Ironia e tragedia in Thomas Mann

ironia E TRAGEDIA IN Thomas Mann

I - II

Thomas Mann

"In fatto di stile io ormai non conosco, si può dire, che la parodia".


BIOGRAFIA

Thomas Mann, uno dei maggiori scrittori del Novecento, nacque a Lubecca nel 1875. Il padre era un commerciante e senatore della città anseatica; la madre era di Rio de Janeiro, figlia di un piantatore tedesco e di una brasiliana creola-portoghese (a sette anni s'era trasferita in Germania). Nonostante la confessione cattolica della madre, Mann viene battezzato secondo la fede luterana del padre.

La madre aveva trasmesso al figlio Thomas, che suonava assai bene il violino, il suo straordinario senso musicale, e lo avviò anche alla lettura dei libri. Thomas ebbe anche due sorelle, entrambe suicide, un fratello minore, morto in sanatorio, e uno maggiore, Heinrich, con cui avrà modo di discutere animatamente nel libro Considerazioni di un impolitico (1918). Heinrich, chiaramente orientato a sinistra, fu autore di molti importanti testi, tra cui il celebre racconto Il professor Unrat, da cui fu tratto il film L'angelo azzurro, pellicola che lanciò Marlene Dietrich.

Thomas non arrivò neanche alla terza Scuola Tecnica, essendo troppo "pigro, cocciuto, pieno di sprezzante ironia", come dirà lui stesso nel 1907. In effetti utilizzava il suo tempo a leggere cose che con la scuola nulla c'entravano. D'altra parte lo interessavano solo testi di tipo umanistico.

Morto il padre, rinunciò a gestire l'azienda commerciale di lui e si trasferì con la madre nella città più artistica della Germania, Monaco, e qui cominciò a lavorare in una società d'assicurazioni, ma anche, a 19 anni, a scrivere i suoi primi racconti di fantasia (p.es. Il piccolo signor Friedemann, pubblicato nel 1898) nel settimanale politico e satirico "Simplicissimus".

Ben presto lasciò l'ufficio e andò a Roma col fratello Heinrich per ammirare da cima a fondo le sue bellezze artistiche. Fu proprio in quel periodo che scrisse I Buddenbrook, pubblicato poi, con grande successo, nel 1901 in due volumi: ne furono stampate un milione di copie; nella sua corrispondenza vi sono lettere d'ammirazione di Croce, Freud, Gide, Hesse...

Ritornato a Monaco, si arruolò volontario nel servizio militare, in quanto favorevole alla guerra (cfr Pensieri sulla guerra), ma, per motivi fisici, ne fu congedato dopo tre mesi.

A 29 anni sposa Khatarina (detta Katia) Pringsheim, figlia di un grande matematico universitario. Donna molta energica e volitiva (era di origine ebraica sia da parte di padre che di madre, benché questi fossero luterani), resterà vicina al marito sino alla morte, rinunciando alla propria carriera di chimica. Era lei che gli amministrava i diritti d'autore, correggeva le bozze, dettava le lettere e provvedeva alla cura dei sei figli (di cui il primogenito si suicidò).

A I Buddenbrook fecero seguito una serie di racconti e novelle, tra i quali in particolare Tonio Kröger (1903) e Morte a Venezia (1912), dove i principali protagonisti sono sempre giovani. Morte a Venezia è una delle opere più note al grande pubblico, anche grazie all’omonimo film del 1971 per la regia di Luchino Visconti e all’opera omonima (1973) del compositore Benjamin Britten.

Nel 1920 Mann ricevette un dottorato onorario dall'Università di Bonn e nel 1926 fu nominato professore del Senato di Lubecca.

Il romanzo La montagna incantata (1924), concepito in un primo momento come racconto breve, poi elaborato in un lavoro di più ampio respiro, fu ispirato dalle lettere che gli spediva la moglie dal sanatorio ove era in cura.

Nel 1926 scrisse Disordine e dolore precoce. Nel 1929 gli venne conferito il Premio Nobel per la letteratura. Mann era lusingato ma non stupito, essendo consapevole del suo valore. Sorprendente invece la motivazione del premio, che si riferiva quasi esclusivamente al romanzo I Buddenbrook, uscito 28 anni prima, non considerando il romanzo più recente La montagna incantata, da molti ritenuti almeno alla pari dell'altro. Il motivo è da cercare nel fatto che il comitato svedese che doveva scegliere il candidato era di orientamento conservatore e non apprezzava le opinioni liberali e democratiche dello scrittore del 1929.

Nel 1930 esce Mario e il mago, dove anche qui è protagonista un giovane. E nello stesso anno Mann, in un discorso nella sala Beethoven di Berlino, Appello alla Ragione, prese posizione contro il nazionalsocialimo. Nel 1933 tenne una celebre conferenza all'Università di Monaco, che costituì la sua ultima apparizione pubblica in Germania: Dolore e grandezza di Richard Wagner. In quell'occasione lo scrittore - grande appassionato wagneriano - criticò i legami tra il nazismo e l'arte tedesca, dei quali la musica di Wagner sembrava il simbolo più autentico. La conferenza infastidì non poco i nazionalisti presenti in sala, proprio in quei giorni che vedevano l'ascesa di Hitler al potere.

Mann non amava solo Wagner ma anche Nietzsche e Schopenhauer, i quali - a suo giudizio - "seppero essere antiliberali senza fare la minima concessione ad alcun oscurantismo". Gli dispiaceva comunque sentirsi giudicare un relativista e un nichilista.

Non capì subito il pericolo di Hitler, anzi, gli pareva che il nazismo potesse essere uno strumento per assicurare l'ordine socioeconomico minacciato dai socialcomunisti. Per questo rimase sconcertato all'idea di dover emigrare. Diceva di scrivere libri per i tedeschi non per il mondo, e che voleva essere una testimonianza per la Germania, non un martire costretto all'esilio.

Mann si trasferì all'estero nel 1933, perdendo gran parte del suo patrimonio, in particolare quello immobiliare, stabilendosi prima a Küsnacht, presso Zurigo, poi negli Stati Uniti, a Pacific Palisades, distretto di Los Angeles, località che già ospitava una nutrita comunità di esuli tedeschi. Nel 1937 venne chiamato all'Università di Princeton.

Tra il 1933 e il 1942 Mann pubblicò la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, ricca rielaborazione della storia di Giuseppe, tratta dalla Genesi, e considerata una dei suoi lavori più significativi. Il manoscritto fu salvato dalla confisca nazista grazie alla primogenita Erika, che lo consegnò al padre in Svizzera. Katia Mann appare in quest'opera nella figura di Rachel. La chiesa cattolica, giudicando l'opera relativista, la criticò duramente. In essa appare evidente che i tedeschi odiavano gli ebrei perché in realtà odiavano l'Europa, e quindi le fondamenta del mondo classico e quelle cristiane, di cui l'ebraica era parte organica.

Poiché il regime nazista lo aveva privato nel 1936 della nazionalità tedesca, nel 1944 diventò cittadino degli Stati Uniti. Durante il suo esilio, senza cessare di dedicarsi alla letteratura, pubblicò articoli e fece allocuzioni radiofoniche contro il nazismo.

Una delle sue ultime pubblicazioni è il capolavoro Doctor Faustus, del 1947, ove si narra la storia del compositore Adrian Leverkühn e della corruzione della cultura tedesca negli anni precedenti la seconda guerra mondiale.

Nel 1949, in occasione di un soggiorno in Germania, dove gli venne assegnato il "Premio Goethe", lo scrittore pronunciò dei discorsi pubblici di grande impatto a Francoforte e a Weimar. Ebbe la cittadinanza onoraria della sua città natale e, in tutta la sua vita, ottenne 18 lauree ad honorem.

Nel 1952 fece ritorno in Svizzera, ma non volle risiedere in Germania, nonostante venne proposto come primo Presidente della Repubblica. Morì di aterosclerosi a Kilchberg, presso Zurigo, il 12 agosto del 1955. Un ultimo grande romanzo, Le confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, pubblicato incompleto nel 1954, rimase incompiuto alla morte dello scrittore.

Nel 1975, nel ventennale della sua scomparsa, la moglie Katia ritenne di dover pubblicare i diari del marito. Lei morì nel 1980 a 97 anni, dopo esser sopravvissuta a tre dei suoi figli.

OPERE

Thomas Mann ha il rigore formale del tedesco e la fantasia del brasiliano. Una miscela esplosiva, che forse l'avrebbe fatto diventare uno scrittore ancora più grande, se fosse vissuto in Sudamerica, magari un altro Gabriel Garcia Marquez, a contatto con situazioni dove il degrado umano e ambientale si tocca con mano e non c'è bisogno d'inventarsi nulla. Sempre che non si fosse lasciato vincere dalla sua rinomata indolenza esistenziale (beninteso non intellettuale).

Invece ha vissuto nell'Europa decadente della prima guerra mondiale e, prima che scoppiasse la seconda, decise di abbandonare la sua amata Germania, senza mai più farvi ritorno, come se l'esilio non fosse cosa che potesse essere perdonata.

Tale decadenza si vede bene in tutti i suoi scritti, dove gli intrecci sono autentici labirinti interiori, in cui lui stesso sembra smarrirsi di continuo, pur dominando la forma linguistica con grandissima padronanza, senza che per questo si possa considerare Mann un vero genio della letteratura.

Si ha l'impressione ch'egli desideri continuamente giocare con l'ambiguità delle parole, dimostrando l'impossibilità di accedere a una verità delle cose. Nel far questo è come se portasse all'eccesso, sul piano intellettuale, un atteggiamento che aveva sin da quando frequentava la scuola superiore, che non poté terminare a causa della sua "sprezzante ironia", come disse di sé.

L'ironia a sistema, cioè fine a se stessa, non se la permetteva neanche Socrate, che aveva di mira l'esigenza di ricercare una verità personale, non apparente, non scontata. Mann invece è ironico perché sembra voler dare per scontato che non esiste alcuna vera verità e che tutto sia incredibilmente relativo.

In tal senso egli è sicuramente uno scrittore del Novecento, un disilluso, un Teseo che sa di aver bisogno di un'Arianna, dopo essere entrato nel labirinto di Minosse, ma non sa se Arianna esiste, anzi, quasi, inconsciamente non la desidera, preferendo stare nell'incertezza del percorso.

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Thomas Mann cominciò ad essere apprezzato in Europa negli anni Sessanta, dopo che s'era smesso di criticarlo per il suo rifiuto di tornare a vivere in Europa (la prima volta vi era tornato nel 1949, quando nella Weimar comunista si commemorava Goethe, uno dei suoi scrittori preferiti).

Il suo atteggiamento veniva preso, nell'immediato dopoguerra, come un affronto da parte della Germania occidentale, i cui critici letterari mal sopportavano l'antigermanesimo espresso nel Doktor Faustus, e se pur erano costretti a riconoscergli un certo talento espressivo, gli negavano la genialità del grande scrittore. I teologi protestanti lo attaccavano anche per il suo ateismo.

Ci vollero appunto gli anni Sessanta prima che qualcuno vedesse in lui addirittura un "mistico tedesco" che vive la verità attraverso l'errore, come disse Anna H. Wendriner. Ma questa interpretazione fu una forzatura che certamente Mann non avrebbe condiviso.

Il suo massimo critico, Erich Heller, vedeva in lui, più che altro, un artista sopraffine nell'uso dell'ironia, costantemente intenzionato a mostrare la serietà della verità attraverso l'ironia dell'errore, senza sapere tuttavia come dominare quella stessa ironia, e rischiando così di cadere in un poco sopportabile relativismo di maniera, ch'egli peraltro accentuava con la raffinatezza barocca del suo linguaggio.

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L'arte di Thomas Mann, indubbiamente, si crea e si distrugge di continuo, in ossequio ai suoi indiscussi maestri: Schopenhauer, Nietzsche e Wagner. I suoi capolavori narrativi hanno come protagonisti degli individui o in crisi (Tonio Kröger) o artisti naufraghi e falliti (Hanno Buddenbrook, Gustav Aschenbach, Adrian Leverkühn) o artisti-attori fasulli (Felix Krull).

I Buddenbrook, suo primo capolavoro, risentono completamente dell'influenza di questi maestri, i quali non lo portarono su posizioni nettamente irrazionalistiche proprio perché egli amava applicare l'ironia anche su di loro. Il giovane Thomas Mann voleva essere un artista, un esteta, senza far mostra di alcuna precisa responsabilità etica. Almeno così appariva nei suoi primi racconti romanzati.

Come Schopenhauer, Mann era pessimista e ateo, e ciò si riflette molto bene nel rapporto tra il vecchio Buddenbrook, capace solo di pensare al proprio successo economico, e il piccolo pronipote Hanno, in cui aumenta lo spirito nella misura in cui diminuisce la volontà: l'arte (nella fattispecie la musica, non priva di carica erotica) deve vincere l'insensatezza della vita egoistica, anche se alla fine l'eroe che l'incarna, il giovane Hanno, soffre d'una malattia che lo porterà a morire. Infatti, solo morendo l'arte, una volta raggiunto lo spirito, può non corrompersi: essa non sarebbe in grado di fronteggiare l'irrazionale volontà di potenza, che rende l'uomo sempre schiavo di qualcosa.

Da notare che tutti i suoi libri trattano del tema della morte, come fenomeno catartico, soteriologico. Forse per questo i critici han visto in lui qualcosa di "mistico", ma si tratta sempre di una mistica "irrazionale".

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In Tonio Kröger, scritto subito dopo I Buddenbrook, l'arte fa mostra di amare la vita, perché considera la vita come fonte d'ispirazione, soprattutto nei suoi aspetti di povertà dello spirito e di comicità.

"La letteratura - dirà Mann - non è una vocazione ma una maledizione", poiché non permette di vivere una vita normale, a fianco di persone comuni. Se si è troppo "uomini" si smette d'essere "artisti", si diventa prosaici, pedanti, banali.

Mann è affascinato dall'idea di poter affermare il proprio egocentrismo, senza cadere nei vortici nicciani della volontà di potenza. Non vuole essere un nichilista, ma soltanto uno che ama scherzare col fuoco, che non vuole prendersi troppo sul serio, almeno non sul piano esistenziale: il suo impegno vuole essere meramente intellettuale, che è l'ambito in cui può descrivere il non-sense della vita con distaccata ironia.

La vita vera, quella pratica, sarà, in questo suo modello di artista, una sorta di aurea mediocritas, ma ciò viene ritenuto sufficiente per non conformarsi passivamente ai criteri standard (venali) della borghesia. Il suo amore per la vita sarà fatto più che altro di "desiderio", non di esperienza etica.

Tonio Kröger è in fondo un'opera lirica, non drammatica, e certamente venata di autobiografismo. Mann non vuole uscire dalla vita borghese; anzi, due anni dopo questo romanzo deciderà di sposarsi con una donna della ricca borghesia, pensando unicamente alla famiglia e ai figli.

La produzione letteraria sino al 1910 sarà alquanto insignificante. Solo con Morte a Venezia, del 1911, che narra la storia di un artista naufrago, emerge di nuovo con prepotenza il genio di Thomas Mann.

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In Morte a Venezia, che è la più perfetta opera d'arte (in senso estetico) di Thomas Mann, il protagonista, cioè lo scrittore Gustav von Aschenbach, non rappresenta solo un insieme di spirito e arte, alla Schopenhauer, ma anche un certo senso dell'eticità.

Mann arriva a questo non solo in virtù del matrimonio e della vita familiare, ma anche in virtù del fatto che l'impegno letterario, se non vuole banalizzarsi, esige un rigore e un impegno di notevoli proporzioni, che d'altra parte è necessario anche per poter coltivare una certa aspirazione alla rinomanza mondiale, che non può esaurirsi nel conferimento del premio Nobel della letteratura.

Tuttavia, partendo da premesse nichiliste, l'etica si svolge secondo modalità non convenzionali: Aschenbach è innamoratissimo del giovane Tadzio, in nome di un ideale di bellezza che si vuole assoluto, come una forma di religione, ma che resta irraggiungibile.

Il poeta - scrive Mann in quel romanzo - non può essere saggio o dignitoso, deve per forza perdersi, essere dissoluto e avventuriero nei propri sentimenti. Un artista non può essere un educatore, ma al massimo un imbonitore che sfrutta le illusioni altrui e che, proprio mentre sembra grande, in realtà è un disperato. "Noi poeti non possiamo farci forza, possiamo solo buttarci via".

Tadzio è un narciso e viene desiderato da un cinquantenne che in fondo ama solo la propria passione per lui e di cui morirà, senza poter avvisare il suo amato del pericolo epidemico che incombe sulla città. La morte è una liberazione dalle proprie contraddizioni (che sono anche quelle tra rispettabilità borghese e tendenza omosessuale).

Un'opera tragica, si dirà, però paradossale, in quanto l'arte viene condannata per mezzo dell'arte.

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Dopo quest'opera ci vorranno altre tredici anni prima che Mann riesca a partorire un nuovo capolavoro: La montagna incantata (1924), che segna una svolta importante verso idee più liberali e democratiche, portandolo a un certo riavvicinamento al fratello Heinrich.

In quei tredici anni compose altre opere di minor valore: le prime settanta pagine del Felix Krull, il saggio storico su Federico II e la grande coalizione, le Considerazioni di un impolitico (che sono una sorta di prima guerra mondiale combattuta con la penna), un lungo saggio su Goethe e Tolstoj e altro ancora.

Il corposo romanzo della Montagna, opera della piena maturità, fu ispirato da una visita alla moglie malata di tubercolosi in un sanatorio di Davos in Svizzera. L'eroe non è un artista ma un giovane ingegnere amburghese che s'ammala di tbc e viene iniziato a un'esplorazione spirituale di labirintica complicazione.

Da una vita borghese malata il protagonista, Hans Castorp, passa a una malata vita spirituale, di cui la "montagna" è simbolo, ed è "incantata" perché nella malattia dello spirito ci si perde come in un labirinto.

Castorp viene preso in un vortice d'interminabili discussioni filosofiche con altri due malati di orientamento ideale opposto: prima con l'italiano umanista ed enciclopedista Lodovico Settembrini, allievo di Giosuè Carducci (in cui la critica ha creduto di vedere il fratello di Thomas, Heinrich), poi col gesuita Leo Naphta, la cui filosofia a tratti cinica e radicale fa da contraltare alle posizioni moderate dell'italiano (in cui la critica ha visto lo stesso Mann, che s'era particolarmente interessato alle opere di Ignazio di Loyola e che si era già scontrato col fratello nelle Considerazioni di un impolitico e, prima ancora, nei Pensieri sulla guerra).

Hans Castorp rappresenta colui che intende andare oltre la polarizzazione dei due fratelli. Al tempo della prima guerra mondiale infatti Thomas sosteneva gli Imperi, mentre Heinrich l'Intesa. Al saggio su Federico II, in cui si esaltava la volontà di potenza dell'imperatore, che aveva voluto l'invasione della neutrale Sassonia nella guerra dei Sette Anni (così come la Germania aveva invaso il Belgio nella prima guerra mondiale), Heinrich aveva risposto da Roma con un saggio su Zola, un vero atto d'accusa contro la Germania, contro la sua guerra e i suoi patriottici scrittori, tra cui lo stesso Thomas, il quale appunto replicò nel 1918 con l'interminabile dialogo delle Considerazioni.

Heinrich aveva scelto il socialismo liberal-democratico, mentre Thomas si autodefiniva un "impolitico", favorevole però al germanesimo contro la latinità, e al nazionalismo contro l'internazionalismo.

Nella successiva produzione Mann starà molto più attento a non esaltare la pura volontà di potenza e ammetterà che le critiche del fratello avevano colto nel segno.

Nelle Considerazioni s'era giustificato dicendo che la disperazione gli appariva una condizione umana più morale dell'ottimismo parolaio rivoluzionario; dunque meglio il nichilismo pessimistico che la fede nella democrazia del progresso, che è retorica e illusoria.

Un'autodifesa debole, anche perché Thomas usava argomentazioni mistiche contro l'ateismo di Heinrich. Egli infatti era convinto che dal nichilismo sarebbe nato un nuovo modo di concepire il mistero delle cose, l'assoluto ecc., al punto che sembra essere favorevole a una concezione "sacramentale" dello Stato contro quella contrattuale-sociale. Oppone l'aristocrazia alla democrazia, la Kultur alla Civilisation: il che, in campo filosofico e letterario, voleva dire opporre la natura vitalistica alla ragione, l'ironia alla retorica, la musica alla letteratura, l'inesplicabile alla chiarezza, il pessimismo umanistico all'ottimismo sociale, l'immoralismo e il vizio al moralismo e alla virtù (che gli appaiono retorici), la tradizione alla rivoluzione, il conservatorismo al progressismo, il Romanticismo del sec. XIX all'Illuminismo del secolo precedente, la contemplazione all'azione, la guerra al pacifismo ad oltranza, il borghese disciplinato tedesco al borghese liberale franco-latino, Schopenhauer e Nietzsche a Rousseau e ai giacobini. E non gli piaceva neppure D'Annunzio, considerato un "pagliaccio politico-estetico". Detestava Mazzini, poiché vedeva in lui solo il "massone latino", il letterato della rivoluzione, il retore del progresso. Tanto meno stimava Beccaria, che aveva eliminato la pena di morte.

Se doveva scegliere a livello artistico e letterario o filosofico, preferiva quelli che per lui erano stati campioni dei valori metafisici sofferti, interiorizzati, come Dostoevskij, Tolstoj, Eichendorff, Goethe, Claudel, Palestrina, Kleist, Pascal, Strindberg, Cézanne, Flaubert, Barrés...

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A un uomo così apparve del tutto insensato dover espatriare al tempo del nazismo. Mann non riusciva a rendersi conto che il suo estetismo, la sua posizione eclettica e stravagante poteva essere tollerata solo in una società non autoritaria, o comunque in assenza di un partito di governo che pretendesse, col proprio autoritarismo, di compiere una rivoluzione epocale.

Lui voleva protezione da uno Stato che se si fosse comportato secondo il suo stile di vita, non avrebbe potuto affermare alcuna volontà di potenza; e quando il nazismo, attraverso la dittatura, cercherà di uscire dal caos di una democrazia più anarchica che sociale, soggetti come Thomas Mann, disorganici a qualunque potere politico, non potevano che dare fastidio.

Pur di apparire politicamente corretto, egli arrivò persino ad addolcire le asprezze, i radicalismi, gli ateismi dei suoi due principali ispiratori: Nietzsche e Schopenhauer e sino all'ultimo non volle credere di doversi difendere dai nazisti con l'esilio, che determinerà, peraltro, la perdita quasi completa del suo patrimonio.

Paradossalmente si dichiara entusiasta di Cézanne, giudicandolo un "conservatore e pio cattolico"; di Claudel, di cui apprezza enormemente L'annuncio fatto a Maria; di Palestrina, per la sua musica liturgica e la sua simpatia per la morte.

Contesta la separazione della politica dalla religione, come invece chiedevano gli illuministi francesi e i liberali dell'Ottocento. E siccome riteneva ineliminabili i conflitti sociali, temeva che questi potessero esplodere senza un conforto interiore di tipo mistico, pur lontano da ogni metafisica dogmatica.

Il suo tipo ideale di homo religiosus era quello esistenzialista di Dostoevskij, nettamente opposto a quello triviale dei latini. Guardando l'opera di quest'ultimo, Mann dichiarava che se mai avesse dovuto "credere" in qualcosa, avrebbe preferito dio all'umanità, e in ogni caso per lui l'umanità aveva più bisogno di credere in dio che nella democrazia.

Ovviamente Mann non era un credente "confessionale", schierato, però sosteneva che l'anelito religioso, pur con tutti i suoi dubbi e sbandamenti, anzi proprio per questo, era sicuramente da preferire alle sicurezze dei non-credenti. Tuttavia, anche se apprezzava taluni letterati cattolico-francesi, sosteneva che l'artista è "protestante per necessità e per nascita", essendo solo davanti a dio.

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Dunque, se è vero che nella Montagna incantata l'apertura a istanze di tipo etico assume un contorno vagamente religioso, l'opera resta comunque labirintica e ironica, in quanto Hans Castorp lascia distruggersi a vicenda il gesuita e l'italiano, mantenendosi prudentemente equidistante, a motivo dell'impossibilità di fare una scelta in mezzo ai loro ragionamenti sopraffini.

Mann ha sempre avuto paura d'impegnarsi nell'attività politica: la giudicava troppo noiosa per un egocentrico come lui. Ecco perché in quest'opera è nel suo interesse mostrare che una qualunque scelta tra due posizioni opposte è impossibile. L'artista deve limitarsi a contemplare la realtà e a riprodurla artisticamente, anche se il protagonista della Montagna è un borghese qualunque, un mediocre, che tuttavia Mann prende molto sul serio, poiché questo "eroe" sui generis si pone domande esistenziali, che saranno quelle per le quali andrà volontario a combattere e a morire per la patria in guerra.

Nella parte finale del romanzo inizia a serpeggiare nel sanatorio una forte insofferenza e inquietudine; simbolo probabilmente della fine della Belle époque, ma anche delle future contraddizioni della Repubblica di Weimar.

Il senso della vita appare dunque nella necessità di fare qualcosa oltre il proprio dovere. La vita acquista significato passando attraverso la morte, una morte da eroe o da martire, anche perché Castorp è convinto di non poter vivere nessun altro tipo di vita (e in questo romanzo la morte è protagonista indiscussa). Anche quando s'innamora della bella malata russa, Claudia Chauchat, si rende ben presto conto che più che ascoltare una musica che simboleggi il suo amore per lei, non può fare.

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La tendenza mistica, seppur all'interno di una religione del tutto laicizzata, trova la sua conferma in quei sedici anni (1926-42), di cui una decina passati in esilio, dedicati alla stesura della storia romanzata di Giuseppe e i suoi fratelli: duemila pagine interpretative dell'ebraismo e delle religioni pre-bibliche.

Giuseppe è per lui un uomo spirituale e vitale, uscito, non per sua volontà, da una religione (l'ebraismo) e piombato in un'altra (il politeismo egizio) del tutto diversa, diventando, per ironia della storia, un "salvatore" sia per gli uni che per gli altri.

Il testo è un capolavoro di psicologia, ma anche di antropologia religiosa, in quanto non poteva essere scritto senza ampi e profondi studi storici e scientifici, benché un teologo guarderebbe inevitabilmente con molto sospetto il sincretismo manniano, per non parlare della sua onnipresente tendenza parodistica. A nessun credente piacerebbe una "teologia dell'ironia", anche perché il dio di cui lui tratta non è il creatore dell'uomo, ma una sua proiezione, benché questo non venga mai detto esplicitamente.

Il dio che presenta Mann è un essere onnipotente che, per essere se stesso, deve fare, proprio come l'uomo, l'esperienza del male, da cui poi deve riscattarsi. La purezza originaria la si riacquista riemergendo dal fango, e questo, se è vero per l'uomo, lo è anche per dio, proprio in quanto un dio al di fuori dell'uomo è semplicemente un non-senso, e se, nella sostanza, è uguale all'uomo, è impossibile che in lui non siano intrecciati il bene e il male. Senza il male il bene non si comprende.

La filosofia di questo complesso romanzo resta tenacemente legata a Schopenhauer, ma si avvale anche della teologia gnostico-manichea e, più in generale, delle religioni dualistico-pessiministiche, per le quali bene e male procedono nella storia senza mai riuscire a separarsi. Chi pensa di poterlo fare, illudendosi, è l'ecclesiastico, il titolare del "regno del rigore", che dio disprezza proprio perché lo reputa infantile nel suo schematismo.

Sotto questo aspetto Mann appare più ottimista di quel che non sembri, poiché, nella lotta tra bene e male, vede questo in funzione di quello. Certo il male non è solo possibile ma necessario (cosa che un teologo non potrebbe ammettere); tuttavia anche il bene lo è, e il bene vince il male proprio grazie all'ironia, che è distacco dalle fissazioni paralizzanti, dai fanatismi dogmatici. Sepolto nella fossa, Giuseppe "ride". E' impressionante qui il rapporto tra Mann e il Kierkegaard precedente alla Malattia mortale.

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Che la soluzione ironica della enorme tetralogia dedicata a Giuseppe non potesse essere la più convincente, è dimostrato dal fatto che, appena conclusa l'opera, Mann, già settantenne, si mise a scriverne una di tutt'altra natura, Doktor Faustus, dove da un ottimismo para-religioso di maniera si passa a un pessimismo demonologico tendente al tragico. Quanto in questo l'avesse influenzato lo conclusione della seconda guerra mondiale, è facile capirlo. L'ironia, in mezzo a quella immane tragedia, era diventata fuori luogo. Dalla "fossa" Giuseppe era potuto uscire per stare meglio di prima; milioni di combattenti e di civili inermi vi sarebbero invece rimasti per sempre.

Già all'inizio del 1943 la sconfitta della Germania si profilava come inesorabile, anzi da tutti auspicabile, poiché il suo non era solo un anticomunismo viscerale, su cui la borghesia poteva trovarsi d'accordo, ma anche un insopportabile antiliberismo. Questo era un motivo sufficiente per scrivere un libro "infernale". Ecco perché l'ironia deve assumere la maschera della tragedia (come avverrà appunto nella Malattia mortale di Kierkegaard).

Lo stesso Mann, d'altronde, lo dice chiaramente: "La parodia potrebbe essere allegra, se non fosse così sinistra e triste nel suo nichilismo aristocratico". Il che in sostanza voleva dire che l'ironia fine a se stessa è già, di per sé, una forma di disperazione, con la differenza che non si prende sul serio.

Il romanzo, scritto negli Stati Uniti e pubblicato a Stoccolma nel 1947, è indubbiamente la rappresentazione artistica, attraverso la musica dodecafonica, del niccianesimo e, se vogliamo, del nazismo. La musica di Adrian Leverkühn è quella di Schönberg, che aveva già avuto da T. Adorno, con cui Mann era in contatto, una giustificazione filosofica.

Senza l'aiuto di un "demonio" diventa impossibile fare una musica originale, poiché il musicista sa troppo di storia delle tecniche musicali; la sua creatività è fagocitata da un background culturale di cui non può più fare a meno. Non solo, ma l'artista sa anche troppa verità negativa per poter comporre con fantasia; e non può fingere di non conoscerla, usando lo strumento della parodia, perché sa altrettanto bene che questo sarebbe solo un sotterfugio patetico. Questo il senso recondito della premessa del romanzo.

Per sottrarsi a questo incubo paralizzante, Leverkühn aveva inventato il sistema atonale dodecafonico, che con tutte le sue dissonanze polifoniche aveva spezzato l'ordine delle sette note, portando a compimento quell'anarchia musicale che Beethoven aveva iniziato con le sue ultime Sonate (in particolare con l'ultimo tempo della sonata n. 32 in do minore op. 111, fatta oggetto di analisi in uno dei capitoli del romanzo).

E che cosa aveva ottenuto il compositore? Nulla, se non il ritorno al caos anarchico antico da cui appunto il sistema tonale aveva riscattato i suoni. La musica era diventata, per Leverkühn, del tutto astratta, mera tecnica. Di qui l'esigenza di un patto col diavolo. La ricerca di una superarte fa pendant con la ricerca nicciana del superuomo. Occorre cioè acquisire un potere che vada oltre il bene e il male.

Il Dottor Faust è una metafora del crollo della Germania nazista. E' come se avesse detto che i tedeschi sono troppo intelligenti e orgogliosi per accettare delle amare sconfitte; devono prima far pagare ad altri le loro frustrazioni e, se proprio non vi riescono, possono sempre autodistruggersi.

Leverkühn, per diventare un genio dell'arte, dopo aver venduto l'anima al diavolo, aveva bisogno di frequentare un bordello e di prendersi la sifilide, che avrebbe stimolato il suo cervello fino a farlo impazzire. Unica e irripetibile la musica sarebbe stata assicurata e l'artista si sarebbe sentito ispirato come un dio, simile allo Zarathustra di Nietzsche.

Una conclusione sconcertante, che ci costringe ad addebitare a Thomas Mann, esattamente come a Nietzsche, la responsabilità di aver voluto arbitrariamente identificare l'ateismo con l'irrazionalismo. La sua summa demonologica viene usata ancora oggi dai critici credenti come prova della disumanità di una qualunque posizione irreligiosa. Queste forme nichilistiche sembrano volerci illudere che dalla civiltà borghese non si possa uscire se non attraverso la follia.

Testi di Thomas Mann


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Letteratura
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Aggiornamento: 10-02-2019