Due righe sulla letteratura americana moderna

Due righe sulla letteratura americana moderna

Danza in cima ai grattacieli di New York

Dario Lodi


La letteratura americana moderna risente principalmente di due fattori: la questione commerciale e il condizionamento culturale derivato dalla mentalità yankee (il solito, annoso, mito dell’uomo del West).

I due fattori sono strettamente legati fra loro. Se uno scrittore non si ispira all’energico modo di fare americano per cui nessun obiettivo è precluso al suo eroe (come minimo, la denuncia di ingiustizie morali e materiali) ebbene non avrà ascolto dalla macchina editoriale del suo paese. Una macchina poderosa, capace di condizionare l’intero mercato mondiale del libro, attivando (e pagando profumatamente) media affinché sorreggano il prodotto di turno, creando il personaggio.

La questione veramente qualitativa del libro, secondo parametri classici legati a concetti profondi e ad abilità suggestiva di prim’ordine, passa in secondo piano. E’ più apprezzata una certa maniera di esprimersi, quella alla portata di tutti. Alla portata, cioè, di un pubblico scolarizzato alla buona (in senso umanistico) e facilmente influenzabile dai fenomeni personali e sociali che ha sotto gli occhi.

Non c’è, nella letteratura americana in genere una preoccupazione speculativa, per esempio, alla Kafka. Non c’è il patos europeo. C’è una imitazione di certi eccellenti modelli che vengono però corrotti da visioni superficiali e rovinati da un tormento di fondo che recita critica al sistema statunitense (troppo freddo, meccanico e dagli orizzonti limitatissimi) e sofferenza per la forzata partecipazione ad esso.

Ad alimentare questa sofferenza provvede una mentalità da “new age” subentrata al vecchio paralizzante puritanesimo. La mentalità “new age” consente ampia libertà espressiva entro una cornice di perbenismo che vorrebbe essere conquista personale, non mediata dalla religione.

L’ampia libertà espressiva porta a virtuosismi creativi spregiudicati disinvolti, nei quali entra sovente il sesso: si tratta di una forma di reazione in sé violenta al condizionamento sociale al quale ci si deve sottomettere. Oltre a Pynchon, che è considerato un po’ il faro di questo modo di fare scrittura e di offrire concetti nuovi (cosa non vera, per quanto riguarda i concetti), due sono i riferimenti di massima del fenomeno letterario americano moderno: Philip Roth (1933) e David Foster Wallace (1962-2008).

Il primo è noto per il suo “Lamento di Portnoy” : un testo emblematico per quanto riguarda il nostro discorso. Il personaggio tenta in tutti i modi di inserirsi nel modo di vivere americano, tenta di farsi accettare dal sistema, ma teme (e spera nel contempo) di non esserne adatto. Sfoga il suo malumore e la sua inadeguatezza (forse per un remoto rigurgito di dignità intellettuale) masturbandosi da mattina a sera. Questo personaggio di Roth (variamente ripreso in altri suoi romanzi e racconti) vorrebbe dimostrare, attraverso una forma di protesta personale, forse misantropica, che non c’è speranza oltre il materialismo più vieto e crudele, più volgare e più stupido, rappresentato da quello che sostiene la civiltà ritenuta più avanti di tutte, quella americana.

Ma l’operazione di Philip Roth ha qualcosa di grossolano, di ingombrante (benché in fondo vi sia levità nella sua scrittura) che finisce con l’andare addirittura in appoggio al sistema sotto feroce esame. Non è che Roth scelga questo modo di denunciare un malessere esistenziale per coerenza con il tenore culturale dell’ambiente che descrive, è che egli si adegua ad un certo tran tran comunicativo che di fatto appiattisce le questioni, rendendole un refrain alla fine indigesto. Roth ha vinto molti premi e ha sfiorato il Nobel: non sono assurdità, ma sono il termometro della condizione letteraria attuale: un mezzo disastro, concettualmente parlando.  Recentemente lo scrittore ha annunciato che appende la penna al chiodo: ebbene, la letteratura ringrazia sentitamente.

Per quanto riguarda David Foster Wallace, la sua facondia è pari, se non superiore a quella di Pynchon. Con la differenza (ben avvertibile nel suo romanzo “Oblio”) che Wallace “tenta” di soffrire disperatamente per ciò che denuncia (lo scrittore finirà suicida) mentre Pyinchon va a ruota libera, seguendo filoni a caso e non impegnandosi mai seriamente: sarebbe quest’ultimo un atteggiamento tipico del movimento postmodernista, se Pynchon e i suoi seguaci conoscessero bene l’anima del fenomeno postmoderno.

Wallace, invece, ha ben poco a che fare con la novità espressiva decantata dal filosofo francese Lyotard (“La condizione postmoderna”: ovvero, il dovere di ripensare il recente passato, quello novecentesco, e analizzarlo per sposare, poi, un impegno intellettuale molto più significativo e responsabile): Wallace è per un tipo di osservazione lenticolare, purtroppo, però, sempre ferma sul particolare. La sua è una scrittura ripetitiva, zeppa di descrizione superflue (perché c’è la reiterazione del concetto di base, che è inevitabilmente povero) che appesantiscono l’intento fondamentale, che è quello di mettere alla berlina un mondo approssimativo e indecoroso, senza mai spiegare perché si sia formato e perché continui ad avere successo.

Senza questa spiegazione, senza neanche un accenno sotterraneo, alla ragione di certo disastro civile, la noia s’impone inevitabilmente, l’esercizio letterario diviene una sorta di decorazione senza luci: ma è decorazione e questo va bene per i media abili a massacrare l’autentica dignità letteraria. Sic transit, con quel che segue.

Una nota su Elio Vittorini e la letteratura americana

Come operatore culturale Elio Vittorini (1908-1966) è stato prezioso, avendo fatto scoprire la letteratura americana. Quest’ultima ha dei valori fondamentali consistenti nell’abbandono di ogni orpello letterario. Il lavoro di Vittorini è, per molti versi, alla base del neorealismo, grazie allo svecchiamento rapido e determinato dell’espressione. Il rovescio della medaglia è dato dalla forza dirompente con cui lo scrittore siciliano raccomandò l’adozione della sbrigatività degli americani nella scrittura. Questa forza, sollecitata dal desiderio di abbandonare il classicismo – erroneamente apparentato al fascismo – era portata ad esaltare un tipo di letteratura, quella americana appunto, mutuato dallo stile giornalistico. Si trattava di uno stile che negli Stati Uniti aveva avuto successo in quanto aveva adottato un linguaggio popolare.

In Italia la situazione era opposta: i giornali ricalcavano la maniera di scrivere elitaria della scrittura dei libri (esagerando, basti pensare a D’Annunzio). Ciò che i giovani intellettuali del tempo, obnubilati dal moloc fascista, non volevano capire e di cui non volevano occuparsi era l’importanza storica della classicità quando non parodiata. La velocità dell’espressione americana rappresenta un ostacolo alla riflessione e facilita la descrizione deprimendo l’interpretazione. Lo scrittore vero è colui che interpreta i fatti, secondo la propria sensibilità (se è bravo suggestiona ad hoc il lettore) non colui che li descrive.

Lo scrittore classico moderno – tipo Cardarelli, Cecchi, Papini, oggi in parte Magris, Celati rimanendo in Italia – usa le parole necessarie allo sviluppo del concetto, non una di più, e sviluppa un concetto per volta. La letteratura americana in genere, mette in campo parecchi concetti, non ne conclude uno, è superficiale, è semplicistica, pur aspirando a qualcosa di meglio (a qualcosa di più umano e di meno meccanico). Ovviamente ci sono le eccezioni, ma tocca andare indietro (a Melville magari).

Il contributo americano è comunque importante sul piano espressivo, consentendo, se la semplicità viene usata a dovere, evitando che diventi semplicismo, una libertà di scrittura impensabile prima che si conoscesse la letteratura americana: tutto ciò significa apertura mentale maggiore che tuttavia, senza il rigore dell’impostazione classica, rischia di perdersi in vanità e in presunzioni. Lo stesso Vittorini non fu esente da sperimentalismi che rasentano l’assurdità, l’eccesso, l’inutile protagonismo: “Conservazione in Sicilia” è un libro pieno di voglio ma non posso o posso ma non voglio che rende il libro enigmatico e sostanzialmente irrisolto, verboso sino all’inverosimile. Non parliamo de “Il Sempione strizza l’occhio al Frejus”: un’operazione allucinante con tanto di scrittura sincopata, incerta e presuntuosa. Molto meglio il Vittorini operatore culturale. Non c’è paragone.

Su Vittorini vedi anche questa scheda.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019