L’ITINERARIO DEL POLITECNICO DI VITTORINI

L’ITINERARIO DEL “POLITECNICO” DI VITTORINI

I - II

elio vittorini


Ambientazione culturale e ideologica della polemica Togliatti-Vittorini

Il marxismo ufficiale del secondo dopoguerra cominciò a imporsi in Europa occidentale con una dura critica di L. Aragon a R. Garaudy, nel 1946: questi infatti voleva un totale liberismo artistico, quello invece – sostenuto da A. Zdanov – un realismo socialista, organico al partito.

L’anno dopo anche il Pc di Togliatti, su “Rinascita” (fondata nel 1944), si schierò con Aragon, appiattendosi sulla politica culturale staliniana. In Italia però il suo vero attacco fu contro il “Politecnico” di E. Vittorini, la cui rivista cercava di capire come il marxismo potesse intrecciarsi con l’arte e la letteratura in chiave anti-idealistica (che da noi voleva dire “anti-crociana”).

Solo intorno al 1952 il Pc prese ad allontanarsi progressivamente da questa stretta ideologizzazione della cultura, ripescando le opere di A. Gramsci (qui sta l’autocritica togliattiana) e, nel recuperare il concetto di “nazional-popolare”, anche quelle di F. De Sanctis.

Quando nel 1949 le Edizioni di Rinascita pubblicarono Politica e ideologia di Zdanov, si capì bene perché M. Zoščenko e A. Achmàtova (il gruppo letterario dei “Fratelli di Serapione”) e il gruppo degli Acmeisti, tra cui O. Mandel'štam, erano stati messi a tacere.

In Italia i primi che cercarono d’andare oltre Zdanov furono Roberto e Armanda Guiducci, che scrissero un saggio nel 1951 (quasi l’unico tra il 1945 e il 1955) a favore di G. Plechanov, da noi conosciuto più che altro come rivale di Lenin e non come critico letterario e teorico dell’estetica. Erano stati stimolati dal lavoro del francese J. Fréville, edito nel 1949, il quale aveva capito che l’opera di Plechanov poteva essere considerata il primo sforzo creativo di creare un’estetica marxista.

Poi fu la volta di G. Lukács, che pubblicò nel 1949 Goethe e il suo tempo e l’anno dopo i Saggi sul realismo, mirando a relativizzare la dogmatica staliniana e le prescrizioni zdanoviane; in realtà senza molto successo, poiché proprio in quegli anni l’attenzione era stata catalizzata da Stalin, intervenuto contro N. Marr su questioni di tipo linguistico.

Fortuna volle in Italia che si cominciassero a pubblicare gli appunti carcerari sulla letteratura di A. Gramsci, raccolti in Letteratura e vita nazionale, sicché si poteva in qualche modo supplire all’ignoranza che si aveva per le opere di Lukács. In ogni caso la prima a rompere il silenzio su quest’ultimo, parlandone favorevolmente, fu, ancora una volta, A. Guiducci, nel 1951.

Tuttavia solo nel 1953 Lukács cominciò ad attirare l’attenzione dell’ufficialità marxista italiana col testo sul Marxismo e la critica letteraria. Un interessamento un po’ particolare, in quanto Lukács veniva più che altro usato come contrappeso togliattiano allo zdanovismo sovietico, tant’è che quando lui ritrattò, coi suoi Prolegomeni a un’estetica marxista, del 1957, i comunisti italiani, ancora poverissimi di filosofia, smisero di apprezzarlo.

Apprezzavano di più il capolavoro di E. Auerbach, Mimesis (1946, ma da noi apparso nel ‘56), che univa storicismo, sociologia e realismo artistico; e anche il Sartre che coniugava esistenzialismo e marxismo (Questioni di metodo, apparso nel 1957 su “Tempi Moderni”), proprio mentre il marxismo ortodosso s’andava sgretolando a causa della crisi dello stalinismo (il 1956 fu l’anno non solo dei fatti d’Ungheria ma anche del XX Congresso del Pcus e del “Rapporto Krusciov”). La sua Critica della ragione dialettica, apparsa nel 1960, fece scuola.

Intanto il vuoto lasciato dalla chiusura del “Politecnico”, la sinistra cercò di colmarlo con la rivista “Il Contemporaneo” (1954), sotto la direzione dei comunisti Salinari e Trombadori, che diventerà poi supplemento mensile di “Rinascita”, ma anche con la rivista “Ragionamenti” (1955-57), diretta dalla socialista Guiducci, tesa ad associare Adorno e Lukács.

Tralasciamo il tentativo, un po’ penoso, dei neo-idealisti di rivitalizzare il crocianesimo, accettando la psicanalisi e la lezione linguistica di Leo Spitzer (cfr Critica stilistica e storia del linguaggio, 1954, poi ampliato come Critica stilistica e semantica storica, 1966).

Sicuramente la novità italiana più significativa fu la comparsa di un filosofo marxista dell’estetica, Galvano Della Volpe, con la sua assai impegnativa Critica del gusto (1960), che non piacque affatto alla nomenklatura comunista, in quanto, sebbene egli fosse iscritto al Pc sin dal 1944 e difendesse l'ortodossia togliattiana, là dove questi sosteneva il primato della politica sulla cultura (famosa la polemica con Norberto Bobbio, propugnatore dell'intellettuale come suscitatore di dubbi), tendeva a presentare un Marx critico radicale di Hegel, contro la tradizione italiana della continuità fra Hegel e Marx e, sul piano nazionale, della linea che univa Vico, De Sanctis, Labriola, Croce e Gramsci. Togliatti, dopo tanti anni di ligio allineamento al Pcus, aveva iniziato a privilegiare un pensiero come quello gramsciano proprio perché lo riteneva meno radicalmente critico nei confronti della tradizione neo-idealistica di ascendenza crociana.

Galvano Della Volpe è stato il solo teorico del marxismo che ha dato vita a una scuola i cui tratti ancora oggi sono riconoscibili. Suoi principali discepoli furono Nicolao Merker, Mario Rossi e Lucio Colletti.

La Critica del gusto apparve, col senno del poi, come una sorta di ponte tra un passato esageratamente polarizzato, che faceva dell’arte un mero strumento della politica culturale, e un presente tecnicizzato e pluralista, che iniziava a fare dell’arte un complesso sistema di segni (la linguistica). Agli inizi degli anni Sessanta ancora non si sapeva nulla in Italia né del formalismo russo né dello strutturalismo, che avranno una grandissima risonanza negli anni Settanta.

La scomunica di Vittorini e la chiusura del “Politecnico”

Il siracusano Elio Vittorini, con la sua nuova rivista (prima settimanale, poi mensile, infine bimestrale) "Il Politecnico", fondata presso Einaudi e diretta nel biennio 1945-47, aveva suscitato non poche speranze, tra gli intellettuali, soprattutto di sinistra, subito dopo la fine della guerra. Vi scrivevano autori prestigiosi, del calibro di Lukács, Sartre, Brecht, Pasternak, Babel ecc. Bompiani gli aveva appena pubblicato Uomini e no, uno dei romanzi più celebrati e discussi sulla guerra di liberazione.

Il richiamo alla famosa testata ottocentesca di Cattaneo non era stato certo casuale: si voleva uno strumento apertissimo alla società, alla cultura, all’arte, capace di confrontarsi con una politica chiaramente di sinistra, ma difendendo la propria autonomia, la propria specificità. Gli interessi dei redattori della rivista erano molteplici e andavano dalla divulgazione di testi di scrittori e poeti stranieri (recuperando la cultura anglosassone) alle inchieste sulla Fiat, sulla scuola ecc.

Nel manifesto programmatico, pubblicato nel primo numero, scrive Vittorini, in maniera molto propositiva: “Pensiero greco, pensiero latino, pensiero cristiano di ogni tempo, sembra non abbiamo dato agli uomini che il modo di travestire e giustificare, o addirittura di rendere tecnica, la barbarie dei fatti loro. E’ qualità naturale della cultura di non poter influire sui fatti degli uomini? Io lo nego”.

E continua, polemizzando con la visione idealistica della cultura che, dal magistero di Croce, aveva dominato i decenni immediatamente precedenti: “La società non è cultura perché la cultura non è società. E la cultura non è società perché ha in sé l’eterna rinuncia del “dare a Cesare” e perché i suoi principi sono soltanto consolatori, perché non sono tempestivamente rinnovatori ed efficacemente attuali, viventi con la società stessa come la società stessa vive. Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? […] Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’“anima”. Mentre non volere occuparsi che dell’“anima” lasciando a “Cesare” di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a “Cesare” (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio “sull’anima” dell’uomo”.

Sartre, presentando nelle stesse settimane la rivista “Les Temps Modernes”, diceva in sostanza le stesse cose, tant’è che le due riviste si pubblicheranno i reciproci manifesti.

“Il Politecnico” voleva essere una rivista comunista, ma non dogmatica, in quanto non poteva porsi – scriveva Vittorini – come “organo di diffusione di una cultura già formata”: era piuttosto “uno strumento di lavoro per una cultura in formazione”. Parole, queste, nient’affatto scontate in un’epoca di intellettuali che il Pc voleva “organici”, e che preluderanno al celebre scontro, fatale per la testata, con la dirigenza comunista, che si consumerà di lì a qualche anno.

Vittorini si chiedeva che cosa fare della cultura tradizionale italiana, che certamente povera non era, anche se quella del ventennio fascista fu in sostanza una cultura decadente e provinciale, quando non retorica e trionfalistica, e quali sarebbero stati i supporter della nuova cultura nel presente. (1)

Inizialmente, quando ancora non era comunista, egli, a dir il vero, aveva visto nel primo fascismo un movimento rivoluzionario anti-borghese (cfr Piccola borghesia, 1931), e scriveva di questo anche nella rivista: “La gioventù italiana giunse al punto di fabbricarsi delle illusioni sul fascismo… che potesse a poco a poco trasformarsi in una specie di “collettivismo”… perdendola, una parte, alle soglie della guerra d’Etiopia e il resto, la maggior parte, con la guerra civile di Spagna” (n. 1/1945).

Come noto Vittorini era stato espulso dal partito fascista proprio nel 1936 e, a quel tempo, aveva scritto pagine molto belle sull’antifascismo italiano, maturato in seguito alla guerra contro il generale Franco; disse p.es. che fu la fucilazione di Garcia Lorca a far scoprire un mondo culturale spagnolo (da Machado a Jiménez) che si credeva fermo a De Unamuno. Da lì si cominciò a capire, secondo lui, che si poteva essere antifascisti anche in nome del cubismo di Picasso o in nome del rinnovamento della narrativa offerto da Hemingway.

* * *

Quando qualcuno chiedeva a Togliatti qual era la dottrina del partito, lui rispondeva che “la dottrina e la linea del partito sono nei fatti che si compiono”, così scriveva G. Bocca nei due volumi dedicati al leader comunista (ed. L’Unità, 1992).

Tutto sommato aveva ragione. Quando si definisce rigorosamente un principio teorico, lo si mistifica ipso facto. La cultura, per lui, non poteva essere separata dalla politica e questa non poteva essere separata dalla società, coi suoi bisogni e le sue contraddizioni, pena il cadere in astratte speculazioni.

Solo che definire la cultura un mero “strumento della politica”, poteva sembrare quanto meno eccessivo, e dire il contrario, come amava fare Vittorini, quanto meno ingenuo. Se non si vogliono definire dei principi, allora bisogna rinunciare anche all’idea di subordinare la cultura alla politica o la politica alla cultura. O la dialettica degli opposti viene presa davvero sul serio, sempre e comunque, oppure è meglio rinunciarvi del tutto.

Togliatti diceva a Trombadori che “gli intellettuali spesso sono dei compagni di strada più che dei militanti: se li attacchiamo scappano, e non è questo che vogliamo” (Bocca, cit., p. 380). Tuttavia sia Vittorini che Silone gli stavano antipatici, perché li vedeva supponenti, troppo lontani dalla politica, poco disposti a cercare nessi organici col partito, anche se ovviamente gli piaceva l’idea di poter creare un ponte fra i comunisti e gli intellettuali cattolici e crociani.

In quella querelle i contendenti si trovarono su posizioni che oggi sarebbero parse impensabili: Togliatti era troppo comunista per poter essere accettato dagli intellettuali che volevano fare una cultura di sinistra senza avere la tessera del partito, mentre Vittorini lo era troppo poco, in quanto sembrava limitarsi a difendere una libertà artistica fine a se stessa, sicché alla fine – come gli era stato rimproverato – si riduceva a fare un mero “lavoro antologico”, enciclopedico (Bocca, cit., p. 385).

“Il Politecnico” appariva eclettico, confuso, astratto, privo di ideologia ai dirigenti del Pc, e Vittorini non era “capace di sorvolare, di accettare sorridendo” le tegole che gli piovevano sulla testa, e si metteva invece “a difendere a denti stretti una sua immagine del partito aperto, liberale…”(Bocca, cit. p. 386).

Vittorini commise la sciocchezza di dire che “la politica è cronaca e la cultura è storia” e che “la ricerca della verità appartiene esclusivamente alle attività culturali in senso stretto”. Togliatti poté agevolmente criticare queste “false generalizzazioni”, dicendo che “chi ha fatto la storia sono stati i politici marxisti intransigenti”. E uno dei suoi più stretti collaboratori, Felice Platone, membro della commissione ideologica del partito, poté rincarare la dose dicendo che una cultura che non diventa politica non riesce affatto a “volere” “i rivolgimenti sociali e le trasformazioni del mondo”: al massimo li può “desiderare”.

Platone aveva perfettamente ragione quando spiegava a Vittorini che la grande cultura latina non lottò mai con successo contro la politica imperiale (anzi, spesso, non lottò affatto) e che semmai fu quella cristiana a farlo, almeno finché non diventò come quella latina. Senza una politica democratica non esiste una vera cultura umanistica.

Peccato però che lo stesso Platone mettesse sullo stesso piano, esaltando lo stalinismo, il fascismo e il trotskismo; peccato soprattutto che non avesse capito che la cultura non può coincidere stricto sensu con la politica: anche perché, quando ciò avviene, la cultura smette d’essere tale e diventa propaganda.

Sarebbe stato sufficiente un minimo di elasticità per capire che se la politica cerca il potere in maniera diretta, la cultura non può che usare strumenti indiretti, che nell’immediato possono anche apparire deboli, inoffensivi e che solo nel lungo periodo riescono a imporsi, creando una nuova mentalità, che poi servirà per compiere un’azione politica rivoluzionaria. L’Ottantanove francese non fu forse preceduto dagli Enciclopedisti? (2)

Togliatti e gli altri leader di partito fecero fuori la rivista probabilmente perché pensavano che dopo la disfatta del fascismo, l’unico autorizzato a gestire l’alternativa dovesse essere il partito che aveva sofferto e lottato di più, e non si volevano dei concorrenti tra i piedi (a sinistra) e tanto meno dei dissenzienti rispetto alle riviste ufficiali, tra cui anzitutto “Rinascita” (un’altra, per un target più popolare, era “Il Calendario del Popolo”, mensile di cultura nato nel 1945).

Nel 1951 Vittorini lascerà il Pc.

* * *

Vittorini non fu criticato solo da Togliatti, ma anche da Alicata, Onofri, Platone, Luperini ecc. Astrattamente sembrava essere un dibattito sui rapporti tra politica e cultura; concretamente invece ci si interrogava sull’effettiva possibilità di fare un discorso marxista a prescindere dall’apparato di partito.

Oggi ci potremmo chiedere se un partito politico di sinistra possa mai stabilire una cosa del genere. La risposta sembra essere scontata: no, non può e non lo poteva neppure allora, pur essendo gli ideali molto più forti e sentiti di oggi. Non è da escludere che l’autoritario Pc gradisse assai poco che “Il Politecnico” diventasse una grande rivista senza essere chiaramente un organo di partito.

Sicuramente Togliatti aveva ragione quando sosteneva che la migliore cultura è quella organica a un’esigenza politica, ovvero che è meglio per un intellettuale di sinistra essere schierato politicamente che un cane sciolto. Tuttavia aveva torto a pretenderlo, minacciando scomuniche. Aveva ragione a dirlo, ma doveva lasciare la libertà di crederlo e di dimostrarlo coi fatti. Cioè solo i fatti avrebbero potuto dimostrare che è sempre meglio una cultura organica a un’istanza politica di rinnovamento (per quanto mediocre possa essere la forma in cui si esprime), rispetto a quella cultura elevatissima che marcia però per conto proprio.

Oggi Vittorini avrebbe culturalmente vinto, ma proprio perché la politica della sinistra ha perso la sua partita, non avendo più nulla di realmente alternativo al sistema. Forse se la diatriba fosse scoppiata qualche anno dopo, sarebbe finita diversamente, in quanto lo stesso Togliatti, con la riscoperta di Gramsci, s’era ammorbidito di parecchio. In quegli anni, purtroppo, il fanatismo ideologico era ancora imperante, benché già il Gramsci dell’”Ordine Nuovo” avesse azzardato giudizi positivi su un fenomeno artistico che in Italia non poteva certo essere qualificato di sinistra: il futurismo.

D’altra parte a Vittorini importava soltanto distinguere tra politica e cultura, senza vedere nei due elementi un nesso organico, eminentemente anti-crociano. Sarebbe stato sufficiente affermare che la convergenza d'interessi tra politica e cultura, interpretata come un’adesione esplicita a un partito, andava lasciata alla libera decisione del singolo intellettuale. Ciò in quanto l’iscrizione a un partito comporta sempre una responsabilità personale, una scelta di campo che mette in gioco se stessi sul piano pratico, poiché chiama in causa la disciplina, il senso forte del dovere, una buona dose di sacrificio di sé, una certa capacità di autocritica, la necessità di fare propaganda e altre cose ancora, cui certamente non può sentirsi tenuto l’intellettuale di sinistra che marcia da solo.

Se l’autonomia sul piano culturale può essere ben vista, anzi, è necessario riconoscerla, è altresì evidente che sul piano politico si pretende qualcosa di più, soprattutto quando gli ideali sono forti, proprio perché la politica esige uno schierarsi, e quando vede che un intellettuale non ha il coraggio di mettersi in gioco politicamente, eventualmente anche partecipando alla vita di un partito o di un movimento di persone che hanno regolamenti da rispettare e obiettivi da realizzare, è facile ch'essa assuma un atteggiamento guardingo e sospettoso.

Vittorini aveva sì aderito al realismo, ma – sulla scia di Garaudy -, pensando non esistesse “un’estetica del partito comunista”, aveva inferito che il partito non dovesse esprimersi su alcuna estetica, tant'è che aveva scritto che “premere su Guttuso perché dipinga più in un senso e meno in un altro, non fa parte di nessun compito rivoluzionario”, in quanto l’arte deve nascere spontaneamente.

E’ vero, non esiste “un’estetica di partito”, ma esiste una politica culturale con cui il partito può pronunciarsi su qualunque estetica, ed esistono degli intellettuali di partito a cui viene lasciata facoltà di dire la loro opinione sulle diverse estetiche del mondo, in un dibattito democratico, senza obbligare nessuno a parteggiare per questa o quella estetica, ma lasciando il cittadino comune libero di trarre le sue conseguenze, intuendo da solo quale estetica risponda meglio ai valori umani fondamentali.

In tal senso – diceva giustamente Togliatti – “il compito immediato e diretto di rinnovare la cultura italiana spetta agli uomini stessi della cultura”, ma è un pieno diritto degli intellettuali di partito chiedere agli artisti d’immortalare una determinata cosa e non un’altra. E il fatto che lo chiedano non va avvertito come un dovere: nessuno può essere obbligato a impegnarsi nella lotta per un mondo migliore.

Non ha alcun senso pensare che solo perché un partito fa politica, non deve avere una propria cultura. Se fosse così, finirebbe col fare un’astratta politica culturale, lasciando che la cultura si esprima come meglio crede. L’idea che i partiti debbano fare solo politica li ha portati, oggi, a diventare mere consorterie di potere, sordi a qualunque richiamo.

Note

(1) Che poi non è affatto vero che sotto il fascismo tutta la cultura fosse decadente o retorica. Anche escludendo le grandi eccezioni del regime (la produzione gentiliana ed evoliana, quella del cattolicesimo democratico di Bontadini, Fanfani, Lazzati ecc. e dell’Enciclopedia Treccani), resta da segnalare la nascita, nel gennaio 1938 (fu chiusa da Mussolini nel giugno 1940), di una rivista di tutto rispetto, “Corrente”, che, con intellettuali del calibro di E. Paci, L. Preti, L. Anceschi, R. Cantoni (allievi del filosofo A. Banfi), V. Sereni, G. Ferrata, N. Savarese e lo stesso Vittorini, voleva aprirsi alla cultura europea, contro l’autarchia e l’isolamento culturale del fascismo, contro l’antistoricismo dell’arte celebrativa e l’idea dell’arte fine a se stessa.

(2) Un altro esperimento culturale significativo fu quello denominato “Gruppo ‘63”, che, pur richiamandosi a idee marxiste e strutturaliste, non si diede mai delle regole definite, producendo opere di notevole spessore, che volevano essere una contestazione dei moduli tipici del romanzo neorealista e della poesia degli anni Cinquanta, sulla base di una ricerca inedita di forme linguistiche e contenutistiche: non a caso fece proprio l’esperimento plurilinguistico ed espressionistico del “Pasticciaccio” gaddiano (1957). Si sciolse nel 1969.

Fonti

Download

SitiWeb


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019