Vittorini contro Togliatti

Vittorini contro Togliatti

I - II

Elio VittoriniTogliatti

Dario Lodi


Si era nel 1945-1946. Elio Vittorini, sul suo “Politecnico”, tentò un ragionamento intorno a quei valori borghesi che avevano portato al disastro della Seconda guerra mondiale e soprattutto all’uccisione sistematica di civili, bambini compresi. L’indignazione vittoriniana si era accesa all’indomani della scoperta dei campi di concentramento nazisti: crollava il mito della civiltà industriale e conseguentemente veniva messo in discussione il sistema di pensiero che aveva sostenuto quel tipo di azione.

Vittorini non intendeva porre sotto la lente un solo modo di pensare, ma andare alla radice delle cose, cercando, in ossequio al suo idealismo, d’individuare le ragioni del comportamento comune. Nell’impresa che mise in piedi, il siciliano non guardò in faccia a niente e a nessuno, benché il “Politecnico” fosse un organo di stampa comunista. Vittorini ragiona come Gramsci (le cui opere allora erano tuttavia sconosciute), laddove Gramsci raccomanda e sollecita una presa di coscienza ampia della realtà da parte di tutti. Perché ciò avvenga, Vittorini passa a fornire la materia su cui discutere, nella convinzione che più numerose saranno le nozioni, più facile sarà giungere ad una consapevolezza e quindi ad una scelta ponderata dell’atteggiamento da prendere, della filosofia di vita da seguire.

Vittorini ha il merito di ripristinare il primato del concetto di teoria sulla prassi, partendo dal più basso dei gradini: informare nella maniera più asettica possibile. Scopo: far sorgere la critica e l’autocritica, ricercare la verità, non predicarne una prefabbricata, far prevalere la cultura sulla politica. In buona sostanza il “Politecnico” voleva informare non educare, sottintendendo che l’educazione sarebbe venuta spontanea dopo l’informazione. Era chiaramente un programma ambizioso, di stampo illuministico, con non poche pretese di protagonismo intellettuale, ma con intenti nobilissimi, ben superiori a qualsivoglia frase fatta.

L’iniziativa, tuttavia, non poteva che suonare astratta alle orecchie di Togliatti. Il “Migliore” aveva un idealismo più pratico e meglio conosceva il tessuto popolare. Inoltre aveva fretta di cambiare la società italiana. Nell’ambito di questa ambizione, e facendo tesoro dei disastri provocati dalle vecchie oligarchie, il leader rosso era convinto di essere dalla parte giusta e che quindi si dovesse inculcare nelle menti la validità della dottrina comunista. In buona sostanza, la pretesa togliattiana altro non faceva che ricalcare i metodi collaudati dal sistema convenzionale: la gente doveva obbedire, doveva eseguire senza fare tante domande perché tutte le domande erano già state fatte e per ciascuna esisteva una risposta grazie all’acume dell’intellighenzia comunista: non era stata Mosca a vincere il nazismo, a battere, cioè, il vecchio mondo, i vecchi metodi di governo?

Essendo nell’orbita americana, il comunismo italiano non poteva certo agire come quelli dell’Est Europa: Togliatti lo sapeva bene e fin dal primo momento tentò d’inserirsi nella politica ufficiale postbellica presentando sì un partito monolitico, ma anche in qualche modo flessibile, affinché fosse credibile e affidabile. Nella mente del “Migliore” esisteva un piano molto più di carattere socialdemocratico che comunista vero e proprio (un falso comunismo, ovviamente, come gli altri del resto in atto: l’ideologia relativa, quella pura, si basa sul consenso spontaneo, non sull’imposizione). Non era certo una socialdemocrazia dichiarata, in quanto il vero fine era quello di giungere proprio al comunismo spurio attraverso un’opera dall’interno, facendo leva sulle masse, costringendole, con le buone (ovvero con le cattive, vista la propaganda), a sposare la bontà della causa. L’”Unità”, il “Politecnico” e quant’altro dovevano fare da cassa di risonanza al programma del partito, rintronando i lettori con slogan rivoluzionari.

Vittorini se ne rese conto presto e si ribellò con una famosa dichiarazione per cui egli non intendeva “suonare il piffero per la rivoluzione”.

Naturalmente l’impresa dell’intellettuale siciliano non era di rapida attuazione, poiché essa chiamava in causa un corso accelerato di maturità generale per il quale non esistevano i presupposti. Il cosiddetto sistema democratico non avrebbe mai dato i mezzi necessari per rendere fattibile l’operazione, i potenziali rivoluzionari avevano, poi, ben altro da pensare (la ricostruzione del Paese, la ricerca d’un’occupazione; avevano il problema della sopravvivenza).

La tradizione ebbe inevitabilmente il sopravvento. Ritornò l’oligarchia, quel falso liberismo precedente l’avventura fascista, appoggiata e aiutata dagli americani. L’Italia entrò in tutto e per tutto nell’orbita occidentale e trovò l’energia per scrollarsi di dosso il passato storico di miseria.

Pian piano crollarono i piani rivoluzionari, il Pci cercò una posizione di compromesso all’interno del nuovo sistema. Sopravvisse attaccandosi ai diritti elementari dei più deboli, ma smise ogni idea rivoluzionaria. Il capitalismo aveva imparato a convivere con la massa, semplicemente blandendola come aveva fatto il fascismo (caduto, di fatto, a causa della Seconda guerra mondiale, ma non morto come mentalità).

Togliatti e Vittorini sembrano ormai appartenere alla polvere del passato. Il primo legato ad astorici sogni di gloria, seppure con qualche generosità d’animo e con qualche buona visione paternalistica da “ti salvo io dall’orco cattivo e ti prometto che sarò un orco meno cattivo” (ma non poteva contare su modelli adatti), il secondo, Vittorini, era legato invece ad una visione catartica nella quale ognuno è chiamato a salvarsi da solo. Intanto, gli oligarchi tramavano tranquillamente alla luce del sole. Con successo totale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019