IL VALORE DEMOCRATICO DELLA LETTERATURA RUSSA

IL VALORE DEMOCRATICO DELLA LETTERATURA RUSSA

I - II - III - IV


Con amarezza ma anche con profonda verità, Vladimir Odoevskij ebbe modo di dire che la letteratura è l'ultimo grado di sviluppo di un popolo, è il testamento spirituale che un popolo prossimo alla morte lascia al proprio erede, per non scomparire del tutto dalla faccia della terra. Naturalmente lui pensava alla sua Russia, nei cui confronti però nutriva un certo ottimismo, in quanto riteneva non fossero ancora apparsi, nel suo immenso paese, degli intellettuali dediti esclusivamente all'arte.

Gli intellettuali vogliono vivere la vita, diceva, di cui l'arte è componente fondamentale. L'arte deve servire per far riflettere sui problemi della vita, altrimenti è fine a se stessa e quindi inutile. Sin dai suoi esordi, la letteratura russa ha mostrato questa caratteristica.

Vladimir Turbin, a questo proposito, diceva che questa peculiare letteratura si è sempre incentrata su due domande: "Di chi è la colpa?" e "Che cosa fare?". Dunque, come si può notare, una letteratura basata su questioni molto concrete ed esistenziali, ancorché trattate nella maniera più sublime possibile.

Oggi però la letteratura - diceva ancora Turbin - deve rispondere a una terza domanda, che per gli scrittori classici della sua nazione era stata fondamentale: "In che cosa credo?". Una domanda che sotto lo stalinismo e la stagnazione sembrava avesse una risposta scontata e che invece riuscì a trovarne una davvero convincente solo in maniera clandestina, ufficiosa, mettendo lo scrittore nella condizione di dover addirittura rischiare la propria vita.

Ufficialmente infatti la letteratura "sovietica" si era estraniata dalla vita, al punto ch'erano i critici a stabilire il criterio di "artisticità" di un'opera, senza neppure aspettare i riscontri da parte del pubblico. I lettori anzi dovevano essere condotti per mano ad acquistare i libri utili alla loro formazione ideologica e politica, come se fosse possibile includere in questa formazione anche quella "morale", "esistenziale", "spirituale", insomma "umana".

Il trattato di Tolstoj, In che cosa credo, aveva concluso la letteratura russa dell'Ottocento, chiamando in causa dio, in maniera eretica, e l'uomo, in maniera etico-filosofica. Il vertice politico del tolstoismo lo si vide nella prima rivoluzione russa (1905-07), che fallì per non essere stata sufficientemente risoluta e organizzata. Fu il canto del cigno di una cultura che aveva fatto il suo tempo, che doveva emanciparsi dal proprio secolare fatalismo, da tutte quelle concezioni religiose che la tenevano incatenata al passato. Con la rivoluzione del 1917 si entrava in una nuova epoca, quella dell'uomo che si costruisce da solo, senza alcun dio.

I contadini avevano aderito liberamente al programma dei bolscevichi, che prevedeva l'assegnazione gratuita delle terre espropriate ai latifondisti, e finché Lenin rimase in vita, l'alleanza operaio-contadina, pur fra alti e bassi, portò buoni frutti, tanto che si riuscì in breve tempo a eliminare la controrivoluzione interna e l'attacco armato delle potenze straniere. I tradimenti subentrarono con la nascita dello stalinismo che, a tappe forzate, a prezzo di milioni di morti, impose un devastante sviluppo industriale e un'insensata collettivizzazione rurale, dove in entrambi i casi lo Stato leviatano veniva a sostituirsi al vecchio dio patriarcale.

Di fronte a una catastrofe del genere, era impossibile tacere per un intellettuale onesto. Ma come si poteva mettere in discussione la più grande utopia della storia, quella che nel contempo presumeva d'essere un'alternativa sia al feudalesimo che al capitalismo? Solo clandestinamente si poteva, solo producendo una letteratura da samizdat, che in russo significa "edito in proprio", un fenomeno che pur essendo iniziato alla fine degli anni Cinquanta e durato sino alla glasnost introdotta da M. Gorbaciov, in realtà mise le prime radici sotto lo stalinismo, allorché vennero messe al bando tutte le opere dei bolscevichi che non collimavano con le interpretazioni dogmatiche del regime, impedendo altresì la lettura delle opere straniere che potevano esercitare influenze pericolose.

Il fenomeno del samizdat non esplose quando più era forte la dittatura stalinista, in quanto il regime aveva saputo abilmente strumentalizzare la vittoria sul nazifascismo per dimostrare la superiorità del sistema socialista, ma subito dopo la destalinizzazione inaugurata da Krusciov, quando ci si accorse ch'essa era stata solo un fuoco di paglia.

I primi samizdat furono riviste poetiche prodotte da un gruppo di giovani moscoviti: "Sintaksis", edita da Aleksandr Ginzburg, e "Phoenix", di Yuri Galanskov. Ma dopo l'uscita del terzo numero di "Sintaksis", Ginzburg fu condannato a tre anni di carcere, mentre Galanskov venne internato in un ospedale psichiatrico. A partire dal 1965, dopo l'arresto di A. Siniavsky e Y. Daniel, condannati per aver pubblicato le loro opere all'estero, i samizdat presero un'impronta più specificamente politica. Ginzburg descrisse il processo in un dossier trasmesso dalle emittenti radiofoniche europee di lingua russa. Nel 1968 egli fu nuovamente arrestato, insieme con altri collaboratori fra cui Galanskov. Intanto in occidente erano venute alla luce drammatiche testimonianze sul sistema carcerario sovietico, gli istituti psichiatrici e le persecuzioni ai danni di gruppi etnici e religiosi, oltre a importanti articoli del fisico Andrej Sacharov e dello scrittore Aleksandr Solženicyn.

Ormai la pentola a pressione era scoppiata. Ai tempi dello zarismo non si poteva vietare ai grandi intellettuali di scrivere, anche perché questi non chiedevano esplicitamente l'abbattimento della monarchia ma solo la fine del servaggio. E poi non manifestavano esplicite propensioni per l'umanesimo laico: non erano uno scandalo per la coscienza religiosa. La grande letteratura poteva anche servire come valvola di sfogo per quei ceti intellettuali che mal sopportavano le assurdità di un sistema anacronistico, di cui gli stessi organi di potere ormai si rendevano conto.

Ma lo stalinismo e il sistema socialista in generale non potevano essere messi in discussione, in alcuna maniera. E non lo saranno sino ai tempi di Krusciov. Nel 1956, durante il XX Congresso del partito comunista egli accusò Stalin di aver creato intorno a sé un "culto della personalità" contrario agli interessi dello Stato, e ne denunciò i crimini compiuti con le "grandi purghe". Krusciov impose un rinnovamento anche nell’economia cercando di potenziare l’agricoltura, piegata alla logica dell’industrializzazione forzata. Decentrò in parte le decisioni economiche dalla programmazione del governo ai centri produttivi, e permise una minima libertà di espressione agli intellettuali. La destalinizzazione non cambiò in profondità la società sovietica, ma portò alla sostituzione della classe dirigente staliniana più autoritaria.

Una timida svolta fatta presto rientrare nel 1964 dalla controffensiva della nomenklatura più retriva dei vari Breznev, Suslov, Cernienko, Andropov..., fino a quando non apparve sulla scena lo statista più illuminato che, dopo Lenin, la Russia abbia mai avuto: Mikhail Gorbaciov, le cui idee di socialismo democratico non ebbero però il tempo di farsi strada, in quanto un tentativo insurrezionale degli irriducibili stalinisti fu abilmente strumentalizzato da B. Eltsin, che con un colpo di mano estromise Gorbaciov dalla direzione del potere (1991), e successivamente, sfruttando la debolezza di una società civile troppo abituata a obbedire e poco avvezza a esercitare autonomamente la democrazia, realizzò la transizione della Russia verso il capitalismo. La libertà di stampa venne proclamata pochi mesi prima che Gorbaciov si dimettesse da tutte le cariche: il 17 aprile del 1991.

Vladimir Turbin sostiene che, dopo la morte di Lenin, una direzione autoritaria del paese non avrebbe potuto essere presa da Trotsky o da Bucharin o da Zinoviev. Solo Stalin possedeva l'intuito geniale che gli permetteva di creare "l'estetica della paternità statale", quella che agli occhi del popolo-bue lo autorizzava a sostituirsi legittimamente a dio, eliminando tutti gli altri "padri" della rivoluzione. Di qui la conseguente trasformazione della vita dello Stato in "epos", in cui esitazioni o polemiche non potevano esistere.

Era impossibile far sopravvivere una letteratura creativa in queste condizioni. Nel mondo tumultuoso dei romanzi i padri vengono criticati, giudicati, condannati o scagionati, raramente uccisi, e comunque non vi sono mai divino-umanità da adorare, nessuno può essere considerato immune da critica. Basti ricordare Padri e figli di Turghenev o I fratelli Karamazov di Dostoevskij o Pietroburgo di A. Belyi.

Viceversa sotto lo stalinismo il destino di un qualunque letterato era facilmente quello del lager o del manicomio e se, nonostante questo, sono stati prodotti incredibili capolavori letterari, spesso di molto superiori a quelli prodotti nella pluralista Europa occidentale, ciò lo si deve unicamente alla capacità di resistenza del popolo russo, che in sessant'anni di genocidio ha perduto qualcosa come venti milioni di persone, più altre venti dovute al nazifascismo. Nessun paese al mondo ha subìto dei danni di queste proporzioni. Ed è stupefacente vedere come, nonostante questa apocalisse (o forse proprio per questo), la Russia abbia continuato a produrre, molto di più sotto lo stalinismo e la stagnazione che non dopo la svolta del 1985, dei capolavori letterari di livello mondiale. Forse perché - come dice Vadim Kalinin - la letteratura russa offre il meglio di sé soltanto sullo sfondo di rivolte e calamità nazionali.

Cfr Tempi Nuovi, n. 35/1989 e Rassegna sovietica, n. 3/1985


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 10-02-2019