “Israele”, con capitale Samaria, e durerà circa due secoli (nel 721 a.C. verrà sconfitto dagli Assiri di Sargon II e i suoi abitanti saranno deportati); quello del sud, composto da due sole tribù, si chiamerà “Giuda”, con capitale Gerusalemme, e conserverà l'indipendenza per poco più di tre secoli (tra il 598 e il 587 a.C. verrà sconfitto dai Babilonesi di Nabucodonosor e gli abitanti saranno deportati in Mesopotamia).

Nel periodo di divisione dei due regni, sino alla fine dell'esilio babilonese, è molto forte l'attività di critica, da parte dei profeti (Elia, Eliseo, Isaia, Geremia...), del malcostume, dello sfruttamento e dell'idolatria. I profeti non avevano rapporti col clero ufficiale dei templi. Decisiva fu l'attività dei profeti Ezechiele e Daniele durante la “cattività babilonese” (dal latino captivitas, che significa “prigionia”) per mantenere la coesione di popolo e la speranza del ritorno in Palestina.

Nel 539 a.C. i persiani, con Ciro, conquistano la Mesopotamia e permettono agli ebrei di tornare in Palestina come loro sudditi, ma con la possibilità di ricostruire il tempio, distrutto dai Babilonesi. Tutto il potere politico-religioso passa in mano ai sacerdoti di Gerusalemme, che devono soltanto rendere conto ai sovrani persiani.

I sacerdoti e gli scribi (in particolare Esdra e Neemia) ridanno vigore alla riforma del re Giosia (640-609 a.C.), il quale, dicendo di aver trovato un nuovo libro nel 621 a.C.: il Deuteronomio, che in realtà era stato scritto ex-novo, aveva praticamente reinterpretato tutti gli eventi dalla partenza dal Sinai fino alla morte di Mosè.

Il codice sacerdotale composto durante l'esilio babilonese da Ezechiele e da altri sacerdoti (587-538 a.C.) venne fuso da Esdra con gli altri testi del Pentateuco allo scopo di affermare il rigido monoteismo, la centralizzazione del culto e la canonizzazione dei testi biblici.

Per fronteggiare la crisi sociale e limitare le proteste contro le ingiustizie economiche, i sacerdoti elaborano un'ideologia che avrà un certo peso nello corso della lotta per l'indipendenza nazionale: quella del “popolo eletto”, secondo cui gli ebrei sono oppressi per colpa dei loro tradimenti ma possono riscattarsi agli occhi di Dio combattendo contro i nemici esterni. Furono dunque proibiti i matrimoni misti e considerati “impuri e pagani” tutti i non ebrei, i non circoncisi e chiunque non accettasse il culto di Jahvè a Gerusalemme (p.es. i samaritani). La Giudea diventò uno Stato teocratico.

L'epoca persiana finisce con l'inizio di quella ellenistica di Alessandro Magno (356-23 a.C.). Alla sua morte l'impero viene diviso e la Palestina prima viene sottomessa ai re lagidi d'Egitto (in questo periodo la Bibbia viene tradotta in greco); poi, dal 200 a.C., ai re seleucidi di Siria, contro i quali gli ebrei si ribellano sotto la guida della famiglia dei Maccabei, ottenendo una breve relativa indipendenza dopo il 141 a.C. (dinastia asmonea).

Ma la dominazione più dura che devono sopportare sarà quella romana. Nel 63 a.C. Pompeo occupa Gerusalemme e la Palestina diventa una provincia imperiale. Gli ebrei tentano più volte di ribellarsi, ma non avendo mai raggiunto una sufficiente coesione nazionale, subiscono una disfatta gravissima nella prima rivolta del 66-70 d.C., finché nel 132-135, con la sconfitta della seconda rivolta, Gerusalemme viene chiamata Aelia Capitolina e se ne vieta l'ingresso agli ebrei.

La diaspora è irreversibile, senza soluzione di continuità. Da alcuni settori dell'ebraismo nasce il cristianesimo, il quale, con la corrente paolina, che risulterà poi dominante, si rinuncia a qualunque forma di lotta politica, ma anche a qualunque particolarità ebraica che impedisca ai pagani di accettare la nuova religione.

Cinque secoli dopo, caduto l'impero romano, si stabiliscono in Palestina gli arabi, di religione islamica.

Dal 1948 è stato ricostituito in Palestina, per decisione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, lo Stato di Israele, permettendo agli ebrei di ritornare sulle loro antiche terre. A partire da quella data si fanno risalire i conflitti tra israeliani e palestinesi, quest'ultimi di religione islamica, entrambi di origine semitica.

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10) Le bugie della Bibbia

Mario Liverani, che insegna Storia del Vicino Oriente Antico all'università La Sapienza di Roma, è autore del volume Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele (ed. Laterza 2012), che ricalca in gran parte le tesi dei due archeologi ebrei, Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito (ed. Carocci 2011).21 Sostiene che non possono essere considerati storici i racconti più celebri del Vecchio Testamento, come le vicende di Abramo e dei Patriarchi, la schiavitù in Egitto, l'Esodo e la peregrinazione nel deserto, la conquista della terra promessa, la magnificenza del regno di Salomone.

“Gli ebrei, come del resto tanti altri popoli, si sono dati un mito delle origini nel momento in cui ne avevano più bisogno”, dice Liverani. “Oggi, con evidente anacronismo, ma con qualche ragione, si potrebbero accostare quelle pagine del Vecchio Testamento a un documento di propaganda politica”. Occorreva dare un passato nobile e glorioso a un popolo che rischiava di perdere la propria identità. Si tratta di retroiezioni post-esiliche, intese a giustificare l'unità nazionale e religiosa e il possesso della terra per i gruppi di reduci dall'esilio babilonese. In questo modo si ricostituiva un'entità etnica, politica e religiosa forse mai esistita.22

In altre parole: l'“etnogenesi dei protoisraeliti” escluderebbe che le tribù fossero sin dall'inizio imparentate per discendenza comune. Semmai han cominciato a considerarsi tra loro imparentate quando si sono inventate un capostipite comune. Liverani ammette però che le varie tribù avessero in comune le antiche norme del diritto penale e civile, espressione di un'economia agro-pastorale, e del diritto di famiglia, tipico di una società contadina chiusa, a base gentilizia, norme che poi compaiono nel Decalogo.

È solamente nel XII e XI sec. a.C. che, sviluppando un forte sentimento di unitarietà basato sulla coscienza della comune discendenza, sul Dio nazionale e sulla chiusura verso l'esterno, le tribù israelitiche si aggregano fra loro, e occupano con modesti villaggi, vari altopiani, alture e zone semiaride nell'interno del Paese. Siccome però anche i Filistei, in buona parte assimilati ai Cananei, cercavano d'impossessarsene, le guerre per la conquista delle terre coltivabili e delle risorse idriche divennero inevitabili. Infine, verso il 1000 la “lega delle tribù d'Israele”, sotto Saul e poi sotto Davide, s'impadronisce, militarmente o meno, delle due città-stato di Sichem a nord e Gerusalemme a sud.

È con Davide che i due territori si unificano in un regno di cui Gerusalemme diviene la capitale e dove dall'originaria Ebron viene importato il culto di Yahvè. Ma la storia della sua ascesa da modeste origini al trono è puramente propagandistica. Al massimo si può accettare che Davide abbia trasmesso il regno a Salomone, e non è escluso che abbia costruito insediamenti fortificati e un palazzo reale, e che abbia dato vita a un embrione di struttura amministrativa. Liverani comunque nega che quel regno si estendesse a nord di Sichem, o in Galilea, o in Transgiordania; anzi, probabilmente fu “una modesta formazione politica sotto l'egemonia dei Filistei”, che Davide non scalzò mai definitivamente.

Quanto a Salomone, figlio di David e Betsabea, bisogna dire che del suo nome non c'è traccia in nessun documento al di fuori della Bibbia. Il regno unito all'epoca di Davide e Salomone sembra non essere mai esistito. Al massimo si può accettare che sia esistito “uno dei tanti regni palestinesi spazzati via dalla conquista assira” e poi da quella babilonese.

Con lui la narrazione biblica segna il momento di massimo successo politico degli ebrei, in quanto il trono comprendeva tutte le 12 tribù di Israele, ma, più probabilmente, egli governava un territorio uguale o addirittura minore di quello di Davide. Oppure regnò su tutte le tribù dal Neghev all'alta Galilea, certamente non “dall'Eufrate al torrente d'Egitto” (oggi Wadi Arish), poiché non vi sono tracce del suo controllo a nord. Questi sono i confini della satrapia persiana della Transeufratene, istituita secoli dopo.

Anche le sue imprese commerciali marittime sono assai improbabili, e così pure quelle terrestri, poiché il regno era tagliato fuori dai grandi traffici, e non poteva controllare le strade carovaniere. Per non parlare dell'“incredibile” visita a Salomone della regina di Saba: ha tutta l'apparenza di una favola il viaggio di una regina che parte dal regno dei Sabei (un territorio dell'odierno Yemen), accompagnata dai suoi cortigiani con doni preziosi, per saggiare l'intelligenza del grande re israelita. Quanto poi alla celebrata sapienza di Salomone, i Proverbi non sono altro che banali “massime di saggezza spicciola”.

In merito inoltre alla sua attività come costruttore dei palazzi di Meghiddo e Hazor che la Bibbia gli attribuisce, essi sono invece di età più tarda. L'archeologia non gli riconosce nessuna costruzione importante, tanto più che il suo palazzo e soprattutto il Tempio di Gerusalemme sono troppo grandi per trovar posto nella piccola “Città di Davide”. Il Tempio fu fatto risalire a Salomone dalla tradizione posteriore. E il suo regno durò molto poco: nel 930, con la sua morte, si era già diviso in due: Israele e Giuda.

Il regno del centro-nord, Israele, con capitale Sichem e più tardi Samaria, più popoloso, prospero e progredito, prevale su quello di Giuda e, pur essendo vassallo del vicino Aram, gode di un notevole benessere per un secolo e mezzo. Vi domina il pluralismo religioso fino all'850 circa, quando Yahvè diviene Dio “nazionale”.

Il regno di Giuda, a sud, dove il culto di Yahvè s'impone dal 900, è spesso percorso e depredato da Egiziani e Aramei. Gerusalemme, la capitale, nel X sec. è piccola, modesta e murata, e le tracce urbanistico-architettoniche dei suoi monumenti sono irrecuperabili.

Entrambi i regni vengono attaccati dagli Assiri, che nel 721 prendono Samaria, ponendo fine al regno d'Israele e deportandone la popolazione, mentre il regno di Giuda, pur costretto a pagare tributo e soggetto alle deportazioni, resiste.

In seguito alla riforma religiosa di Ezechia, re di Giuda, con cui si vogliono distruggere i culti diversi, lo “yahvismo” diventa sempre più definito ed esclusivo, dando forza a un rinnovato senso di identità etnico-politica contro le invasioni straniere, viste come punizione divina per l'infedeltà al Patto con Yahvè, fatto risalire al tempo di Mosè.

Verso il 640 inizia a espandersi l'impero babilonese, a spese di quello assiro, sconfitto nel 614. I babilonesi nel 598 assediano e conquistano Gerusalemme; depredano i tesori e deportano il re con 10.000 notabili, mettendo sul trono un re-fantoccio che dopo 9 anni di vassallaggio si ribella, causando un nuovo assedio della città, che cade definitivamente nel 587. Gerusalemme è incendiata, le mura atterrate, gli abitanti deportati, tranne i contadini. Quasi tutte le altre città sono distrutte. Poco dopo, quando il governatore babilonese viene ucciso, tutti i superstiti fuggono in Egitto. Ha termine così anche il regno di Giuda.

Nel regno di Giuda il re Giosia, forse meditando di ampliare i suoi confini a tutto il territorio abitato dai fedeli di Yahvè, nel 622 finge di ritrovare l'antico Libro della Legge, espediente per avallare una riforma innovativa con cui si eliminano luoghi e culti ritenuti idolatrici. Con questa riforma si ribadisce l'obbligo di fedeltà al Patto di Mosè con Yahvè, Unico Dio e salvatore di Israele; base del Patto sono le Tavole della Legge e deve esserci un solo Tempio.

A Giosia si devono il modello di un'unità etnica e statale d'Israele e Giuda mai tentata prima, nonché la traccia della “ricostruzione storica retroattiva”, che ne spiega fortune e disfatte con la fedeltà o il tradimento di Yahvè. Inizierebbe dunque qui, col Codice Deuteronomico e con quella che Liverani chiama “storiografia deuteronomistica”, quella manipolazione delle narrazioni che coinvolge tutti gli episodi, fin anche i più antichi, delle vicende ebraiche. Quindi la scrittura e rielaborazione dei testi biblici principali è durata più o meno un secolo, fino al 586-516 a. C. (per iniziativa degli ex-deportati in Babilonia, più tardi rimpatriati): un secolo segnato da un evento che avrebbe potuto cancellare l'identità del popolo ebraico. In fondo tutta la Bibbia è stata scritta da molte mani, in diversi periodi e con vari stili (ciascun libro è un caso a sé): porta i segni di interpolazioni, censure e adattamenti d'ogni genere, e abbonda di incongruenze e di affermazioni contraddette dai fatti.

“Gli Ebrei avevano un loro piccolo Stato, il regno di Giuda, che attorno a Gerusalemme si estendeva su una superficie paragonabile a quella dell'Umbria: come altri staterelli dell'area, era assoggettato alla potenza egemone dell'epoca, l'impero babilonese. Si ribellò, ma gli andò male: i Babilonesi assediarono per anni Gerusalemme, la espugnarono e la distrussero. Il Tempio di Yahvè, il Dio unico, fu abbattuto e il sommo sacerdote giustiziato assieme a una sessantina di notabili. La popolazione cittadina fu deportata in Mesopotamia. I contadini sparsi nelle campagne vennero invece lasciati sul posto: non rappresentavano un problema per l'impero”.

Lo scopo delle deportazioni fatte dai Babilonesi (e prima di loro dagli Assiri) era quello di cancellare l'identità dei popoli vinti, inducendoli ad adottare la lingua e ad adorare gli dèi del vincitore. Tuttavia, fu proprio l'esilio imposto agli Ebrei dai Babilonesi nel 587 a.C. che rafforzò la loro fede in un unico Dio. Dopo la caduta d'Israele e di Giuda si insediarono in quelle aree gli Edomiti, i Fenici e altri stranieri. Per motivi diversi, mentre la deportazione assira aveva cancellato l'identità nazionale delle “10 tribù” provenienti dal regno d'Israele, assorbite dalle altre etnie, quella babilonese invece indusse a stringere forti legami fra i Giudei esuli in Babilonia, i quali si compattarono attorno all'idea del riscatto e del ritorno.

Secondo le idee del tempo, i deportati non avevano motivo di credere ancora nel loro vecchio Dio, che era stato sconfitto in guerra e non era stato capace di proteggerli. E invece, nei 70 anni che durò la “cattività babilonese”, i leader religiosi e politici ebrei, scampati al massacro, respinsero l'idea che Yahvè fosse stato sconfitto e adottarono una posizione religiosa radicalmente nuova, questa: il Dio d'Israele era l'unico Dio di tutto l'universo. E non solo non era stato sconfitto, ma si era servito dei Babilonesi per punire il suo popolo, colpevole di gravissimi peccati.

I Babilonesi, dunque, erano stati solo uno strumento della divinità. Gli Ebrei, anziché perderla, rafforzarono la propria identità nell'esilio, convinti che, una volta espiata la colpa, forti di una religione rigorosa e purificata, sarebbero tornati in patria, dove avrebbero ricostruito Gerusalemme e il celebre Tempio.

L'occasione si presenta nel 538-9 a. C.: Ciro, re dei Persiani, conquista Babilonia e consente agli Ebrei di rientrare in patria come sudditi del suo nuovo impero. Figli e nipoti dei deportati tornano a scaglioni a Gerusalemme, animati da un rinnovato spirito di rigore religioso.

Fino al 445 tornarono dunque, soprattutto a Gerusalemme, circa 50.000 persone, per lo più nobili e sacerdoti. Esdra racconta nel suo Libro di aver preteso un digiuno espiatorio prima d'intraprendere il viaggio di ritorno, poiché “aveva avuto vergogna di chiedere al re una scorta armata” che li difendesse “dal nemico e dal predone”.

Non rientrarono tutti: molti scelsero di rimanere in Babilonia o in varie località dove si erano stanziati. Quelli che rimpatriarono dovevano dimostrare il proprio titolo di possesso delle terre da tempo abbandonate e finite in mano ai “rimasti” o a estranei: proprietà concesse ai loro antenati in virtù del Patto stipulato con Yahvè. Per tale motivo s'inventarono la propria ascendenza risalendo fino ai Patriarchi, insieme al concetto-base della promessa divina di aiutarli a conquistare una terra occupata da altri.

Trovarono però scarsa comprensione in quella parte della popolazione ebraica che non era stata deportata: peggio ancora, spazi che consideravano loro erano stati occupati da immigrati di altra fede, provenienti dalle regioni confinanti. I reduci avevano allora bisogno di un documento che dicesse in sostanza: “Abbiamo il diritto di riprenderci quello che è nostro da sempre: la Terra di Canaan, che ci è stata promessa da Yahvè e che Giosuè ha conquistato per noi”.

I reduci applicarono una specie di “apartheid” nei confronti dei rimasti e dei forestieri; ma non risulta in alcun modo che vi siano stati conflitti né tanto meno scontri armati. Ché anzi durante il viaggio non furono attaccati da alcun nemico e si reinsediarono “in tutte le città di Giuda, ognuno nella sua proprietà”. La legittimità delle loro rivendicazioni non venne messa in discussione.

Scrive Liverani: “La riscrittura delle origini del popolo ebraico era già iniziata a Gerusalemme prima della deportazione, quando il re di Giuda, Giosia (che regnò dal 640 al 609 a. C.) progettava di espandere il suo piccolo Stato verso i confini di un mitico regno che nel remoto passato avrebbe unito sotto uno solo scettro tutti gli Ebrei. L'elaborazione del mito continuò durante l'esilio e proseguì negli anni successivi al ritorno da Babilonia”.

“Deuteronomistica” ad esempio – così asserisce Liverani – fu l'idea di collegare agli avvenimenti dell'esodo la celebrazione della Pasqua, “che doveva essere una vecchia festività” di transumanza pastorale. E così quella di “retrodatare” il Patto a Mosè, preso a modello (insieme a Giosuè, Davide e Salomone) come Padre della Patria. Ma la morte di Giosia nel 609 fece sfumare sia la riforma che ogni possibilità di unificazione d'Israele.

Liverani è addirittura convinto che i redattori del Pentateuco avrebbero “costruito” per intero, tardivamente e traendole da fonti di origine palestinese, le antiche genealogie, quelle di Abramo, Isacco e Giacobbe, pastori nomadi nella Palestina centrale fin dal XIII sec., e la storia di Giuseppe, “novellistica d'intrattenimento” post-esilica che ha diversi paralleli nelle favole persiane.

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L'area di Gerusalemme è oggetto di scavi archeologici da un secolo e mezzo: del periodo che, secondo il racconto biblico, avrebbe visto la fioritura del “regno unificato” degli Ebrei (siamo nel X sec. a. C.) non è stato trovato nulla, se non pochi cocci di terracotta. Non una traccia di scrittura, neanche minima: fatto inconcepibile per un regno di qualche importanza. Non si conosce, dai documenti contemporanei dei popoli vicini, neanche il nome di questo preteso regno. “In realtà”, scrive Finkelstein, “quella Gerusalemme doveva essere un centro abitato piuttosto insignificante, un villaggio tipico della regione montuosa. Secondo calcoli demografici impiegati per questa epoca, il “regno” non doveva contare più di 5.000 abitanti sparsi fra la capitale, Hebron e la Giudea, più qualche gruppo sparso di seminomadi.”

Secondo le osservazioni di Liverani nei documenti egizi dell'età del Tardo Bronzo non c'è traccia della permanenza di un popolo straniero nella valle del Nilo, né della presenza di Mosè alla corte del Faraone (il nome di Mosè non è mai citato prima dell'età post-esilica). L'unico accostamento possibile è la prassi con la quale il Faraone accordava ai pastori nomadi il permesso di soggiornare nel Delta in tempo di siccità per abbeverare il bestiame. D'altra parte, l'idea di un impero che tiene prigioniero un popolo in terra straniera non poteva nascere prima dell'esperienza delle deportazioni assiro-babilonesi, avvenute però nel millennio successivo.

Liverani dice che “nelle formulazioni dell'VIII sec. il motivo della venuta dall'Egitto era già abbastanza affermato, ma soprattutto come metafora di liberazione dal dominio straniero”, non già come spostamento fisico. L'esodo biblico non fu un episodio singolo né epico, ma avvenne in tempi diversi e per piccoli gruppi, magari alla spicciolata, con modalità più simili a un'infiltrazione che a una conquista.

Il racconto che fa uscire gli ebrei dall'Egitto grazie all'intervento divino, che terrorizza il faraone oppressore con le terribili “sette piaghe”, e che li avrebbe obbligati a peregrinare per 40 anni nel deserto, è quasi del tutto inventato, e comunque è di età post-esilica. Nel VI-V sec. “tutta la vicenda dell'esodo e della conquista venne rielaborata in funzione della vicenda allora attuale della deportazione babilonese e del ritorno degli esuli, in funzione dunque di un 'nuovo esodo' che fosse prefigurato da quello mitico”. Va detto tuttavia che da Babilonia non ci fu una “fuga”, visto che l'avevano lasciata con tanto di autorizzazione, né incontrarono una tenace resistenza degli “indigeni” in Palestina, simile a quella descritta nel Libro di Giosuè.

Liverani è comunque convinto che quello descritto è un deserto immaginato attraverso le paure e i pregiudizi di un cittadino di Gerusalemme o di Babilonia, che vi vede serpenti e scorpioni dappertutto ed è convinto di morirvi di sete e di fame, a meno di interventi della divinità. Un popolo di tradizione pastorale avrebbe percorso le piste della transumanza e trovato acqua e pascoli nei posti giusti. È dubbio tuttavia che se non fossero stati in molti, il governo egizio li avrebbe lasciati partire, o che avrebbero potuto conquistare Canaan.

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Le Tavole della Legge, come del resto altre parti della narrazione biblica, contengono senza dubbio precetti antichissimi, trasmessi per molto tempo soltanto dalla tradizione orale. Ma il primo dei comandamenti, quello che impone di adorare un solo Dio, non è più antico del regno di Giosia (640-609 a.C.). In ogni caso resta incredibile la somiglianza col codice di Hammurabi, re babilonese del XVIII sec. a.C. che fece redigere la più antica raccolta di leggi: vedi i precetti come “Non frodare”, “Non adorare altre divinità al di fuori del Signore”, “Non concupire”, “Non desiderare roba d'altri”...23

L'onomastica rivela che gli Ebrei in origine adoravano altri dèi oltre a quello che sarebbe diventato il loro unico Dio e che in ebraico era chiamato Yahvè. Alcune iscrizioni parlano di Yahvè e della sua compagna, una dea cananea di nome Asherah.

Poi adottarono la monolatria, cioè la fede in un unico Dio per tutta la nazione, senza escludere che altri dèi di altri popoli fossero a loro volta veri. Infine, ma solo negli anni dell'esilio babilonese, passarono al monoteismo puro, cioè al riconoscimento di Yahvè come Dio unico di tutto l'universo. Anche il quarto comandamento, quello che impone l'obbligo di onorare il padre e la madre, si ritrova in scritti siriani mesopotamici, anche in forme più esplicite tipo “Mantieni il padre e la madre se vuoi avere diritto all'eredità”.

Lo studio delle culture del Vicino Oriente Antico ha permesso di stabilire che molte narrazioni bibliche non sono originali, ma si sono ispirate a fonti più remote. Il racconto del “Diluvio Universale”, per es., si trova già nel poema epico di Gilgamesh, eroe sumero-babilonese del 2000 a.C., come testimoniato dalle tavolette con scrittura cuneiforme trovate a Ninive. Si tratta del fenomeno ricorrente di esondazioni stagionali dei grandi fiumi dell'area mediorientale, poi assurto ad archetipo mitico, non della memoria di un evento estremo e reale in tempi preistorici. Il suo inserimento nella tradizione d'Israele è dovuto all'insegnamento “morale” che ne deriva, cioè un altro esempio della “punizione divina contro l'umana violenza”. Il che però non spiega come mai un racconto del genere si trovi in quasi ogni parte del mondo, come ha documentato J. G. Frazer ne Il ramo d'oro.

La cosiddetta Tavola delle nazioni, come elencate in Genesi 10, è del 600-550 a.C.. Non vi risultano né Israele né Giuda, ma solo il grande sistema delle “generazioni” che risalgono, tramite Noè, fino ad Adamo, e connettono fra loro tribù e popoli. Di tali opere storico-genealogiche, d'influenza babilonese, vi sono anche esempi greci, e in Egitto e Babilonia le liste dei re e la ricerca degli antenati mitici sono usuali.

L'episodio riguardante Eva e la mela è tratto da una leggenda sumera che faceva dipendere l'origine dei mali dalla prima donna che, indotta da un serpente a disobbedire al Dio creatore, convinse il suo compagno a mangiare il frutto dell'albero proibito. La favola sumera viene raccontata in un documento chiamato “Cilindro della Tentazione”, conservato presso il British Museum di Londra. Questo documento, scritto nell'anno 2500, esisteva già venti secoli prima che venisse redatta la Bibbia. Inoltre il “Giardino dell'Eden” altro non è che il giardino del re, con piante e animali ornamentali e rari. L'altro termine, “paradiso” (giardino cintato), è persiano. L'uso di raccogliere piante esotiche in orti botanici è egiziano e poi assiro. La ricerca umana dell'immortalità si trova anche in Gilgamesh, leggenda babilonese.

La Torre di Babele (un racconto della seconda metà del VI sec.) altro non era che la ziggurat che il re di Ur, Nimrod, fece costruire a Babilonia nel 2100 a.C. in onore del Dio lunare Nanna. Il rudere di una ziggurat poté sembrare agli ebrei deportati una torre “incompiuta”, anche perché la pluralità di lingue dei deportati (ebrei, aramei, anatolici, iraniani) era effettivamente reale, mentre nel perfetto mondo originario la lingua doveva essere una sola.

Per gli storici, la folgorante campagna militare di Giosuè per la conquista della Palestina (la terra che la Bibbia dice promessa da Dio ad Abramo) è del tutto inverosimile: chi ne ha scritto il racconto ignorava che all'epoca la Palestina era occupata dagli Egizi, che di sicuro non se ne sarebbero rimasti con le mani in mano. Inoltre, nessun documento contemporaneo ne reca traccia. L'archeologia ha dimostrato che, fra le città che la Bibbia dice espugnate da Giosuè, Gerico era già in rovina e abbandonata da quattro o cinque secoli e Ai addirittura da un buon millennio.

E i popoli che sarebbero stati sterminati fino all'ultimo uomo, donna e bambino per ordine di Yahvè? Con qualche sollievo gli storici hanno accertato che il loro elenco nella Bibbia è inventato. Salvo i Cananei, che si trovavano davvero in Palestina, ma che di certo non vennero sterminati, e gli Ittiti, autentici anche loro, ma che in Palestina non avevano mai messo piede, gli altri, Amorrei e Perizziti, Hiwiti, Girgashiti e Gebusei sono popoli semplicemente immaginari. Pure i famosi Refaìm e Anaqìm sono “giganti” leggendari, che gli ebrei ipotizzarono per via delle loro tombe megalitiche.

I popoli “veri”, ch'erano sempre stati i più forti (Filistei, Fenici, Edomiti, Moabiti e Ammoniti) rimasero in Palestina anche nel V sec. a.C., non eliminati né da Giosuè né in seguito. E poi nel XIII sec. a.C. in quella regione c'erano stati effettivamente solo i Canaanei, nessun'altra etnia nota.

Insomma il redattore, del filone deuteronomista, aveva deciso di raccontare la conquista-modello in chiave di unitarietà bellica delle 12 tribù (anche se i reduci da Babilonia erano invece soltanto le tribù di Beniamino e di Giuda) contro i locali (anche se i locali erano per lo più mezzi parenti, e non stranieri).

La storia della conquista e il personaggio di Giosuè avrebbero in sostanza rappresentato solo “il modello” epico e mitico di come il rientro da Babilonia sarebbe dovuto avvenire, e pertanto non è attendibile. Solo che il rientro si svolse in pratica pacificamente e i reduci non dovettero combattere per la terra.

Una volta ritornati in patria, ai Giudei si prospettavano tre differenti ipotesi di forma di governo: 1) i giudici; 2) un re; 3) la città-tempio. Dal termine dell'esilio fino al 515 (data della rifondazione del Tempio) furono guidati in effetti solamente da giudici e anziani, e anche quella soluzione fu retrodatata, dallo storiografo deuteronomista, all'epoca fra la conquista e la monarchia, con 12 giudici con funzioni di capi militari, mandati occasionalmente da Dio a salvare il popolo da varie “oppressioni”. Le saghe che ne trattano sono leggendarie e fiabesche. Anche la “lega delle 12 tribù”, formalmente intesa non funzionò mai: è un espediente storiografico del VI sec., ideato per affermare l'unitarietà passata delle tribù (alcune delle quali scomparvero), che si radunavano in alcuni luoghi specifici soltanto raramente, per decidere insieme azioni comuni in momenti di crisi politica o per motivi religiosi. Non abbiamo quindi alcuna informazione, o idea, di come il popolo ebraico governasse se stesso in quel periodo.

Nel VI sec. una parte dei reduci sperava, per far risorgere il Paese dalle rovine, di darsi un re (anche se vassallo di un impero straniero). Ma un altro partito, antimonarchico, voleva invece affidare il Paese alla guida di sacerdoti e profeti, considerati superiori a qualunque re: infatti erano stati delusi da Saul, e fu solo per la “virtù” di Davide che in effetti iniziò la regalità, fondata sulla giustizia e sulla pietas.

Sono le infedeltà dei re a Dio a provocare il degrado del regno e la sua divisione. In tale ottica “si immaginò o si postulò”, da parte degli storiografi filomonarchici da Giosia in poi, che sotto Davide e Salomone il regno fosse stato grande e unito attorno al Tempio, ma in realtà – dice Liverani – quel regno era stato piccolo e la sua capitale modestissima. I confini utopici, non-realistici, del “presunto impero davidico-salomonico” (dall'Eufrate al torrente d'Egitto, il wadi el-Arish) non sono storici, ma corrispondono invece a quelli della satrapia persiana dell'“oltre Eufrate”. Le limitate guerre di Davide contro piccoli regni “possono essere state ampliate”, le grandi costruzioni “possono esser state attribuite ai re più prestigiosi”. Il regno-modello unito delle 12 tribù è una favola inventata. E le storie infamanti – come quella di re Davide che manda a morte Uria per prendergli la moglie, e che la Bibbia condanna piuttosto blandamente –, devono essere state inventate in seguito, non possono far parte della “ricostruzione storica realistica” del X sec. e di quella dinastia, finita comunque, dopo lotte e discontinuità della successione legittima, verso l'840.

Quindi il sogno utopistico (e retroattivo) di una monarchia unita e indipendente fu battuto dalla più realistica tesi di un “regno di Dio” guidato nel IV sec. dai sacerdoti nella città-tempio, che svolgeva anche tutta una serie di attività economico-politiche di origine e ispirazione palestinese, o meglio babilonese, anzi sumera. C'erano sì alcuni templi alternativi, come quello di Samaria e altri, ma l'unico “vero” Tempio era quello di Gerusalemme. La Bibbia però parlando della sua prima edificazione architettonica, non descrive – dice sempre Liverani – il Tempio di Salomone, bensì quello, successivo, “rifondato probabilmente da Giosia”.

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I due suddetti archeologi ebrei, Israel Finkelstein e Neil Asher Silberman, sostengono alcune tesi che impongono una rilettura integrale dell'Antico Testamento: 1) molto improbabile che la Genesi si sia svolta in Palestina; 2) il diluvio universale è verosimilmente stato una piena del Tigri e dell'Eufrate; 3) Noè non è mai esistito; 4) la nascita del monoteismo non può essere fatta risalire all'epoca di Abramo; 5) non ci sono prove storiche sufficienti delle peregrinazioni dei patriarchi, né della fuga dall'Egitto, né della conquista di Canaan; 6) il crollo delle mura di Gerico è solo una fantasia, nel senso che la vera conquista israelita si compì quando una moltitudine di contadini canaanei, senza invasioni o migrazioni, si ribellò ai propri padroni e divenne “israelita”; 7) non è stata trovata alcuna prova archeologica che confermi le grandiose descrizioni bibliche dell'impero di Davide e Salomone.

Stando ai recenti ritrovamenti archeologici, i libri che vanno da Genesi a 2 Re furono un prodotto geniale dell'immaginazione umana, elaborato nell'arco di due o tre generazioni, circa 2600 anni fa (nel VII secolo a.C.), a distanza di centinaia di anni dagli eventi narrati, nel regno di Giuda.

Tutta la Bibbia ebraica è solo una geniale ricostruzione letteraria e politica di tutta la storia del popolo ebraico, che avvenne sotto il regno di Giosia (640-609 a.C.), re di Giuda. Egli avviò una totale riforma religiosa e politica nel tentativo di riunificare le due frazioni dell'etnia, quella del sud (Regno di Giuda) e quella del nord (Regno d'Israele), affinché non ci fosse che un solo popolo (ebreo), un solo re (presumibilmente lui stesso), un solo Dio (Yahvè), una sola capitale (Gerusalemme) e un solo Tempio (quello di Salomone). Era necessario, per arrivare a questo scopo, fare violenza al territorio del nord, e fare violenza anche allo stesso contenuto del Libro della Legge, facendogli dire ciò che conveniva al piano espansionista di Giosia, ancorandolo surrettiziamente alla generazione mitica di Davide e Salomone. Ossia bisognava motivare il popolo religiosamente, far apparire ai suoi occhi lo “splendore” del passato da recuperare, un “impero salomonico” da ristabilire, una indipendenza e una egemonia territoriale.

Per giustificare tali ambizioni fu annunciato il “ritrovamento”, fittizio, del Libro della Legge: in esso, oltre a “inventarsi” le antiche glorie, gli scribi fecero dire a Dio tutto quanto riguardava i sacrifici e le offerte dovute ai sacerdoti. I siti menzionati nell'Esodo sono veramente esistiti, ma furono occupati molto tempo dopo il presunto esodo, molto dopo l'emergenza del regno di Giuda. La Gerusalemme dei Re era, all'epoca di Davide e Salomone, solo un piccolo villaggio di nessun interesse.

La differenza principale fra i due suddetti lavori storiografici consiste nel fatto che Liverani attribuisce gran parte di quelle invenzioni all'epoca esilica e post-esilica, oltre che a quella di Giosia, mentre Finkelstein e Silberman le collocano esclusivamente in quest'ultima.

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Anche Shlomo Sand, storico ebreo, docente all'Università di Tel Aviv, in un libro, L'invenzione del popolo ebraico (ed. Rizzoli, Milano 2010), ha sostenuto che la storia del popolo ebraico, così come descritta nella Bibbia, contiene aspetti privi di alcun riscontro storico. Al punto che non esiste alcuna linea diretta che colleghi gli ebrei di duemila anni fa a quelli attuali.

La Dichiarazione di Indipendenza di Israele afferma che il popolo ebraico proviene dalla Terra di Israele e che fu esiliato dalla sua patria. A ogni studente s'insegna che ciò accadde durante il dominio romano, nell'anno 70 d.C. Ma in realtà – dice lo storico – non c'è mai stato “un” unico popolo ebraico, ma al massimo “una” religione ebraica, e l'esilio dalla Palestina non è mai avvenuto, perché i Romani, che di solito non esiliavano intere nazioni, permisero alla maggior parte degli ebrei di restare nel Paese. Il numero degli esiliati ammontava al massimo a qualche decina di migliaia, per cui non si è trattato di un “ritorno”.

Sand rifiuta anche il racconto dell'esodo dall'Egitto e i racconti degli orrori della conquista da parte di Giosuè. Non solo, ma quando il Paese fu conquistato dagli arabi, molti ebrei si convertirono all'Islam e si assimilarono ai conquistatori. Ne consegue che i progenitori degli arabi palestinesi erano ebrei. Secondo lui è stato possibile anche il fenomeno inverso: la comunità degli ebrei di Spagna derivava da arabi convertiti al giudaismo, che tolsero la Spagna ai cristiani, e da individui di origine europea, anch'essi convertiti al giudaismo. È vero che gli ebrei si trovano in quasi ogni Paese del mondo, ma solo perché sono emigrati di propria volontà.

I primi ebrei di Ashkenaz (Germania) non provenivano dalla Terra di Israele e non giunsero in Europa orientale dalla Germania, ma erano ebrei che si erano convertiti nel regno dei Kazari nel Caucaso. La cultura Yiddish non proviene dalla Germania, ma è il risultato dell'incontro tra i discendenti dei Kazari e gruppi di tedeschi che si muovevano verso oriente.

Sono stati i sionisti a inventarsi di sana pianta un'etnia comune e una continuità storica. Insomma Israele non è mai stato un Paese “ebraico”, ma un Paese di molte popolazioni diverse. È stato il sionismo a trasformare l'essenza del popolo ebraico da entità religiosa universale a movimento politico-nazionalistico. Il sionismo ha finito per equiparare l'antisionismo all'antisemitismo, usando all'occorrenza la Shoah come randello sul tavolo della politica internazionale. Ma il sionismo non è affatto l'ebraismo.

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11) Caratteristiche dell'ebraismo

11.1) Formazione del Canone

Il testo-base degli ebrei, l'unico che, nella forma di rotoli manoscritti, si trova in ogni armadio sinagogale, è la Torah (legge), ovvero i primi cinque libri dell'Antico Testamento (o Pentateuco), il più importante dei quali è ritenuto l'Esodo. Libri che gli ebrei attribuiscono a Mosè, ma che già con Hobbes e Spinoza si scoprì essere stati scritti in un'epoca di molto posteriore agli episodi ivi narrati.

La Bibbia d'Israele è divisa in tre parti: Torah, Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Non sbagliano, tuttavia, coloro che in seno all'ebraismo, considerando tutta la loro Bibbia “ispirata”, definiscono le parti scritte col nome collettivo di Torah e pongono quindi una semplice distinzione fra Torah scritta e Torah orale. Per la prima Torah vennero usati l'ebraico e l'aramaico: la versione greca dei Settanta (non sempre all'altezza del testo masoretico) risale ai secoli III-II a.C. e venne fatta per gli ebrei della diaspora. Con questa traduzione, come noto, si favorì il dialogo fra ebraismo ed ellenismo e quindi l'elaborazione di sistemi sincretici religioso-idealistici, come quello di Filone Alessandrino o quello dello gnosticismo.

La Bibbia fu copiata e ricopiata per centinaia di anni, per cui è impossibile risalire all'originale. In essa si possono trovare tracce egiziane, babilonesi, ugaritiche, persiane e greche. I testi più antichi risalgono ai secoli XII-XI a.C. e sono il canto della profetessa Deborah (Gdc 5) e quello di Davide per la morte di Saul (2 Sam 1,19-27).

Alla base della Torah vi sono almeno quattro diverse fonti: Jahvista (composta in Giudea verso il IX sec. a.C.), Elohista (composta in Efraim, fra le tribù settentrionali della Palestina, forse nell'VIII sec. a.C.), Deuteronomista (che risale al regno di Giosia, allorché il sacerdote Ilchia, nel 621 a.C., finse di aver ritrovato, durante i restauri del Tempio di Gerusalemme, il testo originale della Torah, per giustificare una riforma politico-religiosa sgradita al popolo: rigido monoteismo, forte centralizzazione del culto nella capitale, canonizzazione di testi biblici. Tutto ciò nella speranza, risultata poi vana, d'impedire che la Giudea crollasse come il regno d'Israele nel 721 a.C. Nel 560 a.C. vi fu una rielaborazione ulteriore del Deuteronomio). Infine vi è la fonte Sacerdotale, legata ai nomi di Esdra e Neemia, e composta verso il 444 a.C., grazie alla quale il clero di Gerusalemme poté ribadire le esigenze della fonte deuteronomista, accentuando l'autoisolamento nazionale del popolo ebraico e riconoscendo alla legge uno stretto valore normativo per la vita socio-religiosa: si veda ad es. il divieto assoluto di contrarre matrimoni misti o la radicalizzazione del concetto di “popolo eletto”.

Sino al periodo della monarchia si considerarono sacri solo i libri della Torah. Fu dopo l'esilio di Babilonia che vennero inseriti nel canone anche i libri dei Profeti (Neviim): la canonizzazione di questa raccolta era già a buon punto verso il II sec. a.C. Mentre durante la dominazione ellenistica dei Tolomei e dei Seleucidi si accettarono alcuni scritti ispirati (Ketuvim), come ad es. quelli di Giobbe, Daniele, Qohelet ecc. La canonizzazione di questi scritti, già iniziata con il re di Giuda, Ezechia (716-687 a.C.), si andò sviluppando molto lentamente.

Al tempo di Cristo vi era discussione fra le comunità ebraiche sul numero dei libri profetici e degli scritti da considerarsi sacri: i farisei prediligevano solo i libri scritti in ebraico e quelli conformi alla Legge; i sadducei accettavano solo il Pentateuco; nella diaspora alessandrina e a Qumran si aveva invece un atteggiamento più flessibile. Si pensa quindi che a Jamnia (costa-sud del Mediterraneo), in un sinodo tenuto verso l'80 d.C., la comunità ebraica abbia deciso di fissare definitivamente l'elenco ufficiale dei libri canonici (Canone Palestinese). In particolare, furono scartati sette libri che molti ebrei della diaspora (specie quelli filo-ellenisti) consideravano sacri, e che furono chiamati Deuterocanonici (facenti cioè parte del secondo canone, quello di Alessandria d'Egitto). Essi sono: Tobia, I-II Maccabei, Giuditta, Baruc, Sapienza e Siracide (libri inclusi sia nella versione dei Settanta che in quella cristiana).

La censura fu probabilmente dovuta all'opposizione che i farisei nutrivano nei confronti dei conservatori sadducei, usciti sconfitti dalla distruzione di Gerusalemme del 70 d.C. e addirittura scomparsi, con la fine del Tempio, come casta religiosa. I due libri dei Maccabei vennero esclusi dall'uso sinagogale semplicemente perché i discendenti di Simone Maccabeo (l'eroe antiellenista) avevano parteggiato per i sadducei.

Da notare che gli ebrei raccolgono sotto il nome di Libri profetici sia i testi storici (Profeti anteriori) che quelli edificanti (Profeti posteriori ovvero i 12 minori agiografi): ciò in quanto essi ritengono che solo un profeta (un uomo ispirato) può scrivere in modo corretto la storia.

Le Bibbie rabbiniche non riproducono mai solo i libri cosiddetti “rivelati”, poiché questi sono sempre attorniati da una serie di altri testi, come ad es. i Targùm, parafrasi aramaica della Scrittura, o da commenti tradizionali, come quelli di Rashi o Ibn Ezra. In generale, la vastissima area dei commenti ebraici alla Scrittura, redatti tra il IV e il XII sec. d.C., è definita col termine di Midrash. L'esegesi di scuole rabbiniche è di tipo allegorico, quindi ben poco attendibile.

La versione più antica della Bibbia ebraica è quella dei Rotoli di Qumran, una serie di manoscritti di quasi tutto il Vecchio Testamento, copiati da monaci esseni fra il II sec. a.C. e il I sec. d.C., rinvenuti casualmente nel 1947.

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11.2) L'interpretazione della legge

Con la Torah scritta è stata trasmessa di generazione in generazione una cospicua tradizione orale, che ad un certo punto venne redatta e ordinata per timore che andasse perduta.

La prima codificazione della Torah orale si chiama Mishnah e raccoglie le principali opinioni degli scribi e dei rabbini sui problemi della legge. Iniziata nel II sec. d.C. e frutto di almeno quattro secoli d'interpretazione della Torah, essa fu caratterizzata soprattutto dall'insegnamento di una delle scuole del fariseismo, quella di Hillel. Gli argomenti che tratta sono agricoltura, feste, proprietà e affari legali, ruolo della donna, Tempio e impurità. Famoso, nel giudaismo medievale, il commento di Maimonide alla Mishnah.

Le discussioni sulla Mishnah originarono la formazione di due raccolte: il Talmùd palestinese (IV sec. d.C.) e il Talmùd babilonese (più ampio, dei secoli VII-VIII d.C.). Sono praticamente due modi paralleli di affrontare le stesse questioni da parte delle due più grandi scuole rabbiniche. Essendo frequente lo scambio dei rabbini, spesso si citano l'un l'altro. Le differenze sono in talune interpretazioni e nelle conclusioni.

In origine il Talmùd aveva per tema solo lo studio della Mishnah, poi però si è arricchito di elementi folcloristici e sociali, nonché di pedanti disquisizioni di carattere giuridico, teologico, rituale e morale, che anticipano i sofismi e le astruserie – come vuole Donini – di gran parte della Scolastica cattolica.

Per i rabbini le affermazioni della Mishnah sono inconfutabili: il loro compito è quello di cercare di chiarire quale testo sia applicabile al caso concreto. A tale scopo di servono di tutto il repertorio della conoscenza rabbinica: detti popolari, favole, leggende, aneddoti, giochi di parole, sogni, conoscenze scientifiche del tempo. L'impressione è quella di un'enciclopedia senza indice analitico, del tutto in disordine e praticamente inaccessibile a chi non l'ha memorizzata. Solo di recente si sono cominciati a usare dei sussidi occidentali, ovvero indici e concordanze. L'odierna edizione comprende 19 volumi e contiene alcuni commenti rabbinici raccolti nella Ghemara, la quale quindi, insieme alla Mishnah, forma il Talmùd. Ne esiste una versione più pratica, ancora in uso, del rabbi J. Karo (sec. XVI).

Per sapere se un'opinione del Talmùd è “dottrina del giudaismo”, bisogna conoscere l'autorità di chi l'ha formulata, se la sua opinione è stata condivisa da altre autorità e cosa hanno detto i commenti posteriori. Evidentemente sono una persona molto erudita può cimentarsi in un'impresa del genere. Dei due Talmùd, quello babilonese si sviluppò potentemente nell'impero musulmano; quello palestinese s'impose di più in Italia e in Egitto.

L'ostilità cattolica contro il Talmùd si scatenò violenta nel XIII sec., allorché la fiorente cultura ebraica si diffuse dalla Spagna in occidente. La prima condanna, sotto l'accusa di immoralità e di ingiurie al cristianesimo24, e il conseguente pubblico rogo, risale al 1244. Condanne, roghi, divieti di stampa e lettura continuarono almeno sino alla fine del XVIII sec.

Il Talmùd oggi è secondo solo alla Torah in fatto di autorità. Esso è la sintesi di tutte le tradizioni interpretative del Midrash (tradizione orale), Halakah (applicazione pratica del diritto), Haggadah (interpretazione non giuridica o riflessione sapienziale) e Mishnah (codice definito della legge orale). Altre forme interpretative di tipo mistico, esistenziale o devozionale che derivano dal Talmùd sono: Kabbala, Chassidismo, Lurianesimo e Frankismo.

L'altro libro sacro degli ebrei è lo Zohar, scritto all'inizio del XIV sec., in Spagna, da un mistico erudito, Mosé de Léon. In esso si parla della natura divina e del mistero dei nomi divini, dell'insegnamento della Torah sul messia e in genere si commenta in chiave allegorica il Pentateuco. È il libro spirituale dei mistici ebrei. Pico della Mirandola, traducendolo in latino, ne permise la diffusione al di fuori degli ambienti ebraici. Può anche essere considerato il testo-base della Kabbala, quel complesso di dottrine occulte, teosofiche e mistiche, di origine gnostica e neoplatonica, sorte in seno al giudaismo medievale, a partire dal X-XI sec., come reazione al diffondersi del razionalismo aristotelico ad opera della cultura araba. Nella scia della Kabbala, ma su una linea che pone l'accento sulla pietà quotidiana piuttosto che sulla gnosi iniziatica, sorge il Chassidismo (sec. XVIII), che in un certo modo si oppone al Talmùd, considerato troppo intellettuale.

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11.3) Le feste principali

Le feste ebraiche si svolgono al ritmo delle stagioni, specialmente in primavera e autunno. Hanno un carattere storico, agricolo e religioso. Le più importanti sono quelle di origine biblica. Tra quelle austere e solenni anzitutto il Capodanno, che cade in autunno e ricorda la creazione e il giudizio di Dio sul mondo. Nella sinagoga, ove per l'occasione prevale il colore bianco, si suona un corno di montone (shofar), a ricordo del sacrificio di Isacco, che per gli ebrei è il massimo segno umano di dedizione alla divinità. È usanza mangiare mele immerse nel miele e augurare un felice anno nuovo agli altri.

I dieci giorni successivi vengono dedicati al silenzio, alla riflessione sul proprio passato e quindi al pentimento, fino al momento del Kippur (o espiazione), che è il più sacro del calendario ebraico, in cui si celebra il perdono di Dio per il peccato del vitello d'oro. Coperto di una veste bianca, il fedele passa tutto il giorno nella sinagoga a confessare i propri peccati e a chiedere d'essere liberato dagli impegni o dai voti non rispettati l'anno precedente: normalmente resta a digiuno per almeno 25 ore. A volte, in quest'occasione, anche i meno praticanti si ritrovano in sinagoga.

Un'altra festa molto importante è la Pasqua, che si celebra per 7-8 giorni in marzo-aprile, a ricordo della liberazione dalla schiavitù egiziana. Alla vigilia si fanno grandi pulizie nelle case e si distrugge qualunque sostanza lievitata. Il significato agricolo di questa festa era quello dell'inizio della mietitura dell'orzo, di cui si portavano le primizie al Tempio: festa degli azzimi, si chiamava. Vi si offrivano anche i primogeniti delle greggi. Oggi tende a prevalere il significato storico-religioso (nei kibbuz25 la si celebra ricordando anche la rivolta del ghetto di Varsavia e la guerra d'indipendenza d'Israele).

Sulla tavola viene preparato un vassoio con tre pani azzimi, una zampa di agnello in ricordo del sacrificio pasquale, un uovo sodo, segno di lutto per la distruzione del Tempio, erbe amare intinte nell'aceto, in memoria della vita di stenti sotto il faraone, la marmellata di frutta, che ricorda la paglia mescolata all'argilla per fare i mattoni. La cerimonia, che ha pure un valore didattico, in quanto i genitori rispondono alle domande rituali dei bambini sul significato di queste pietanze, incomincia con la benedizione del vino e si chiude con la recitazione di alcuni salmi. È tradizione lasciare un posto vuoto a tavola, la porta aperta e mettere da parte un bicchiere di vino per il profeta Elia, di cui si attende il ritorno in qualità di precursore del messia.

Alla Pasqua segue un periodo di 7 settimane di lutto, associato al fallimento della rivolta ebraica contro Roma nel II sec. d.C. Dopodiché si celebra la Pentecoste, festa agricola delle primizie e festa religiosa che commemora l'istituzione della legge sul Sinai. Le case e le sinagoghe (qui si leggono i Dieci comandamenti e il libro di Ruth) sono decorate con fiori e piante. Si consumano pasti a base di latticini.

Il ringraziamento per il raccolto avviene in settembre-ottobre con la festa delle Capanne (o Tabernacoli), in memoria dell'esodo nel deserto, allorché gli ebrei vivevano in capanne di frasche e tende, oggi ricostruite, per l'occasione, sui balconi delle case o nei cortili. In sinagoga si cantano inni di lode, agitando verso i quattro punti cardinali dei rametti di palma, salice, mirto e cedro. Per quattro giorni si percorrono circa 40 km nei dintorni di Gerusalemme per ritrovarsi poi nelle vie del centro.

Allo scadere dell'ottavo giorno si celebra l'Esultanza della legge, una festa in cui, dopo aver preso i rotoli dal tabernacolo, si balla e si canta portandoli in processione. In questo giorno finisce la lettura annuale del Pentateuco e si ricomincia coi primi versetti del Genesi.

Tra le feste minori meritano d'essere ricordate i Purim (significa “sorte”), che cade in febbraio-marzo e che commemora il trionfo di Ester e Mardocheo su Aman. In sinagoga si legge il libro di Ester e ogni volta che ricorre il nome di Aman i ragazzi fanno rumore o giocano. Per i travestimenti usati la festa somiglia al nostro carnevale. Vi si scambiano doni e si fanno elemosine ai poveri.

Infine la festa delle Luci (o Dedicazione), che si celebra in dicembre, a ricordo sia della vittoria di Giuda Maccabeo sui siriani che della conseguente purificazione del Tempio. È d'uso farsi dei regali e accendere su un candelabro con otto bracci una candela ogni sera, fino all'ottava, a immagine della fedeltà ebraica alla legge.

Importantissima è anche la festività del sabato, che inizia il venerdì al tramonto. Con essa si commemora il riposo divino del settimo giorno nella creazione dell'universo e la liberazione dalla schiavitù egizia. È un giorno di meditazione e di riflessione sulla propria vita. Occorre astenersi da qualunque attività lavorativa (professionale, manuale, commerciale, ecc.), al punto che non si può neppure trasportare qualcosa o attivare circuiti elettrici o intraprendere lunghi viaggi. In casa si accendono candele, si recitano preghiere, si benedicono il vino e i pani rituali, che simboleggiano la manna del deserto. È d'obbligo consumare carne.

Fra le nuove tradizioni la più importante è quella dell'Indipendenza d'Israele, che si festeggia circa 15 giorni dopo pasqua. Si fanno balli popolari, sfilate militari e la veglia sulla tomba di T. Herzl (creatore del movimento sionista e “padre” dello Stato d'Israele). Giornate celebrative sono dedicate ai martiri del nazismo e ai combattenti per l'indipendenza. A partire dal giugno 1967 nello spiazzo del muro del Tempio i cadetti dell'esercito vengono a prestare giuramento all'atto della loro promozione.

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11.4) Preghiere, riti e vita quotidiana

Secondo la legge ortodossa ebraica, ebreo è chi nasce da madre ebraica, anche se è possibile diventarlo mediante la conversione: la discendenza per via maschile non ha mai avuto per l'ebraismo alcun significato, né giuridico né morale. Ciò che conta è il legame di sangue. L'ottavo giorno dopo la nascita (può cadere anche di sabato), il maschio dev'essere circonciso (anche l'adulto che si converte). Qui gli viene imposto il nome. Il rituale purificatorio durerà di meno di quello riservato alla femmina, per la quale non sono previsti riti analoghi, tipo infibulazione o clitoridectomia.

Verso i cinque anni il bambino viene inviato a scuola di religione nella sinagoga, ove studierà l'ebraico e i testi sacri. All'età di 13 anni diventa “responsabile”: il sabato successivo al compleanno leggerà per la prima volta in sinagoga un brano del rotolo della Torah. D'ora in poi dovrà adempiere tutti i doveri di un ebreo e potrà essere uno dei dieci uomini adulti richiesti per la recita di una preghiera pubblica. Le ragazze invece diventano maggiorenni a 12 anni e la loro educazione religiosa è più sommaria.

I precetti religiosi che gli ebrei dovrebbero seguire sono 613, provenienti dalla Torah scritta e orale: 248 in positivo (ciò che si deve fare) e 365 in negativo. Naturalmente nessuno li può rispettare in toto, per cui si suppone che sia il popolo nel suo complesso a farlo.

L'ebreo devoto prega tre volte al giorno: mattino, pomeriggio e sera, a casa o in sinagoga, in piedi o in ginocchio o prostrato col viso a terra, rivolto verso est (e, se è uomo, col capo coperto). L'atto di fede, ovvero il primo e unico articolo della fede giudaica è lo Shemà, che inizia con le parole: “Ascolta Israele, l'Eterno è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze” (cfr Dt 6,4-9). Preghiera, questa, recitata ogni giorno dagli ebrei praticanti.

La preghiera pubblica, in sinagoga, è presieduta dal rabbino, che ha un'autorità magisteriale e giuridica, ma può essere diretta da un ministro officiante che abbia superato i 13 anni, che sappia leggere l'ebraico e che sia possibilmente intonato. La lettura della Torah, divisa in sezioni settimanali, viene fatta di lunedì, giovedì e sabato.

I rabbini sono dei maestri incaricati dell'insegnamento e della predicazione, possono anche spiegare, interpretare e reintegrare la legge, ma non hanno carattere sacerdotale. Da quasi duemila anni gli ebrei non hanno intermediari fra loro e Dio: la confessione dei peccati, in questo senso, è simile a quella del mondo protestante. D'altra parte prima della diaspora avevano sacerdoti solo al Tempio, con funzioni relative ai riti, alla cura dell'edificio, riscossione delle tasse e benedizione dei fedeli.

L'avvenimento più importante della vita familiare, visto quasi come un atto obbligatorio, è il matrimonio. Già il fidanzamento ha un valore legale o civile. Lo scioglimento unilaterale ingiustificato del fidanzamento è punito con durezza. La cerimonia del matrimonio prevede prima la firma del contratto, in cui lo sposo s'impegna nei confronti della sposa, poi il rito religioso vero e proprio, durante il quale viene rotto un bicchiere di cristallo, per rievocare la distruzione del Tempio (anche in un giorno così felice non bisogna mai dimenticare la sciagura che provocò la grande diaspora). Il divorzio è ammesso e consiste in un documento scritto e firmato da due testimoni che il marito consegna alla moglie liberandola da ogni obbligo coniugale verso di lui. Nella maggior parte dei Paesi bisogna prima ottenere il divorzio civile. L'ebraismo impedisce alla donna di prendere l'iniziativa del divorzio, ma i tribunali tendono a condannare l'uomo che rifiuta un giustificato consenso alla separazione.

Ultimo rito nella vita dell'ebreo è quello funebre. I parenti iniziano il lutto facendo l'atto di stracciarsi i vestiti e astenendosi dal culto pubblico. Dopo essere stata deposta sul pavimento, lavata e avvolta in un abito speciale, col volto coperto, la salma viene seppellita, entro 24 ore dalla morte, nella terra: vietati la cremazione, i loculi e le sepolture temporanee. Dopo un anno cessa il lutto e si pone la lapide sulla tomba. Il lutto stretto dura una settimana, durante la quale i parenti siedono su sedie basse o anche sul pavimento. Poco significativa nell'ebraismo la dottrina dell'immortalità dell'anima o della resurrezione dei corpi. Scarsissimi i riferimenti alla vita ultraterrena.

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11.5) Il ruolo della donna

L'ebraismo non concepisce la donna in sé, ma nel suo ruolo di moglie e madre, soprattutto in quello di madre. La sterilità è considerata una maledizione, la castità un valore negativo. I rapporti prematrimoniali e la convivenza non formalizzata nel matrimonio sono malvisti. Vietati la prostituzione e l'uso commerciale del corpo femminile.

La Torah permette alla donna di consacrarsi al suo ruolo di madre, dispensandola da un certo numero di obblighi rituali. L'educazione morale dei figli e la protezione della famiglia intesa come ambiente sacro, sono affidate interamente a lei. Suo dovere è quello di salvaguardare la purezza religiosa della casa, garantendo ad es. che il cibo consumato sia conforme alle leggi alimentari. Nelle famiglie osservanti è sempre la donna ad accendere e benedire le candele del sabato. Il dovere della procreazione è maschile non femminile, ovvero l'iniziativa dei rapporti fisici è soggetta alla volontà della donna.

La tradizione biblica assicura alla donna diritti di proprietà e posizione sociale: essa fu banchiera nel Trecento, medico e artista nel Cinquecento, esploratrice e letterata nell'Ottocento. In Italia ha militato nelle file dei carbonari e dei partigiani. Dal 1969 al 1974 Israele ha avuto come primo ministro Golda Meir. A Tel Aviv, dal 1985, c'era un rabbino donna. La stessa Assemblea rabbinica d'America, che pur è una corrente conservatrice, ha deciso, dopo un sondaggio, di aprire il rabbinato alle donne. Da notare che l'ebraismo non ha mai conosciuto roghi e caccia alle streghe come l'occidente cattolico e protestante.

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11.6) Prescrizioni alimentari

Le prescrizioni e i riti alimentari sono abbastanza complicati. L'ebreo osservante ha l'obbligo di mangiare carne solo di animali “puri”, cioè di quelli dal piede biforcuto o, se mammiferi, che siano ruminanti. I pesci debbono avere scaglie e pinne (crostacei e frutti di mare sono proibiti). Assolutamente vietati il maiale, il cinghiale, il cammello, il cavallo, il cane, il gatto, la lepre, gli insetti..., il loro latte e/o le loro uova, nonché verdura e frutta ch'essi hanno toccato (elenco e disposizioni complete in Levitico 11 e Deuteronomio 14).

Gli animali “puri” (agnello, carne bovina e pollame) devono essere macellati con il taglio dell'esofago e della trachea: il sangue, il sevo e l'intera parte posteriore non vanno consumati. Dopo la macellazione, la carne viene immersa in acqua fredda e salata per eliminare il sangue rimasto. Il salame d'oca è fra gli alimenti più usati. È vietato anche il consumo contemporaneo di carne e formaggio, latte e caffè. Il miele è consentito perché considerato sostanza vegetale che le api si limitano a trasformare. Il vino dev'essere a fermentazione naturale, non mescolato ad altro vino o altre sostanze. Regole severissime vigono anche al momento della preparazione e del lavaggio dei piatti.

Gli ebrei si diversificano tra loro soprattutto nell'osservanza di queste leggi alimentari: alcuni non le seguono per niente; altri si astengono dal cibo espressamente proibito, ma non si preoccupano di avere in cucina due servizi distinti di piatti (per la carne e per i prodotti caseari) e i due rispettivi lavandini. Solo gli ebrei ortodossi sono meticolosi anche in questo campo.

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11.7) Il calendario

È di tipo lunisolare, basandosi sia sulle fasi lunari (mesi) che sul ciclo solare (anni). L'anno ebraico può essere di due tipi: “comune”, cioè di 12 mesi per un totale di 353-4-5 giorni, a seconda che sia corto, regolare, lungo; oppure “embolismico”, cioè di 13 mesi, per un totale di 383-4-5 giorni. Dodici anni “comuni” s'intercalano con sette “embolismici”, formando un ciclo di 19 anni che si ripete con le stesse alternanze. In pratica, per far cadere le feste nella stagione giusta si aggiunge ogni 19 mesi un mese supplementare. Il primo degli anni lunisolari corrisponde al 3760 a.C., era israelitica della creazione del mondo. Così, ad es., il 5747 è iniziato sabato 4 ottobre 1986.

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11.8) Diffusione degli ebrei nel mondo

A fine Ottocento, nonostante fosse già iniziata una poderosa migrazione verso gli USA, la massima concentrazione ebraica mondiale era nell'Europa orientale, che fin dal tardo Medioevo fu l'area d'insediamento più rigogliosa della diaspora, mentre una significativa presenza si registrava in alcune regioni dell'impero ottomano e del Nord Africa.

Nel 1940, all'inizio della seconda Guerra Mondiale, la consistenza della diaspora ebraica, nel mondo, era stimata in 16,5 milioni di persone, di cui 10 milioni vivevano in Europa, un milione in Asia (la metà in Palestina), mezzo milione in Africa del Nord, e i restanti cinque milioni in America.

Dopo la seconda Guerra Mondiale, che ha comportato in Europa la morte di 5,5-6 milioni di ebrei, i nuclei sopravvissuti sono emigrati verso Israele e il Nord America. A partire dal 1948, con la nascita dello Stato d'Israele, si è ridotta la presenza ebraica negli altri Paesi mediorientali. Israele ha accolto ebrei provenienti da 102 diverse nazioni. Negli ultimi anni però si è verificata un'inversione di tendenza, a causa del regime oppressivo di Tel Aviv e della guerra coi palestinesi.

Dopo il 1989 molti ebrei hanno rapidamente abbandonato i territori dell'ex-URSS, dirigendosi verso Israele. All'inizio del 2019, i 9/10 dei 14,7 milioni di ebrei del mondo vivevano, in parti quasi uguali, in Israele (6,5 milioni) e in America settentrionale (5,7 milioni).

Scomparse le comunità in Asia e in Africa (salvo il Sudafrica, dove sono in 69.000), comunità di una qualche consistenza sono rimaste in Francia (453.000), Canada (390.000), Regno Unito (290.000), Argentina (180.000), Russia (172.000), Germania (116.000), Australia (113.000), Brasile (93.000), Ucraina (50.000), Ungheria (47.000), Messico (40.000), Olanda (30.000). Belgio (29.000), Svizzera (18.600). In Italia gli ebrei sono circa 27.500 e si concentrano soprattutto a Roma e Milano.

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11.9) Correnti del giudaismo

La maggior parte degli ebrei odierni discendono dagli Ashkenaziti o dai Sefarditi. “Ashkenaz” significa Germania ed è soprattutto da qui, oltre che dalla Francia e da altri Paesi eurocentrali, che provengono quegli ebrei in seguito trasferitisi in Polonia e URSS. Questo gruppo ha sviluppato la lingua yiddish (dialetto tedesco medievale) e ha prodotto una ricca cultura artistica, letteraria e musicale. Gli ebrei sefarditi provengono invece dalla Spagna (Sepharad) e qui hanno elaborato la lingua ladina (uno spagnolo popolare), allacciando stretti rapporti, prima dell'espulsione del 1492, col mondo musulmano.

Il fatto di discendere da questo o quel gruppo etno-culturale oggi non ha molto significato, perché il popolo ebraico è da duemila anni sparso in tutto il mondo. Le differenze culturali da un gruppo all'altro oggi sono enormi: si pensi al divario che separa gli ebrei falasha neri dell'Etiopia dagli ebrei indiani del Messico. È quindi più costruttivo fare riferimento alle differenze politico-religiose. In questo senso le principali sono tre: ortodossia, riformismo e conservatorismo, tutte radicate nel giudaismo rabbinico o talmudico.

Il giudaismo ortodosso si considera l'unico vero giudaismo. Durante la prima metà del sec. XIX era già un movimento ben definito, deciso a preservare il giudaismo tradizionale (classico) contro l'emergente movimento riformistico est-europeo. Praticamente è l'ala integrista del giudaismo contemporaneo. Essa accetta il rapporto col mondo laico o non ebreo solo nella misura in cui la Torah rimane salvaguardata nella sua interezza. Inutile dire che questo atteggiamento estremistico spesso copre interessi tutt'altro che religiosi. Politicamente appoggiano i sionisti e il governo di Tel Aviv. Curano molto gli aspetti scolastico-educativi. L'ala ultraortodossa è costituita dai Chassidim, che per voler restare fedeli alla “lettera” della Torah sono costretti a isolarsi quasi completamente dal mondo.

Il giudaismo liberal-riformistico (sviluppatosi soprattutto negli USA) mosse i primi passi in Germania, coll'Illuminismo, e puntò a modificare le leggi rituali, cultuali e alimentari della Torah. Tradusse le preghiere ebraiche in lingua moderna, introdusse l'uso dell'organo nelle sinagoghe, abbreviò le funzioni religiose, abolì il matroneo e dal 1970 ha istituito il rabbinato femminile. Alcuni gruppi cominciano addirittura a svolgere il culto di domenica. Questa corrente è la più progressista, sia perché considera la “rivelazione” come un processo evolutivo, sia perché dà più peso agli insegnamenti etici dei profeti che non alla legge rituale, sia perché si preoccupa di cercare un rapporto col mondo moderno e con le altre religioni. Il ramo più giovane di questa corrente è il Ricostruzionismo, che considera la religione un fenomeno culturale.

Il giudaismo conservatore sorge alla fine del XIX sec. (sempre negli USA) come reazione ai mutamenti introdotti da quello riformistico. Esso in pratica si sforza di conciliare le esigenze dei riformisti con quelle degli ortodossi. Politicamente è sionista, ma sul piano etico-religioso è più flessibile, lasciando ai singoli gruppi una relativa autonomia.

Negli USA la corrente riformista o liberale ammette l'uso di strumenti musicali nelle funzioni religiose, la lettura dei brani biblici in inglese e ha abolito il matroneo in sinagoga. Oggi in Israele i più religiosi sono gli ebrei immigrati dal Nord Africa, seguiti dagli asiatici. Nelle categorie professionali i meno praticanti sono le classi meglio qualificate (dirigenti, tecnici, liberi professionisti, ecc.).

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11.10) Israele oggi

Israele è per molti aspetti uno Stato teocratico. Il ruolo dei partiti religiosi è esorbitante rispetto ai suffragi raccolti e al seguito che hanno nel Paese. In Parlamento i compromessi fra i partiti di governo e quelli religiosi sono assai frequenti. Tuttavia, l'unica attività dei partiti religiosi, che non hanno alcun programma politico-sociale, è quella di contrattare il loro appoggio in cambio di provvedimenti legislativi clericali. In questo modo si possono imporre leggi religiose a una popolazione tendenzialmente laicista.

Il rabbinato quindi ha un potere sproporzionato. La sua più pesante interferenza nella vita pubblica riguarda la trascrizione dei matrimoni, poiché esso dispone dei registri di stato civile. Si può quindi facilmente immaginare a quali ostacoli va incontro un matrimonio misto. I rabbini pongono addirittura come condizione del rito la conversione del non-ebreo: cosa che richiede, onde evitare ogni sospetto, almeno due anni di preparazione. Ecco perché molti vanno a sposarsi in Europa col solo rito civile.

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11.11) L'Intesa ebraica con lo Stato italiano

Il 27 febbraio del 1987 (entrata in vigore nel 1989) è stata firmata, dal Presidente del Consiglio Bettino Craxi e dalla Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Tullia Zevi, l'Intesa tra la Repubblica Italiana e l'Unione delle Comunità israelitiche (definita in seguito Unione delle Comunità ebraiche italiane secondo la nuova denominazione assunta ex art. 1 L. 101/1989), a coronamento di un lungo dibattito trascinatosi per più di un decennio.

I punti salienti sono i seguenti: 1) all'ebraismo è riconosciuto il carattere di ordinamento originario della nazione italiana (l'ebraismo è la più antica confessione esistente in Italia, precedente al cristianesimo); 2) gli si riconosce piena autonomia normativa, statutaria e finanziaria, piena libertà di culto (che lo Stato s'impegna a tutelare anche in sede penale) e possibilità di partecipare alla formulazione di norme che hanno efficacia “erga omnes”; 3) l'estensione del divieto delle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio razziale alle ipotesi di discriminazione religiosa; 4) l'affermazione del principio secondo cui l'appartenenza alle forze armate, polizia, ecc., la degenza in ospedali, case di cura, ecc., la permanenza in istituti di prevenzione e di pena, non possono dar luogo a impedimenti di sorta nelle pratiche religiose; 5) infine l'obbligo di affermare il rispetto della libertà di religione in ogni disciplina scolastica, nonché il diritto degli studenti ebrei di poter studiare la loro religione nell'ambito scolastico.

In sostanza l'intesa riconosce che quella ebraica è una confessione religiosa ma che le Comunità ebraiche hanno anche la natura di formazione sociale, in quanto “istituzioni tradizionali dell'ebraismo in Italia” (art. 17). Questo consente di considerare nell'intesa anche la dimensione culturale, assistenziale, sociale e solidaristica delle Comunità ebraiche, seppure non concedendo alle relative attività i benefici propri di quelli di religione e di culto (art. 25).

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12) La grandezza degli ebrei

La grandezza degli ebrei sta nell'aver saputo ereditare in maniera intelligente tutte le religioni più importanti della loro epoca (in particolare quelle assiro-babilonesi ed egizie), modellandole secondo le loro esigenze monoteistiche e tribali.

Da queste religioni essi hanno preso molte pratiche rituali e cultuali, rivestendole però di un significato etico-sociale del tutto inedito (si veda p.es. il concetto di “patto” tra popolo e Dio, o quello di “terra promessa” ove vivere la fine della schiavitù, o quello di “eden” come luogo originario in cui la schiavitù non esisteva).

Questi aspetti “popolari”, nel senso di “a favore del popolo in quanto tale” e non nel senso di “a favore dei potenti nell'illusione di favorire il popolo”, erano aspetti assolutamente sconosciuti alle religioni delle civiltà basate sullo schiavismo.

Gli Egizi p.es. consideravano il faraone un simbolo della divinità, autorizzato, solo per questa ragione, a schiavizzare interi popoli. Lo schiavismo, in fondo, per queste religioni altro non era che il rovescio sociale dell'accentramento politico dei poteri nelle mani del monarca assoluto.

Che Mosè fosse o non fosse ebreo ha ben poca importanza. Di fatto, egli seppe venire incontro alle esigenze del mondo ebraico in cattività e si comportò come un leader politico-religioso di cultura ebraica.

Naturalmente non è neanche il caso di paragonare l'organizzazione schiavistica dei Romani, la più efficiente a quell'epoca, con quella degli Egizi, che si manifestava solo nei confronti di determinate etnie (sconfitte nelle guerre) e che non aveva un carattere così sistematico né conosceva forme di sfruttamento particolarmente feroci.

Non dobbiamo dimenticare che il libro dell'Esodo inizia descrivendo una situazione di relativo benessere da parte degli ebrei e che il capovolgimento in direzione di una dura schiavitù fu determinato da un faraone che temeva l'eccessivo diffondersi in Egitto dell'etnia ebraica.

Quando gli ebrei decisero di andarsene dall'Egitto, quest'ultimo era già caratterizzato da una fase di crisi involutiva. Sembrava essere irrimediabilmente finita l'epoca dei grandi faraoni e delle loro forme di idolatria.

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13) Breve cronistoria del moderno Stato d'Israele

Com'è noto, gli ebrei sono sparsi in tutto il mondo soprattutto a causa della grande diaspora del 70 d.C., iniziata quando l'imperatore Tito conquistò Gerusalemme, poi completamente distrutta dall'imperatore Adriano nel 135. Già prima di queste date moltissimi ebrei vivevano lontani dalla Palestina, ma solo coi Romani persero il diritto di vivere a Gerusalemme, che infatti fu chiamata Aelia Capitolina.

Gli ebrei sono stati criminalizzati per due millenni dal cristianesimo, che li ha considerati un popolo deicida, accusa eliminata solo col Concilio Vaticano II negli anni '60. In Europa gli ebrei sono stati costretti a vivere nei ghetti e obbligati a svolgere solo certe attività, sono stati oggetto di pregiudizi e di false accuse, sono stati linciati e uccisi in massa nei pogrom. Con l'avvento del nazifascismo, che promulgò le leggi razziali e affermò la supremazia dell'inesistente razza ariana, ebbe luogo la Shoah.26

Nel Medioevo gli ebrei furono particolarmente vessati dall'Inquisizione e costretti a convertirsi al cattolicesimo, per essere poi cacciati nel 1492 dal regno di Castiglia e Aragona, nel 1496 dal Portogallo, nel 1540 dal regno di Napoli e così via. Nella Russia meridionale gli ebrei Cazari arrivarono a costituire un principato durato fino all'invasione mongola del XII sec.

Secondo molti storici nei domini arabi e islamici gli ebrei si trovavano in condizioni migliori rispetto a quelle nelle nazioni europee, benché fossero obbligati a pagare una tassa speciale e non potessero muoversi liberamente.

A partire dal 1870 in Europa gli ebrei cominciarono a prendere coscienza dei loro diritti e a organizzarsi per ottenere il pieno riconoscimento politico e civile. In Russia solo col potere sovietico furono equiparati agli altri cittadini.

È in questo contesto che sorge il sionismo (da Sion, altura su cui fu fondata Gerusalemme), una corrente politico-religiosa che sostiene la costituzione di uno Stato ebraico autonomo con lo scopo di allontanare gli ebrei da persecuzioni e pregiudizi. Alla fine del XIX sec. comincia la migrazione ebraica verso la Palestina.

I sionisti ottengono buona parte della Palestina dai britannici, i quali però contemporaneamente l'avevano promessa, falsamente, agli arabi in cambio del sostegno dato da questi ultimi alla sconfitta dell'impero ottomano, che la occupava. Infatti nel 1916 gli inglesi, segretamente, avevano stipulato coi francesi l'accordo di Sykes-Picot con cui spartirsi tutto il Medio Oriente. Dalla fine della I guerra mondiale al 1948 la Palestina rimase sotto il mandato britannico: ne aveva bisogno perché il petrolio rubato all'Iraq veniva trasferito in occidente e in Africa passando per il Mar Rosso.

Un passo importante per i sionisti fu fatto con la dichiarazione Balfour del 1917, in cui è delineata la spartizione dell'impero ottomano alla fine della I guerra mondiale. Si tratta di una lettera, scritta dal ministro degli Esteri inglese Arthur Balfour e inviata a Lord Lionel Rotschild (significativo esponente della comunità ebraica inglese e del movimento sionista), in cui si sostiene che il governo britannico non avrebbe ostacolato la creazione di una sede nazionale per il popolo ebraico in Palestina, se fossero stati garantiti i diritti delle altre minoranze ivi stanziate da secoli.

Tuttavia già negli anni '20 la situazione in Palestina si era fatta esplosiva, poiché i sionisti lì trasferiti costituirono gruppi militari che organizzavano attacchi e sabotaggi contro i palestinesi residenti e contro gli stessi amministratori britannici, al fine di accelerare l'emigrazione ebraica, altrimenti sarebbe stato impossibile creare un vero e proprio Stato ebraico.

Gli stessi colonialisti britannici immaginavano che per mezzo dei sionisti avrebbero potuto continuare a controllare quella regione importantissima dal punto di vista strategico e delle risorse energetiche. Ma la situazione per loro divenne ben presto ingestibile, per cui rinunciarono al mandato colonialistico.

E così il 29 novembre 1947 con la risoluzione n. 181 l'ONU decise la spartizione della Palestina, disegnata da una commissione speciale, col voto favorevole di 33 Stati, quello contrario di 13 (tra cui la Jugoslavia che prevedeva una soluzione federativa) e 10 astensioni. Allo Stato ebraico fu assegnato il 56% del territorio, benché in molti casi gli ebrei restassero una minoranza, nonché ampie regioni disabitate e desertiche per fare spazio a quelli che sarebbero arrivati successivamente.

Ai palestinesi veniva attribuita la parte restante della regione, in cui avrebbero dovuto istituire il loro Stato. Gerusalemme sarebbe stata posta sotto il controllo delle Nazioni Unite. I britannici dovevano andarsene entro il 1° agosto del 1948.

Non solo nessun Paese islamico accettò tale soluzione, ma neppure una parte dei sionisti, poiché non volevano che si costituisse uno Stato palestinese in una terra che apparteneva, secondo loro, da tempi ancestrali agli ebrei.

Ecco perché è nata una strategia espansionistica da parte dei sionisti, che sta provocando il genocidio dei palestinesi e creando una situazione di cronica instabilità in Medio Oriente.

Lo Stato ebraico ricevette anche l'appoggio dell'URSS, che gli fornì armamenti e dette impulso all'emigrazione degli ebrei dall'Europa orientale, che in pochi anni in 300.000 raggiunsero quelle terre. La prima conseguenza di questa crescita demografica fu l'espulsione di circa 700.000 palestinesi, cui è sempre stato rifiutato il diritto a tornare nella loro patria. Dal 1948 ad oggi i palestinesi han perso tutte le guerre e sommosse varie, con conseguenze catastrofiche per la loro libertà di movimento e la loro sopravvivenza materiale.

È stato indubbiamente un grave errore da parte dell'ONU far pagare ai palestinesi, senza nemmeno consultarli, l'onere dei misfatti e delle violenze compiuti dall'occidente nei confronti degli ebrei. Semmai avrebbe dovuto essere la Germania a donare loro un lembo della sua terra a scopo di risarcimento.

Resta comunque un fatto che Israele non ha mai riconosciuto le risoluzioni delle Nazioni Unite prese a difesa dei palestinesi, per cui continua a violare in maniera arrogante il diritto internazionale, privando gli arabi delle loro case, i cui titoli di proprietà risalgono all'epoca dell'impero ottomano. E lo fa senza rispettare alcuna proporzione tra gli attacchi palestinesi e le sue reazioni militari, ampiamente sostenute dagli Stati Uniti, che si sono praticamente sostituiti al Regno Unito.

Oggi la popolazione di Gaza vive nel più grande carcere a cielo aperto del mondo. Altri palestinesi vivono in Cisgiordania. Ed entrambi i gruppi sono collocati in una sorta di bantustan tra loro incomunicabili. Creare uno Stato in queste condizioni è impossibile. Nel complesso circa 5 milioni di palestinesi vivono separati tra loro, sono privati della gestione autonoma delle loro risorse e sono controllati da uno degli eserciti più potenti al mondo.

Nella Striscia di Gaza non abitano cittadini israeliani. È stata occupata da Israele durante la Guerra dei Sei giorni (1967), sottraendola al controllo egiziano, e tenuta in stato di occupazione fino al 2005, quando Israele decise unilateralmente di smobilitare le sue colonie e ritirare i militari. Il che non vuol dire che non la controlli in modo asfissiante.

La Cisgiordania, che si estende da Gerusalemme fino alla sponda occidentale del fiume Giordano, fu anch'essa occupata da Israele nel 1967 (poi parzialmente ceduta ai palestinesi con gli accordi di Oslo del 1993). Prima della guerra era sotto il controllo del governo giordano e abitata per lo più da persone di etnia araba. Invece dopo la guerra Israele cominciò a fondarvi senza sosta insediamenti civili di coloni ebrei. Formalmente è governata dall'Autorità Palestinese, in cui prevale il partito moderato Fatah, ma Israele mantiene diversi importanti poteri, tra cui il controllo militare di buona parte del territorio.

Anche Gerusalemme est è occupata in gran parte militarmente da Israele dal 1967, ed è separata dal resto della Cisgiordania da un muro di 730 km, costruito dagli israeliani per proteggere i propri insediamenti. È militarizzata come poche metropoli al mondo (d'altra parte Israele è uno dei rarissimi Paesi occidentali ad avere un servizio di leva obbligatorio). Nella parte ovest è sede delle principali istituzioni israeliane come la Knesset (il parlamento), e di vari ministeri. Nessun governo al mondo ha qui la propria ambasciata, eccetto gli USA.

Infine è bene ricordare che Israele è uno Stato teocratico, che si è dotato di una Legge fondamentale nel 2018 secondo cui Israele è “Stato nazionale del popolo ebraico e di nessun altro”: è il luogo deputato all'autodeterminazione solo degli ebrei. I due milioni di arabo-israeliani che vivono in Israele sono cittadini di seconda categoria.

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14) Storia di Israele

Dal primo censimento romano alla distruzione di Gerusalemme

La stragrande maggioranza delle notizie che abbiamo della Palestina del I sec. proviene dai testi di Giuseppe Flavio, un militare ebreo che al tempo della guerra giudaica del 66-74 d.C. passò dalla parte dei Romani e contribuì alla disfatta del proprio popolo. A titolo di favore per i servizi resi l'imperatore Vespasiano gli permise di raccontare la storia di quelle vicende, cosa che egli fece pubblicando due volumi: Guerra Giudaica (ed. Mondadori 1982) e Antichità Giudaiche (ed. Utet 2006).

È evidente che, per questa ragione, Giuseppe Flavio non può essere considerato uno storico attendibile, sia perché odiava a morte il partito zelota, che fu il protagonista principale di quella guerra, sia perché, per poter pubblicare i propri testi, non poteva mettere i Romani in cattiva luce, almeno non più di quanto gli permettesse di fare il suo rapporto servile nei confronti di Roma.

D'altra parte anche gli Atti degli apostoli non possono essere considerati un testo storicamente affidabile, anzi, per molti versi, lo sono ancor meno di quelli di Flavio. I motivi sono semplici: i cristiani avevano in odio i capi giudei per aver fatto giustiziare il loro messia; inoltre il cristianesimo petro-paolino si poneva in netta antitesi all'ebraismo in generale, non avendo alcun interesse a realizzare una liberazione politico-nazionale della Palestina. Peraltro tutte le affermazioni di Flavio riguardanti il coinvolgimento di Cristo e del suo movimento alla lotta di liberazione nazionale, sono state in varie maniere interpolate da redattori cristiani.

Questa ricostruzione sintetica si è avvalsa soprattutto del testo di S. G. F. Brandon, Gesù e gli Zeloti, Rizzoli, Milano 1983.

*

Secondo il Vangelo di Luca la nascita di Gesù viene a coincidere col censimento ordinato dai Romani il 6 d.C., allorché la Giudea venne incorporata per la prima volta entro il loro impero. Il censimento doveva servire per la ripartizione dei tributi, cosa che porterà, di lì a poco, alla nascita del partito di opposizione anti-romana degli zeloti. Secondo invece il Vangelo di Matteo, Gesù sarebbe nato pochi anni prima della morte di Erode il Grande, che avvenne il 4 a.C.: una data importante per il popolo ebraico, in quanto dal 129 a.C., dopo essersi liberati, grazie ai Maccabei, della dominazione seleucide, gli ebrei avevano goduto dell'indipendenza nazionale.

Erode era stato odiato dagli ebrei per la sua origine idumea e per il suo filo-paganesimo, e tuttavia, sotto il suo regno, la Palestina non era stata costretta a pagare il tributo a un governo straniero né a vedere truppe straniere sul proprio territorio. Ma Erode non poteva decidere, senza il consenso imperiale romano, chi avrebbe potuto succedergli. Infatti suo figlio Archelao dovette recarsi a Roma e, proprio in quella occasione, gli ebrei si ribellarono alle truppe romane del comandante Sabino, ch'erano state inviate per mettere al sicuro l'ingente patrimonio dello stesso Erode. Gli ebrei, soprattutto i farisei e gli zeloti, volevano piena indipendenza nazionale, anche dagli erodiani.

Uno dei capi di questa sommossa era stato Giuda, figlio di Ezechia, che aveva occupato il palazzo erodiano di Sepphoris in Galilea, impadronendosi dei beni e delle armi. E come Ezechia era stato giustiziato, nel 47 a.C., dal giovane Erode, quando ancora questi era al servizio di suo padre Antipatro, prefetto del palazzo di Ircano, ultimo sovrano asmoneo, così Giuda venne fatto giustiziare, insieme ad altri duemila (crocifissi), dal governatore romano della Siria, Varo, accorso in aiuto delle truppe romane stanziate a Gerusalemme, nel 4 d. C. Poco prima di morire, Erode aveva fatto giustiziare due farisei, Giuda e Mattia, che avevano incitato il popolo a distruggere la grande aquila dorata che il re aveva fatto innalzare sulla porta principale del Tempio di Gerusalemme.

L'imperatore Augusto decise di porre la Giudea e la Samaria sotto il diretto controllo di Roma, di cui appunto il censimento del 6 d.C. doveva costituire eloquente dimostrazione, dopo che aveva constatato quanto Archelao, nominato etnarca di quei territori nel 4 a.C. (fino al 6 d.C.), non fosse all'altezza della situazione.27 D'altra parte Roma temeva enormemente che tra le due province di Egitto e Siria fosse presente un territorio, quale appunto la Palestina, in stato di aperta ribellione.

L'incarico tecnico del censimento venne affidato a P. Sulpicio Quirinio, legato della Siria, cui veniva ora annessa la provincia di Giudea e Samaria. Procuratore di Giudea e Samaria era però Coponio, che governava quella provincia con pieni poteri, ivi incluso quello delle sentenze capitali.

La reazione degli ebrei al censimento fu immediatamente ostile: un certo Giuda di Galilea (il Galaunita, della città di Gamala), appoggiato da un fariseo chiamato Saddok, provocò una rivolta, nonostante il sommo sacerdote Joazar cercasse di dissuaderli. Due figli di questo Giuda, Menahem e Eleazar, diverranno capi della grande guerra anti-romana che scoppierà nel 66 d.C. Questi rivoltosi facevano parte del partito degli zeloti, che rappresentava l'ala progressista del fariseismo. Alcuni di questi zeloti si ritroveranno nel partito nazareno del Cristo (Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13).

Il partito zelota era radicale, estremista, teocratico, non disposto a transigere sui princìpi e non alieno all'uso di strumenti terroristici e di guerriglia urbana: molto difficilmente un episodio come quello della conversione di Levi-Matteo al discepolato del Cristo, avrebbe potuto trovare posto negli “Annali” delle loro attività. Eppure proprio la presenza di elementi zelotiani all'interno del partito nazareno deve farci pensare che dopo la sconfitta degli zeloti, in occasione del censimento, chi ne raccolse l'eredità politica fu proprio quello del Cristo, anche se lo stesso partito zelote si riprenderà proprio dopo il fallito tentativo insurrezionale dei nazareni (una parte del movimento zelote confluirà anche tra gli Esseni).

Intorno al 9 d.C. a Coponio successe Marco Ambibulo, cui seguì Annio Rufo (12-15 d.C.). Intanto Quirinio, legato di Siria, aveva deposto il sommo sacerdote Joazar, contro il quale il popolo si era rivoltato, e aveva nominato Ananus (suocero del famoso Caifa dei vangeli) suo successore. L'interferenza politica dei Romani in questa prestigiosa carica religiosa era cosa del tutto inedita per i Giudei. Il successivo procuratore, Valerio Grato (15-26 d.C.), deporrà e nominerà non meno di quattro sommi sacerdoti, assegnando infine la carica a quel Caifa che risulterà protagonista principale dell'esecuzione del Cristo. Questo spiega il motivo per cui il clero del Tempio era caduto enormemente in discredito presso le popolazioni politicamente impegnate a lottare contro Roma (non a caso durante la cacciata dei mercanti dal Tempio, da parte del Cristo, nessuno intervenne per fermarlo).

Poi fu la volta di Pilato, nominato prefetto della Giudea nel 26 d.C.: vi rimase in carica fino al 36, cioè fin qualche anno dopo la morte del Nazareno. Pilato, che risiedeva a Cesarea Marittima, non era mai piaciuto ai Giudei, perché troppo arrogante. Il primo incidente diplomatico, quando egli tentò di introdurre a Gerusalemme, di notte, le insegne dell'imperatore, che i Romani già consideravano alla stregua di un dio, era avvenuto proprio all'inizio del suo mandato.

I Giudei erano ormai prossimi alla rivolta quando Pilato preferì rimuovere le immagini profane per evitare il bagno di sangue che ne sarebbe conseguito. È però probabile che Pilato avesse ordito una provocazione del genere, ch'era senza precedenti, su suggerimento di Seiano, il potente favorito di Tiberio, noto per le sue posizioni antisemite.

La seconda provocazione di Pilato è relativa al momento in cui fece esporre nel palazzo di Erode a Gerusalemme degli scudi dorati che recavano i nomi dell'imperatore e delle persone che gli avevano dedicato quegli scudi (probabilmente nell'iscrizione vi era un riferimento alla “divinità” dell'imperatore). I nobili della città protestarono presso l'imperatore Tiberio che, per evitare incidenti, ordinò di rimuovere gli scudi contestati e di farli appendere nel Tempio di Augusto a Cesarea.

Un terzo incidente lo si ebbe quando Pilato, senza consultare le autorità civili ebraiche, impiegò parte del sacro tesoro del Tempio di Gerusalemme per finanziare la costruzione di un acquedotto che avrebbe portato acqua nella città: scoppiarono delle rivolte che vennero soffocate nel sangue dai Romani.

Il quarto episodio riguardò lo stesso Gesù Cristo, preceduto dall'arresto di alcuni rivoltosi coinvolti in un'azione eversiva, di cui v'è traccia persino nei vangeli, pur sempre molto reticenti nel mostrare gli aspetti politici del Nazareno. Non dimentichiamo che Gesù fu crocifisso con altri due sediziosi e barattato con un altro ancora (Barabba). La data varia dal 29 al 33 d.C.

Infine, sotto la direzione di un loro leader, alcuni samaritani tentarono di radunarsi sul monte Garizim, a loro sacro, probabilmente per preparare una rivolta contro i Romani. Pilato prevenne la sedizione inviando l'esercito: molti samaritani vennero uccisi e i capi della rivolta furono giustiziati. Ne seguì una formale protesta dei samaritani presso Vitellio, all'epoca legato della provincia romana della Siria, che diede loro ascolto e rimandò Pilato a Roma, sostituendolo con Marcello.

Rimosso Pilato dal suo incarico, Vitellio si recò a Gerusalemme durante una Pasqua, forse quella del 36 d.C., per ripristinare l'ordine nella nazione dei Giudei. L'unica cosa che fece però fu quella di sostituire il sommo sacerdote Caifa con Jonathan ben Anano (36-37). L'anno dopo, per ordine di Tiberio, radunò le truppe a Tolemaide in vista di una spedizione punitiva contro Aretas, re di Petra. E su richiesta dei Giudei evitò di far passare le proprie truppe attraverso la Giudea. Tuttavia, quando tornò a Gerusalemme depose anche il sommo sacerdote Jonathan, sostituendolo con Theofilo ben Anano (37-41).

Intanto giunse notizia della morte dell'imperatore Tiberio: Vitellio impose agli ebrei un giuramento di fedeltà a Gaio (Caligola), nuovo imperatore (37-41 d.C.), che diede prova del suo apprezzamento per l'appoggio ottenuto, per la successione a Tiberio, da parte di Agrippa I, nipote di Erode il Grande, permettendo a quest'ultimo, nel 39 d.C., di ottenere la tetrarchia ch'era stata di Filippo, morto nel 34 d.C., insieme col titolo di re e, successivamente, anche la tetrarchia di Erode Antipa, deposto ed esiliato da Gaio in Spagna.

La luna di miele tra Roma e gli ebrei durò tuttavia molto poco. A Jamnia, sapendo che l'imperatore era ossessionato dall'idea di far accettare politicamente la propria divinità, i gentili, per ingraziarselo, fecero erigere un altare per offrirgli dei sacrifici. Gli ebrei della città reagirono immediatamente distruggendolo. Per vendicarsi Gaio ordinò al legato di Siria, Petronio, di erigere una colossale statua dorata di Zeus all'interno del Tempio di Gerusalemme, com'era stato fatto nel 167 a.C. dal re Antioco Epifane.

Petronio si recò in Giudea, nel 39-40 d.C., con un esercito di due legioni e un forte contingente di truppe ausiliarie. Intanto Agrippa era riuscito a convincere Gaio a desistere da un proposito che avrebbe provocato un massacro generale. In cambio Gaio chiedeva che le comunità di gentili presenti in Palestina potessero erigere tranquillamente qualunque altare pagano. Il suo improvviso assassinio scongiurò la ribellione armata dei Giudei.

Agrippa era abbastanza stimato dalla popolazione ebraica e persino dai Romani, tanto che il nuovo imperatore Claudio, per premiarlo della fiducia mostrata contro le follie di Caligola, gli concesse di governare anche in Giudea, il che lo portava ad amministrare un'estensione territoriale equivalente a quella dell'antico regno di Erode il Grande, anche se sotto l'egida di Roma. Claudio intanto, nel 41 d.C., fu costretto a proibire l'immigrazione di molti Giudei verso Alessandria, fuggiti da Israele per l'insostenibilità della situazione fiscale e il processo di concentrazione della proprietà.

Stando agli Atti degli apostoli, Agrippa fece assassinare Giacomo, fratello di Giovanni, e incarcerare Pietro, che fu poi fatto evadere. Prima di questi fatti era stato eliminato Stefano, che accusava apertamente i sacerdoti giudei di aver fatto giustiziare Gesù. Pietro fu sostituito, alla guida della comunità cristiana di Gerusalemme, dal fratello di Gesù, Giacomo detto “il Minore” nel Nuovo Testamento.

Avendo intenzione di consolidare il proprio regno e temendo che i Romani potessero rimuoverlo in qualunque momento, Agrippa chiedeva un appoggio esplicito da parte delle autorità giudaiche. E per questo in due occasioni si rese sospetto alle autorità romane. La prima quando tentò di ricostruire le mura settentrionali di Gerusalemme, da cui erano entrate le truppe sia di Pompeo nel 63 a.C. che di Erode e Sossio nel 37 a.C. (e da dove entreranno anche quelle di Tito nel 70 d.C.): gli venne impedito quando Vibio Marso, legato di Siria, informò del pericolo l'imperatore Claudio. La seconda occasione fu quando invitò cinque principi, vassalli di Roma, ad una riunione a Tiberiade, per rafforzare delle intese politiche nelle province orientali dell'impero.

Agrippa morì improvvisamente nel 44 d.C., quando il figlio era ancora troppo giovane per succedergli: il che indusse Claudio ad amministrare direttamente tutti i suoi territori. Solo qualche anno dopo alcune parti del regno di Agrippa, che non riguardavano la Giudea, vennero assegnate al figlio Agrippa II.

La seconda amministrazione romana fu un disastro per le sorti della popolazione ebraica. Il procuratore Cuspio Fado (44-46 d.C.), il primo succeduto ad Agrippa I, fece giustiziare Tholomaios, che aveva provocato disordini ai confini con la Nabatea e l'Idumea. Poi fu la volta di Theudas, un predicatore politico che invitava i Giudei ad attraversare il Giordano per rifugiarsi in una zona desertica della Transgiordania, da dove si sarebbero organizzati in funzione anti-romana: fu catturato e decapitato, e con lui molti altri.

Sotto il procuratore (ebreo apostata) Tiberio Alessandro (46-48 d.C.), succeduto a Fado, vennero crocifissi due rivoltosi zeloti, Simone e Giacomo (o Giacobbe), figli di Giuda il Galileo. Sempre al tempo di Tiberio Alessandro ci fu in Giudea una grave carestia, che per due anni ebbe conseguenze disastrose per buona parte della popolazione, non più in grado di pagare le tasse; e sotto il suo successore, Ventidio Cumano (48-52 d.C.), si ebbe una nuova strage di Giudei durante le feste di Pasqua, in prossimità del Tempio di Gerusalemme, semplicemente perché gli ebrei radunati nei cortili per il culto reagirono immediatamente a un gesto osceno fatto da un soldato romano di servizio sul tetto del portico del Tempio.

Il secondo incidente si ebbe quando fu assalito e depredato un servitore dell'imperatore sulla strada che conduceva a Beth-oron. Il procuratore inviò truppe a saccheggiare i villaggi vicini, arrestandone i capi. Durante le operazioni un soldato romano bruciò una copia della Torah. Gli ebrei furono così furiosi che Cumano si risolse a giustiziare il soldato.

Il terzo incidente segnò la fine del mandato palestinese di Cumano. Tutto ebbe inizio con l'uccisione di alcuni galilei, in viaggio verso Gerusalemme, da parte degli abitanti di un villaggio samaritano. I Galilei chiesero vendetta a Cumano, che però non fece nulla. Allora i Galilei chiesero aiuto ai Giudei e questi si misero al seguito di un certo Eleazar, figlio di Deinaios, del partito zelota, che riuscì a massacrare alcuni samaritani. A questo punto Cumano intervenne con la forza, eliminando molti rivoltosi giudei. I Samaritani però si rivolsero a Quadrato, legato di Siria, perché svolgesse un'indagine. Questi fece giustiziare vari giudei catturati da Cumano e inviò a Roma in catene i sommi sacerdoti Gionata e Ananias, e il comandante del Tempio, Ananus. Grazie all'intercessione di Agrippa, questi ebrei ottennero un verdetto favorevole; viceversa Cumano fu esiliato e un suo tribuno giustiziato in pubblico.

L'imperatore Claudio pensò di sostituire il procuratore Cumano con l'ex-liberto Antonio Felice (52-60 d.C.), il quale scandalizzò subito gli ebrei, sposando Drusilla, sorella di Agrippa, dopo aver costretto al divorzio il marito di lei. Subito dopo tentò di stroncare i numerosi movimenti messianici di quel periodo, e riuscì anche a catturare Eleazar, inviandolo a Roma, e a far crocifiggere molti zeloti al suo seguito, che i Romani peraltro cominciarono a chiamare col nome di “sicari”, in quanto eliminavano clandestinamente con una spada corta, in occasione di feste religiose, quegli ebrei di alto rango che collaboravano coi Romani. Fu così p. es. che uccisero il sommo sacerdote Gionata.28

Al tempo di Felice un pericoloso sovversivo di origine egiziana aveva raccolto una turba di circa quattromila persone con cui si preparava ad entrare con forza a Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Felice non si lasciò prendere di sorpresa e riuscì a uccidere quattrocento rivoltosi e a farne prigionieri altri duecento. L'egiziano riuscì a fuggire e i suoi seguaci continuarono a incitare i Giudei a far guerra contro i Romani.

Quando Nerone subentrò a Claudio, il procuratore Antonio Felice fu sostituito con Porcio Festo (60-62 d.C.), il quale si trovò subito in urto coi Giudei, non avendo fatto nulla per impedire ad Agrippa II di costruire un palazzo che dominava dall'alto il Tempio di Gerusalemme. La cosa si risolse grazie alla mediazione dell'imperatrice Poppea, e Nerone sostituì Festo con Lucceio Albino (62-64 d.C.).

Lucceio non era ancora arrivato in Giudea, quando Agrippa II aveva nominato il sadduceo Ananus sommo sacerdote, il quale, senza chiedere alcuna autorizzazione ai Romani, convocò il Sinedrio al fine di processare e far lapidare Giacomo (il Giusto), fratello di Gesù Cristo e capo della comunità cristiana di Gerusalemme. L'azione suscitò le proteste di molti uomini influenti della città e Albino, al suo arrivo, sostituì immediatamente Ananus con Joshua ben Damneo (o Damnaios) (63 d.C.).

Albino fu persona particolarmente venale e corrotta, ma il suo successore, il procuratore Gessio Floro (64-66 d.C.), fu peggio. Costui infatti era particolarmente avido (metteva mano al tesoro del Tempio) e infliggeva ingiusti castighi, manifestando apertamente il proprio disprezzo per il popolo ebraico: p. es. non si accontentava di sedare le rivolte ma dava anche ordine alle truppe di saccheggiare le città. Fu lui, dopo essere stato costretto a ritirarsi da Gerusalemme, a riferire a Cestio Gallo, legato di Siria, che la Giudea era in rivolta.

In effetti Eleazar, comandante del Tempio e figlio del sommo sacerdote Ananus, con alcuni seguaci zeloti che si opponevano a Roma e ai collaborazionisti giudei, persuase i sacerdoti sadducei, nonostante l'opposizione dell'alto clero, a interrompere il sacrificio quotidiano offerto a favore dell'imperatore e del popolo romano, che si svolgeva presso il Tempio di Gerusalemme. Era non solo una rottura tra alto e basso clero, ma anche una provocazione esplicita nei confronti di Roma.

Gli zeloti arrivarono persino a distruggere la casa del sommo sacerdote Ananias e i palazzi dei dinasti erodiani Agrippa e Berenice, e a incendiare gli archivi pubblici per impedire il recupero dei debiti (di qui il loro successo presso le componenti rurali). Occuparono anche la fortezza Antonia.

Nell'estate del 66 d.C. registriamo anche l'attacco zelota alla guarnigione romana della fortezza di Masada, presso il Mar Morto, che viene occupata dal partito degli zeloti capeggiato da Menahem, un figlio di Giuda il Galileo, per ricavare armi in abbondanza e per difendersi in una roccaforte ben costruita.

Menahem arma un suo esercito e partendo da Masada marcia verso Gerusalemme, intenzionato a diventare capo dello zelotismo: al suo arrivo, gli zeloti costrinsero addirittura le truppe di Agrippa II ad arrendersi, mentre alla guarnigione romana non restava che rifugiarsi nelle tre torri erodiane. Il sommo sacerdote Ananias e suo fratello Ezekias furono giustiziati. Ma Menhaem entrò in conflitto con i rivoluzionari di Eleazar, che, non volendo riconoscerlo come “messia galileo”, lo uccisero a tradimento. I seguaci di Menhaem tornarono a Masada, dove elessero loro capo Eleazar ben Jair, parente di Menhaem. Intanto Eleazar massacrava gli ultimi Romani rimasti in città.

Al sentire che a Gerusalemme non esisteva più alcuna guarnigione romana, scoppiarono dei pogrom antisemiti a Cesarea, Filadelfia, Gerasa, Pella, Gadara, Tolemaide, Gaza e in molte altre città del Vicino Oriente. Così nell'ottobre-novembre del 66 d.C. Gerusalemme e tutta la Palestina erano in rivolta. Il legato della Siria Cestio Gallio, su richiesta di Gessio Floro, entrò in Palestina con la XII Legione, arricchita anche da altri reparti di rinforzo, per normalizzare la situazione.

Partito da Antiochia con le sue truppe, Gallio distrugge e saccheggia alcune città della Galilea e della Samaria, incontrando scarsa resistenza, infine arriva ad assediare Gerusalemme. Qui tuttavia indugia, temendo di non avere forze sufficienti per tenere in mano un'intera città; pur essendo già riuscito ad aprire una breccia nelle mura del Tempio, ordina ai suoi soldati di ritirarsi sul monte Scopus e poi d'interrompere l'assedio. La cosa lascia stupiti gli zeloti, che però ne approfittano subito, inseguendo la legione in ritirata e distruggendone totalmente la retroguardia.

Gerusalemme rimane completamente in mano dei Giudei, che eleggono Giuseppe ben Gorion e il sommo sacerdote Ananus comandanti supremi della città liberata dai Romani, con l'incarico speciale di organizzare i lavori per l'innalzamento delle mura più esterne.

Con la disfatta della XII Legione anche il resto della Palestina tornava in mano dei rivoltosi; vengono eletti dal Sinedrio vari capi che presidiano tutte le maggiori città: proprio in questo periodo Giuseppe Flavio viene inviato a governare la Galilea, mentre Giovanni Zebedeo, con la sua Apocalisse, chiede ai giudeo-cristiani della diaspora di appoggiare la rivolta con tutte le loro forze.

Intanto a Roma l'imperatore Nerone (nel 67 d.C.) sostituisce il legato di Siria, Cestio Gallio, col generale veterano Vespasiano e lo incarica, coadiuvato da Tito, figlio di Vespasiano, di disperdere i ribelli. Il generale viene inviato ad Antiochia, la capitale della Siria, per assumere il comando delle legioni V e X. Nel frattempo Tito viene inviato ad Alessandria per condurre la XV legione dall'Egitto alla Siria e unire le sue forze a quelle del padre: in tutto tre legioni, un certo numero di coorti ausiliarie, truppe fornite da re locali, amici dei Romani, per un totale di circa sessantamila uomini.

L'attacco alla Palestina avviene da nord, come già aveva tentato Cestio Gallio. Le truppe romane prima danno man forte alla città di Sepphoris, la più grande della Galilea, che era rimasta fedele a Roma. Poi attaccano tutte le altre città della Galilea in mano ai ribelli giudei, bruciando ogni cosa, trucidando tutti i giovani e riducendo gli altri in schiavitù. Giuseppe Flavio, dopo un tentativo di resistenza nella città di Jotapata, è costretto a fuggire e infine si consegna ai Romani in cambio della vita e della promessa di aiutarli contro gli zeloti.

Mentre Vespasiano si assicura, non senza qualche rovescio di entità limitata, il controllo delle città della Galilea, a Gerusalemme il partito degli zeloti, appoggiati dagli Idumei, mette a morte molte personalità influenti della città, accusate di collaborare coi Romani (il tradimento di Flavio aveva avuto un certo peso su queste accuse): anche il sommo sacerdote Ananus, che si era opposto agli eccessi dell'estremismo zelota, viene giustiziato dai rivoltosi. Intanto la comunità monastica di Qûmran, presso il Mar Morto, viene completamente distrutta dai Romani nel 68 d.C. Di essa si ritroverà la biblioteca solo nel 1947.

Nel corso di questi eventi e mentre Vespasiano si preparava a marciare per assediare Gerusalemme, giunse notizia che a Roma Nerone era morto e Galba gli era succeduto. Ma dopo circa sette mesi soltanto, Galba venne ucciso e salì al trono il suo rivale Ottone. Dopo poco tempo Vitellio, che era stato legato della provincia di Siria, s'impadronì del potere a Roma e la situazione divenne caotica. Di questa situazione gli ebrei non seppero approfittare per stringere alleanze con forze straniere.

Nel luglio del 69 d.C. Vespasiano viene nominato imperatore e quindi ritorna a Roma per assumere la carica, sicché le operazioni militari rimangono sotto il comando del figlio Tito. Il 69 d.C. passò alla storia come l'anno dei quattro imperatori: Galba, Ottone, Vitellio e, infine, Vespasiano, che prevalse sugli altri.

Tito raccoglie le tre legioni precedentemente comandate dal padre, aggiunge a queste la ricomposta XII Legione e, attraversando la Samaria, raggiunge abbastanza facilmente la zona di Gerusalemme. All'interno della città il potere è detenuto da almeno tre capi zeloti: Giovanni, figlio di Levi, detto anche Giovanni di Gischala, un galileo ch'era fuggito dalla sua terra al tempo della conquista di Vespasiano: ora governava il centro della città; Simone, figlio di Ghiora, che presidiava la cinta esterna e infine Eleazar, che gestiva il Tempio.

All'inizio la scarsità di viveri fece nascere alcune contese tra i vari partiti. Giovanni, fingendo di offrire un sacrificio, mandò uomini a massacrare Eleazar e i suoi, impadronendosi così del Tempio. La città si divise allora in due fazioni.

Gerusalemme a quel tempo aveva ben tre cinta di mura che erano state rinforzate e ulteriormente protette durante i mesi in cui i Giudei avevano controllato indisturbati la città: non sarebbe stato facile conquistarla. Intanto Giuseppe Flavio, che si trovava al seguito dell'esercito di Tito, teneva discorsi vicino alle mura della città per convincere i suoi connazionali ad arrendersi e a disertare dalla guerra, voluta, secondo lui, dal partito estremista degli zeloti.

I Romani, forti della loro esperienza di assedio delle città, impedirono agli abitanti di fuggire e li costrinsero alla resa per fame. Giovanni di Gischala venne catturato e imprigionato a vita; Simone figlio di Ghiora, un altro capo zelota, sarà giustiziato durante le celebrazioni della vittoria sui Giudei. Dopo il Tempio, anche il resto della città di Gerusalemme venne abbondantemente distrutto e dato alle fiamme: le mura della città furono completamente rase al suolo tranne alcune torri strategiche. I morti furono centinaia di migliaia: soltanto i prigionieri portati a Roma furono 97.000. Giuseppe Flavio parla addirittura di 1,1 milioni di morti, su una popolazione complessiva di circa 2,5 milioni. Tacito sostiene che i morti a Gerusalemme furono circa 600.000.

Chi descrisse con dovizia di particolari tutte queste cose fu Giuseppe Flavio, il quale però non fa mai alcun riferimento al movimento nazareno o cristiano. Anzi nei suoi testi tutti i riferimenti al Cristo o ai cristiani sono chiaramente interpolati, per cui essi non hanno alcun valore per riuscire a capire il contenuto politico del messaggio del Nazareno e dei suoi seguaci, né il ruolo che i cristiani ebbero nel corso della guerra giudaica. Si può soltanto presumere che, proprio in forza di quelle manomissioni, il messaggio del Cristo non era affatto di tipo etico-religioso come la Chiesa cristiana ha sempre voluto far credere, a partire dalle tesi petro-paoline.

Non è infatti da escludere che Flavio vedesse i cristiani della prima ora in cattiva luce, proprio in quanto all'interno del movimento nazareno vi erano sicuramente degli elementi provenienti dall'area zelota. Sicché le interpolazioni cristiane nei suoi scritti possono anche essere intese nel senso che Flavio parla bene non del “Gesù storico” ma del “Cristo della fede”, proprio perché nelle parti omesse dai cristiani ne parlava politicamente male.

È interessante tuttavia osservare che, secondo la tradizionale storia della Chiesa, durante la guerra del 66-74 i cristiani fuggirono a Pella, oltre il Giordano, evitando così di compromettersi con la rivolta. Come noto i Sinottici (Mc 13,1-36; Mt 24,1-51; Lc 21,5-28), scritti dopo il 70, contengono riferimenti alla distruzione del Tempio e alla guerra giudaica, fatti passare come eventi profetizzati dal Cristo. In ogni caso la comunità cristiana di Gerusalemme scomparve definitivamente dopo il 70 e nessuno dei suoi documenti ci è stato conservato (le lettere di Paolo, pur essendo state scritte prima, non contengono alcun riferimento alla storicità del Cristo e del movimento nazareno).

Negli anni successivi alla distruzione del Tempio, fino al 74 d.C. le operazioni di rastrellamento e di distruzione dei centri di resistenza dei ribelli continuarono con l'assedio e l'assalto alle fortezze di Masada, Macheronte, Herodium... Erano infatti rimaste attive delle roccaforti o delle fortezze in mano ai Giudei. Uno degli ultimi episodi della guerra giudaica fu l'assedio e la conquista della fortezza di Masada, avvenuto verso il 74 dopo Cristo. Quando i Romani riuscirono a prendere e ad entrare nella cittadella fortificata, trovarono che i soldati ebrei avevano ucciso tutte le donne e i bambini e si erano suicidati tutti quanti per non subire l'onta di cadere nelle mani del nemico (i morti furono 960). Gli ultimi zeloti rifugiatisi in Egitto furono sterminati.

Al tempo di Traiano, tra il 115 e il 117 d.C., si ebbe una seconda rivolta dei Giudei, questa volta della diaspora. La repressione romana fu violenta e secondo le cronache provocò centinaia di migliaia di morti. Eusebio riporta anche che a Cirene il leader locale Andrea (o Lukuas) venne acclamato come Messia dalla popolazione.

Una ribellione dei Giudei ancora più grave ebbe luogo nel periodo 132-135 d.C., al tempo in cui l'imperatore Adriano aveva deciso di intraprendere una politica di massiccia ellenizzazione e romanizzazione della Palestina, che culminò con due provvedimenti gravissimi per i Giudei: la proibizione della circoncisione sia ai pagani che ai Giudei e la decisione di ricostruire la città santa di Gerusalemme col nome di Aelia Capitolina.

Scoppiò così una guerra tra Giudei e Romani, l'ultimo grande conflitto che richiamava la grande aspettativa messianica giudaica. Capo della rivolta anti-romana questa volta fu Simon bar Koseba, un leader che il rabbino Aquiba, un esponente molto importante dell'ebraismo di quel tempo, aveva addirittura riconosciuto come Messia. Simon bar Koseba era chiamato anche Simon bar Kokhba, un nome di battaglia messianico che significava “figlio della stella”, secondo la profezia di Nm 24,17.

Dopo un anno dall'inizio della rivolta l'esercito giudaico aveva completamente annientato almeno una legione romana, forse due. In Palestina non c'erano più truppe romane, Gerusalemme era stata conquistata ed era stata insediata un'amministrazione ebraica. La rivolta arrivò a un passo dal successo e fallì principalmente perché a bar Kokhba vennero meno i suoi alleati.

Secondo un suo disegno grandioso, le truppe avrebbero dovuto ricevere il sostegno di forze provenienti dalla Persia, dove risiedeva un gran numero di ebrei che godevano del favore della casa regnante. Ma proprio nel momento in cui Simon bar Kokhba aveva più bisogno del loro aiuto, la Persia subì l'invasione di tribù bellicose scese dalle montagne del nord, che richiese l'intervento dei soldati persiani e lasciò Simon privo dell'aiuto sperato.

Intanto in Siria, fuori dei confini della Palestina, i Romani si riorganizzavano sotto la guida dell'imperatore Adriano, che aveva come comandante in seconda Giulio Severo, in precedenza abile governatore della Britannia. L'esercito romano composto di dodici legioni, per un totale di circa ottantamila soldati, invase di nuovo la Palestina e con una tattica a tenaglia costrinse bar Kokhba a rifugiarsi a Beitar, il suo quartier generale, a pochi chilometri da Gerusalemme (135 d.C.).

La seconda rivolta giudaica fu così ancora una volta repressa nel sangue, Gerusalemme, già abbondantemente distrutta al tempo della prima guerra giudaica, venne completamente spianata e divenne colonia romana col nome di Aelia Capitolina. Agli ebrei fu persino proibito di entrare nella nuova città, ricostruita completamente secondo il modello greco, e nel luogo dove sorgeva l'antico Tempio, distrutto dalle truppe di Tito e mai più ricostruito, venne eretto un Tempio in onore di Giove.

La guerra del 132-135 d.C. segnò la fine delle speranze messianiche del giudaismo e la scomparsa di tutta la tradizione apocalittica giudaica. Da quel momento l'ebraismo verrà a coincidere con il rabbinismo di tradizione farisaica, che sostanzialmente è rimasto fino ad oggi.

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15) Storia della corruzione del Tempio

Gli storici greci Ecateo e Aristea che visitarono la Palestina al tempo della restaurazione, intorno al 300 a. C., rimasero profondamente colpiti dallo sfarzo che accompagnava le apparizioni in pubblico del sommo sacerdote, e dal numero spropositato di oltre 700 sacerdoti che prestavano servizio al Tempio.

Tutti erano chiamati a compiere sacrifici sia a livello comunitario, sia a livello privato. Naturalmente, con il tempo, i tributi raddoppiarono, quando non triplicarono.

Esisteva anche una decima per i poveri, da versare soltanto ogni tre anni, in quanto la Palestina pullulava di gente di misere condizioni, la cui povertà crebbe ulteriormente tra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo.

I sacerdoti si appropriavano della decima parte “del raccolto e dei frutti degli alberi”, “di montoni e di pecore e di tutti i prodotti della pastorizia”. Per chi non pagava in natura, era prevista “una quinta parte aggiuntiva”. Una voce significativa nel complesso delle entrate del Tempio di Gerusalemme era rappresentata dalle imposte. Già nell'Antico Testamento viene fatta menzione del denaro versato alla “tenda dell'incontro”, per espiare colpe di natura religiosa.

Il Tempio riceveva entrate anche in conseguenza di voti e di tutte le eventuali offerte sacrificali che avevano luogo in ogni momento dell'anno.

Anche i re d'Israele, la cui residenza era collegata alla casa di Jahvè da una porta (e lo resterà, senza sostanziali mutamenti, per quasi quattro secoli), facevano omaggi al Tempio di Salomone, ma non mancavano di attingere alle casse di questo edificio di culto, la cui ricchezza costituì sempre un forte stimolo ai saccheggi dei sovrani di turno, israeliti e non (anche Nabucodonosor vi mise le mani). Occasionalmente pervennero al Tempio offerte da parte di sovrani stranieri (p. es. i principi di Adiabene).

Comunque erano soprattutto le schiere innumerevoli dei pellegrini ad arricchire i sacerdoti con le elemosine prescritte. Al tempo dei re, ogni ebreo maschio doveva recarsi tre volte l'anno al Tempio. Dopo la diaspora era possibile fare offerte unicamente nei luoghi in cui sorgevano appositi magazzini per lo stoccaggio dei tributi e delle elemosine.

Durante la Pasqua si recava a Gerusalemme un numero di pellegrini doppio degli abitanti della città, e le imposte pagate per avere un banco presso il mercato che si teneva nello spazio antistante il Tempio, finivano nelle tasche del sommo sacerdote.

A Gerusalemme si tenevano anche altri mercati: della frutta, del grano, del legno, del bestiame, e persino una vendita all'incanto di schiavi.

Alcune offerte (in natura o in denaro), come quelle per la pace o per l'espiazione di una colpa o di un peccato, se ritenute particolarmente sante, finivano del tutto, o in parte, nelle casse del clero.

Più di un milione di Giudei, dispersi dalla diaspora, per tutta la durata del secondo Tempio (ma anche, in parte, dopo la sua distruzione), continuarono a inviare denaro in Palestina. Quasi ogni città aveva una cassa per la raccolta del “denaro sacro”. Da alcune terre, come Babilonia o l'Asia Minore, affluiva tanto denaro da attirare non solo i predoni, ma anche le autorità romane.

I santuari ebraici svolgevano addirittura la funzione di banche, utilizzando le loro cospicue ricchezze per fornire prestiti effettuati a un tasso d'interesse corrispondente a quello vigente nei Paesi confinanti: il 12% nell'Egitto dei Tolomei, dal 33% al 50% in Mesopotamia, ecc. La Bibbia, naturalmente, tace di tutto ciò.

Lo storico ebraico Flavio Giuseppe documenta nei dettagli l'avidità dell'alto clero che si rifiutava di riconoscere la legittimità agli altri templi dedicati al culto di Jahvè, come quello di Geroboamo a Bethel (un tempio statale analogo a quello di Gerusalemme), o i due santuari al di fuori della Palestina, quello di Elefantina e di Leontopoli, o quello di Samaria. Si trattava, peraltro, di luoghi di culto in grado di esercitare una forza di attrazione che, soprattutto per quanto concerneva i Giudei allontanati dalla diaspora, era modesta.

Il basso clero, invece, viveva in condizioni d'indigenza, doveva versare la decima parte delle offerte e non poteva fare con certezza affidamento sul resto, spesso preda di ladri senza scrupoli. Al tempo di Neemia, allorché vi erano 4289 sacerdoti, ripartiti in 24 classi, le entrate del Tempio erano così ingenti che si dovettero costruire in altre città nuovi magazzini per le scorte.

Neemia stesso esigeva “annualmente la terza parte di una moneta d'argento per il mantenimento della casa di Dio”, “legna da ardere per il tempio del Signore”, “i primi prodotti dei campi e primi frutti degli alberi... i nostri primogeniti e primi nati del nostro bestiame”, e via dicendo.

È naturale che, col tempo, s'allargò progressivamente la schiera dei nemici di questo clero ricco e potente che, a partire dal periodo dei re, aveva fatto in modo di definire i propri privilegi fin nei minimi dettagli. Con questo clero ebbero rapporti molto tesi i leviti, che svolgevano l'ufficio di cantori, guardiani delle porte e amministratori del Tempio, di servitori dei sacerdoti e a volte di loro rappresentanti.

Il popolo sfruttato si rifiutava di pagare ai leviti le decime sul grano e sul vino, mentre i sacerdoti, a partire dall'età ellenistica, cominciarono a prelevare una parte delle decime spettanti ai leviti, per accrescere la propria ricchezza ormai divenuta proverbiale.

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16) Ebraismo e cristianesimo: due forme di ateismo?

Il massimo dell'ateismo possibile, restando nell'ambito della religione (e del monoteismo in particolare), è quello di equiparare un uomo a (un) dio.

È noto che sia l'ebraismo che il cristianesimo sono due forme di ateismo rispetto all'ingenuo politeismo pagano: l'uno rende dio totalmente nascosto (o comunque percepibile solo in via del tutto eccezionale, in forme assai particolari, come accadeva ai patriarchi, a Mosè e ai profeti); l'altro lo rende sì visibile ma solo in Cristo, e tutti gli esseri umani devono passare attraverso di lui per avere un'esperienza della divinità. L'ateismo ebraico viene garantito, in un certo senso, dal monoteismo assoluto; nei cristiani invece viene garantito dal fatto che solo nel suo figlio unigenito dio può rivelarsi.

Esiste quindi nel cristianesimo una sorta di materializzazione umanistica di dio ovvero di autorappresentazione antropologizzata della divinità: non a caso i teologi parleranno subito di «dio incarnato» (quale prototipo dell'umanità), dando così origine a una sorta di «bi-teismo», che poi diventerà «tri-teismo», quando s'introdurrà lo Spirito Santo nell'economia salvifica, quale terza persona della trinità (la femminile «sophia», l'aspetto non istituzionalizzato della fede, in quanto «lo spirito soffia dove vuole»).

La divinità resta anche nel cristianesimo una realtà esterna all'uomo (seppure in forma meno assoluta), essendo l'uomo votato comunque al male, incapace di compiere il bene con le sole sue forze, a causa del peccato d'origine. Il fatto di voler accettare una presenza divina come forma estrinseca all'essere umano induce tutte le religioni, e quindi anche il cristianesimo, a non credere possibile una autenticità terrena. L'uomo deve semplicemente vivere di fede, confidando nella grazia divina che salva. La salvezza terrena è solo spirituale, poiché la morte, essendo inevitabile, rimanda all'aldilà la necessità di vivere secondo una piena libertà, materiale e spirituale. Nella propria mistificazione il cristianesimo considera la morte il principale effetto negativo del peccato d'origine, superiore alla stessa schiavitù sociale.

Una volta rotto con l'ebraismo, il cristianesimo petro-paolino rifiutò di abbracciare il politeismo pagano, in quanto lo riteneva una forma ingenua di superstizione, che arrivava ad attribuire caratteristiche divino-umane alla stessa persona dell'imperatore. Il cristianesimo affermò da subito che solo una persona poteva essere equiparata alla divinità, Gesù Cristo, il cui corpo, una volta sepolto, si diceva fosse «risorto». Il massimo dell'ateismo possibile, in ambito cristiano, conservando il monoteismo ebraico, era quello di dire che esisteva un dio-padre e un dio-figlio (poi divenuto tri-teismo: una medesima natura in tre persone divine).

L'islam, che non possiede il concetto triadico perché ha rifiutato quello diadico, non ha fatto che semplificare al massimo l'ebraismo, rinunciando, di questo, ad alcuni fondamentali aspetti simbolici che mediavano il rapporto uomo/dio. Ha potuto farlo proprio perché in mezzo, storicamente, c'era il cristianesimo, che aveva già svolto l'opera di semplificazione dell'ebraismo, superandone il limite del nazionalismo etnico (l'universalismo ebraico, ereditato dall'islam, non è che un etnocentrismo allargato, in cui quasi non si distingue nello Stato la funzione civile da quella religiosa).

L'umanesimo laico, in tal senso, ha fatto un passo ulteriore, affermando che l'unico dio esistente è lo stesso essere umano, artefice del proprio destino. Se vogliamo considerare Cristo un prototipo dell'uomo, dobbiamo anche affermare che il Nuovo Testamento è una mistificazione religiosa del suo messaggio laico e politico.

Oltre a ciò bisogna dire che nessuna religione è in grado di affermarsi in maniera universale, proprio in quanto è la religione in sé che implica una visione particolare dell'esistenza, soggetta a dogmi in cui bisogna credere per fede. Solo l'umanesimo laico, poggiando su valori umanamente riconosciuti, può aspirare a diventare una concezione universale dell'umanità.

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17) Conclusione

I giganti e gli esseri umani. Favola per i figli senza Dio

Ci fu un tempo in cui un popolo (quello ebraico) scrisse che l'uomo e la donna erano stati fatti a immagine e somiglianza dei loro creatori.

In quel “facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza” non c'era nulla di extraterreno, nulla di magico o di individuale. L'essere umano, maschile e femminile, era stato creato da altri esseri umani come loro, che volevano mettere a disposizione dei loro figli i loro poteri di creazione e di generazione, di produzione e di riproduzione.

Gli antichi ebrei, dopo aver perduto l'esatta memoria di questi progenitori della specie umana, li chiamarono “giganti”.

I giganti non morivano come noi oggi, e neppure gli esseri umani creati da loro, ma dopo la colpa d'origine, che distrusse l'innocenza primordiale, subentrò la morte. Gli uomini non potevano più guardare in faccia chi li aveva generati. I figli si vergognavano di guardare in faccia i loro padri e le loro madri. E, per poterli rivedere, dovevano prima morire.

Per poter capire quel che erano stati, gli uomini dovevano smettere di essere quel che non erano. Solo così potevano ridiventare se stessi. La morte non fu soltanto la punizione per una grave colpa commessa, fu anche il solo modo per avere la possibilità di pentirsi e di tornare ad essere quel che si era: felici e immortali.

Poi fu la dimenticanza a portare a credere che esistesse un creatore così potente d'aver creato l'intero universo e che questo creatore si chiamasse “Dio”, dotato di superpoteri, sconosciuti agli uomini.

E non solo la dimenticanza portò a esagerare, ma anche la convinzione d'aver perduto in maniera irreparabile qualcosa di fondamentale per la propria esistenza. La nostalgia del passato e l'orgoglio del presente ci fecero come impazzire.

Ma all'inizio non fu così. Gli stessi ebrei antichi ricordavano che il creatore e la sua donna creatrice passeggiavano nel giardino insieme agli uomini e alle donne che avevano generato. E anche questi si riproducevano, ben prima della colpa che spezzò l'unione primordiale.

Fu un errore pensare che l'innocenza degli uomini primitivi voleva dire guardare le proprie nudità come i bambini. L'innocenza non era tanto una questione del corpo, ma una questione della mente, una forma d'interiorità spirituale: vivere la propria libertà nel rispetto di quella altrui.

L'uomo poteva guardare in faccia chi l'aveva generato perché tra i due non vi era molta differenza. Solo una pura e semplice questione di tempo, perché esiste sempre un prima e un dopo. E forse neppure questa, poiché nell'universo l'infinito e l'eterno coincidono.

L'idea di “Dio” è stata inventata dagli uomini quando si è perso il ricordo del familiare rapporto dei figli coi loro padri.

Gli esseri umani non provengono dagli animali. Sono gli animali che provengono dall'essere umano universale, da quei “giganti primordiali” che la fantasia umana ha creduto di poter scorgere, nascosti, dietro quel “facciamo”. Ogni animale ha una caratteristica umana accentuata. L'animale ha un particolare che ha preso il sopravvento sugli altri: i felini, p. es., han trasformato le nostre torce in occhi per la caccia notturna, i nostri coltelli in unghie affilate per catturare le prede.

Quando i “giganti” si sono stancati di “giocare” con gli animali, creandone di specie infinite, hanno generato gli esseri umani, con cui non potevano semplicemente giocare, poiché l'uomo e la donna furono dotati di una caratteristica sconosciuta agli animali, la stessa che avevano i “giganti”: la libertà di scelta, cioè il fatto di poter dire di no anche a una cosa giusta, a una decisione d'importanza vitale.

Coloro che ci hanno messo al mondo sono uomini e donne come noi, che avrebbero voluto renderci partecipi dei loro poteri se non avessimo rotto i rapporti con loro.

I poteri dovevano servirci per rendere l'universo bello come la Terra, che doveva fungere da modello per tutti gli altri pianeti. Un compito di una grandezza immensa, com'è immenso l'universo.

Ora non ci resta che imparare dai nostri stessi errori, pagando di persona e come specie. L'obiettivo è lo stesso, ma lo dovremo raggiungere seguendo un percorso accidentato, molto più difficile e col rischio di smarrire la “diritta via”.

Il modello umano da diffondere nel cosmo è quello dell'uomo primitivo, non “civilizzato”: l'opposto di quello che la storia vede a partire dalle civiltà schiavistiche. L'uomo preistorico è stato quello che ha vissuto più di ogni altro essere umano, quello che ha meglio rispettato la natura, quello che viveva in maniera più sana, più giusta, più libera, quello che non divideva la società in liberi e schiavi, in forti e deboli, in superiori e inferiori...

Noi dobbiamo tornare ad essere primitivi, per uscire definitivamente dalla “civiltà”. Solo così potremo ritrovare chi ci ha creati e riprendere il cammino là dove si era interrotto.

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1 Da notare che lo studioso Hupfeld individuò un “secondo elohista” risalente al periodo della schiavitù babilonese.

2 Le datazioni, anche dei singoli libri, sono sempre incredibilmente complicate. Prendiamo come esempio il libro della Sapienza. Stando all'Introduzione di una Bibbia (ed. San Paolo, 2009) sarebbe stato scritto nella stessa epoca in cui è nato e vissuto Cristo, di cui però l'autore non sa nulla. Già nel 400 san Girolamo attribuisce la Sapienza a Filone di Alessandria (20 a.C. - 50 d.C.), il quale, pur essendo contemporaneo di Gesù, non lo cita mai. La stessa attribuzione la troviamo nel 1270 in san Bonaventura, dottore della Chiesa. Nel 1967 il biblista Giuseppe Scarpat (in “Rivista Biblica”, 15, pp. 170-189) indica come data di composizione del libro un periodo compreso dal 30 a.C. al 40 d.C. Nel 1974 la Bibbia della CEI decide invece che la data di stesura va dal 120 all'80 a.C. (ed. UELCI, pag. 643). Questo perché sarebbe stato molto sconveniente che il testo di un autore coevo al Cristo non avesse mai parlato di “resurrezione”. Tuttavia, nel 1979 il biblista David Winston, nel saggio The Wisdom of Solomon (New York), ribadisce come data finale della Sapienza il periodo dell'impero di Caligola (37-41 d.C.). Nel 1988, nell'introduzione a Il libro della Sapienza di G. Ravasi (ed. Dehoniane, p. 26) viene detto con un certo imbarazzo: “Per una serie di ragioni interne oggi gli studiosi sono sempre più convinti che ci si debba orientare verso una data precisa, il 30 a.C.”. Di nuovo però nel 1992 la “Rivista di Filologia e di Istruzione Classica” accoglie il terminus ad quem indicato da G. Scarpat. Nel 2002, nella Facoltà Teologica di Firenze si insegna che il libro è stato redatto alle “soglie del 1° sec. d.C.” (Prof. Luca Mazzinghi, ordinario di Sacra Scrittura). Alcuni anni dopo, nella stessa facoltà teologica: “la datazione è generalmente posta intorno all'era cristiana tra il 30 a.C. e il 37 d.C.” (Prof. F. Belli, Introduzione alla Sacra Scrittura e greco biblico]. Nel 2004 don G. Bellia e don A. Passaro (Facoltà teologica di Palermo), ne Il Libro della Sapienza tradizione, redazione, teologia si spingono ad abbracciare la tesi di J. J. Collins (1977): “Il libro poté essere stato scritto in un periodo compreso tra il 30 a.C. e il 70 d.C.”. Nel 2008 la nuova Bibbia CEI indica una nuova data di Sapienza: tra il 50 e il 20 a.C. (ed. UELCI), cioè mezzo secolo dopo rispetto alla precedente Bibbia CEI del 1974. L'anno dopo La Bibbia (ed. san Paolo), nell'introduzione al libro Sapienza, assegna questa data: “tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I d.C. A confermarlo ci sarebbero le allusioni alla situazione storica del tempo, gli influssi filosofici (...) e letterari greci”.

3 Su questa difficoltà peraltro s'innesta la strumentalizzazione da parte dell'ideologia religiosa: il secondo racconto della creazione degli esseri umani si sovrappone al primo perché voluto dal clero.

4 Adamo avverte, ad un certo punto, il bisogno di dare un nome agli animali perché si sentiva solo. Cioè il bisogno di dare un nome (un significato alle cose) partiva da una perdita d'identità. Le cose, per lui, non erano più significative come prima. Il linguaggio astratto è stato dunque il frutto di una debolezza ontologica (vissuta anzitutto a livello individuale). E l'uomo ne era consapevole, poiché il rapporto con gli animali non è appagante. Solo il rapporto con Eva libera, temporaneamente, Adamo dall'angoscia esistenziale e dall'illusione di aver trovato il senso nelle cose mediante il linguaggio.

5 Da notare però che in una qualunque altra tradizione culturale, relativa all'epoca in cui è stato scritto il racconto del Genesi sulla caduta, un trasgressore della legge come Adamo sarebbe stato certamente punito con la morte (posto che il sovrano avesse considerato reato grave il cogliere “mele” da un determinato albero). L'autore del racconto doveva invece essere favorevole a una forma di pena rieducativa, che implicasse il recupero del colpevole (che però nel racconto non avviene in maniera integrale, in quanto il paradiso è “perduto” per sempre). Singolare è il fatto che l'autore è anche contrario a usare la sentenza capitale nei confronti dell'assassino Caino. Sotto questo aspetto, e messo in relazione al suo tempo, il racconto ha dei contenuti decisamente democratici e innovativi. Ciò che con esso si vuole evitare è l'idea che, nei confronti dei reati umani, si possa compiere una sorta di giustizia sommaria, ovvero l'idea secondo cui l'unico modo per ottenere giustizia è quello di esigere una vendetta, un risarcimento pari al danno arrecato.

6 Nella Politica (I, IV) Aristotele fonda la schiavitù sul presupposto che le differenze tra gli uomini sono originarie e non sociali, per cui chi è destinato a lavorare lo è anche a essere dominato. Il lavoro nel mondo greco-romano non è una forma di realizzazione personale, di espressione della personalità umana.

7 Nella loro esperienza di liberazione gli ebrei hanno prodotto una cultura di inestimabile valore. Il fatto stesso che il cristianesimo sia di derivazione ebraica la dice lunga: la rinuncia al concetto di “nazione eletta” in fondo nasce proprio all'interno del fariseismo di Paolo di Tarso.

8 Senza poi considerare che per i cattolici il martirio del Cristo fu addirittura da lui “desiderato”, proprio allo scopo di togliere l'ira di Dio che pesava sugli uomini dal giorno del peccato originale. Non sono forse i vangeli che a più riprese sostengono che il Cristo “doveva” morire?

9 Da notare però che i testi lasciano trasparire l'idea che il sacrificio della dignità di Sara era dipeso dal rischio che, a causa della sua bellezza, potessero sottrarla con la forza al marito, anche uccidendolo.

10 Anche quella di Kierkegaard è del tutto fuori luogo. In Timore e Tremore egli si serve del dramma di Abramo (di cui non ha capito l'intreccio tra colpa morale e interesse politico) per giustificare la sua rottura col mondo sociale e l'insegnamento. Abramo – secondo Kierkegaard – non può essere capito dalla massa perché vive un rapporto speciale con l'Assoluto. Apparentemente sembra un assassino, invece egli compie soltanto un sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il dramma di Abramo è che non può comunicare a nessuno la sua angoscia. Kierkegaard si identifica in Abramo come nel trattato sull'Angoscia lo farà con Adamo, ma in entrambi i casi stravolgendo completamente il senso dei racconti.

11 Da notare che gli anni che si attribuiscono nella Bibbia ai vari personaggi non hanno molto senso storico e bisogna interpretarli.

12 A dir il vero vi sono altri racconti in cui gli ebrei manifestano di credere in una vita ultraterrena: il mancato ritrovamento dei corpi di Mosè e di Elia e l'impressionante descrizione degli scheletri che si ricompongono nel cap. 37 di Ezechiele.

13Il lutto o il digiuno imposto anche agli animali (3,7 s.) era un'usanza che praticavano gli Assiri nell'VIII sec. (ereditata dai Persiani). Sarebbe stato inconcepibile per un ebreo mettere sullo stesso piano uomo e animale. Qui il testo vuol far vedere che i Niniviti non erano più in grado di capire chi li aveva messi al mondo.

14Non si capisce però perché faccia crescere questa pianta quando Giona è già riparato dalle frasche. Qualche manipolatore ha invertito dei versetti? Si doveva far vedere, nel dialogo tra i due, che cosa Dio era in grado di fare?

15Difficile non vedere nel racconto evangelico del figliol prodigo un riferimento significativo a questo testo.

16Il racconto evangelico della tempesta sedata, in cui Cristo dorme beato nella barca sballottata dalle acque del lago di Galilea, mentre gli altri discepoli sono tutti preoccupati, ha un chiaro riferimento alla vicenda di Giona.

17Paul Murray sostiene che questo libretto sia quello dal quale abbiamo più da imparare in questo terzo millennio (In viaggio con Giona. La spiritualità dello sconcerto, ed. san Paolo, Cinisello B. 2006). Ma si veda anche Klaus Heinrich, Parmenide e Giona. Quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia, ed. Guida, Napoli 1987.

18Singolare che la Chiesa cattolica abbia deciso di farne un santo, ma forse non più di tanto, visto che la sua storia viene narrata in un giorno importante per il calendario ebraico, lo Yom Kippur, e anche nel Corano appare come un profeta di Allah.

19 Le religioni del mondo antico, ed. Teti, Milano 1983, p. 113.

20 Ebrei significa “colui che è al di là”: così venivano chiamate in Palestina le popolazioni provenienti da oltre l'Eufrate.

21 Si consiglia anche la lettura delle opere dell'orientalista Giovanni Garbini, in particolare Mito e storia nella Bibbia (ed. Paideia, Brescia 2003); Scrivere la storia di Israele (ed. Paideia, Brescia 2008); Storia e ideologia nell'Israele antico (ed. Paideia, Brescia 1986).

22 Il che però non spiega perché la Scrittura riporti pure fatti orrendi, vergognosi e ben poco lusinghieri per il popolo ebraico (come p.es. tradimenti, assassinii ed eccidi di massa), senza escludere sanguinose sconfitte. Peraltro, considerando che gli ebrei sono l'unico popolo totalmente alfabetizzato dell'antichità, nonché autentici grafomani, appare strano che non si sia potuto controllare l'attendibilità di certi testi. Vien da pensare che siano state superiori esigenze politiche a sacrificare la verità storica.

23 A dir il vero alcuni di questi comandamenti sono di derivazione egizia: un'epitome delle antiche confessioni dei faraoni tratte dalla Formula 125 del Libro dei Morti, confessioni dettate a chi si accingeva a raggiungere Osiride nell'alto dei cieli. Non ho ucciso, non ho rubato, non ho detto il falso... furono poi trasformate dagli ebrei in regole da non trasgredire valide per tutti. Le dichiarazioni iniziali di El Shaddai o Adonai o Geova, che si manifesta come un dio iroso e vendicativo, assomigliano invece all'Enlil mesopotamico. Ciò permetteva alla casta sacerdotale di ergersi a unica intermediaria autorizzata tra il popolo e il dio, acquisendo uno strategico controllo delle masse. Prima di Mosè non esisteva una casta sacerdotale israelita, né esistevano templi dedicati al culto.

24 Il Talmùd chiama Gesù “figlio di Pantera”, un vicino di casa che possedette con l'inganno Maria, la quale non riusciva ad avere figli da Giuseppe. Oltre al Talmùd, gli ebrei potevano leggere (e l'hanno fatto sino al XIX sec.) alcune notizie satiriche sulla vita di Gesù in quei romanzi popolari diffusi nella diaspora, chiamati Toledoh, nei quali si narra che il mago-Gesù venne sconfitto da Giuda e consegnato alla giustizia; poi dei discepoli ne avrebbero trafugato il cadavere facendo credere ch'era risorto. Nel 1985 un documento del Vaticano ha cancellato la condanna bimillenaria degli ebrei da parte dei cattolici.

25 Kibbuz: è un centro agricolo in cui tutti i beni sono di proprietà comune, retto da una forma di democrazia semplice. L'assemblea generale (organo sovrano) istituisce varie commissioni per i diversi servizi della comunità: scuola, asili nido, attività ricreative, produzione agro-industriale e artigianale, ecc. Il primo kibbuz è stato fondato nel 1909 presso il lago di Tiberiade. Oggi il 2-3% degli israeliani appartiene a un kibbuz, laico o religioso. Spesso il governo di Tel Aviv li usa per colonizzare le terre dei palestinesi: qui infatti al ragazzo tredicenne (che ha cioè appena raggiunto la maggiore età religiosa) si consegna una Bibbia e un fucile. Il Moshav invece è un villaggio agricolo ove ogni famiglia lavora la propria terra come meglio crede, ma che al momento della vendita si affida a una cooperativa. Alcuni strumenti di lavoro e le macchine agricole sono di comune proprietà.

26 Spesso ci si dimentica che altre mostruosità sono accadute in quella macelleria sociale chiamata “storia umana”: lo sterminio di amerindi, aborigeni australiani, tasmaniani, la tratta degli africani, il reclutamento forzato dei coolies in Cina ecc.

27 Archelao aveva anche permesso di ricostruire completamente l'insediamento esseno del Mar Morto, distrutto da un terremoto nel 31 a.C., e che costituirà una delle basi zelote al tempo della guerra giudaica.

28 Da notare che i sommi sacerdoti, pur essendo nominati, a partire dal regno di Agrippa I, dai dinasti erodiani e non più dai Romani, avevano perso qualunque stima da parte della popolazione ebraica, proprio perché non erano disposti a un'insurrezione armata contro Roma.


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