IL ROMANZO DALLA CRISI DEL POSITIVISMO A "SOLARIA" |
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3. Riviste, frammento, romanzo Fenomeno centrale della cultura nel periodo schizzato nel paragrafo precedente è costituito dalle riviste. Uno sguardo, anche se sommario, ad alcune significative riviste ci permetterà di cogliere gli aspetti ideologici e letterari (come sempre, l'interesse sarà per la narrativa, per la questione del romanzo) del periodo che va dall'età di Giolitti alla costituzione dello stato totalitario.
Né va trascurata l'affermazione del diritto italiano al "primato", un primato che Papini intendeva, almeno in un primo momento, come fatto culturale, come primato nella cultura europea, non primato di tipo politico ed economico. Politico ed economico era invece il primato che auspicava per l'Italia "Il Regno" (1903-1906), fondato da Enrico Corradini (1865-1935). In questa rivista vennero elaborati alcuni miti della ideologia nazionalistica (tra gli altri quello della "nazione proletaria", che ebbe fortuna; su tali miti si fonda la direzione conservatrice del populismo in Italia, si veda in proposito "Andare verso il popolo": populismo e alienazione, sul racconto Andare verso il popolo e sul romanzo La romana di Alberto Moravia), e anche qui era presente l'avversione per la "mentalità democratica", per la collaborazione fra borghesia liberale e socialisti riformisti. Si riteneva necessaria una "riforma morale", e gli intellettuali dovevano farsene promotori, assumendosi il compito di educatori, rivalutando così la funzione politica della cultura. "Hermes" (1904-1906), fondata da Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), partiva da un esplicito interesse per la letteratura e da una dichiarata ammirazione per D'Annunzio. Ma il discorso letterario era base di un discorso politico, fondato sull'estetismo, sul nazionalismo, sulla affermazione della superiorità della razza latina, in vista di un preteso riscatto della nazione italiana.
Quando nel 1911 scoppiò la guerra di Libia, Salvemini fu decisamente contro la guerra, mentre Prezzolini intendeva mantenere una posizione neutrale. Salvemini lasciò la rivista e ne fondò un'altra, "L'Unità", nel 1911. Prezzolini diresse "La Voce" fino al 1914 (ad eccezione di un breve periodo, 4 aprile - 31 ottobre 1912, in cui direttore fu Papini, il quale nel dicembre dello stesso anno fondò insieme con Ardengo Soffici (1879-1965) ancora una rivista, "Lacerba": vicina in un primo momento al futurismo, cessò le pubblicazioni nel maggio 1915); dal 1914 al 1916 "La Voce" fu diretta da Giuseppe De Robertis (1888-1963), che la trasformò in rivista letteraria, sostenitrice dell'autonomia della letteratura. In sostanza, le fasi della storia della rivista sono due: la prima sotto la direzione Prezzolini (in un primo tempo con l'influenza di Salvemini), la seconda sotto la direzione di De Robertis. La prima fase è caratterizzata, per così dire, da una doppia faccia.
Fermiamoci per il momento qui. Ciò che le riviste mettono in luce è un fronte intellettuale avverso allo stato liberale, e al tempo stesso 'organico' in buona parte a settori delle classi dominanti (basti pensare che i nazionalisti, come già notato, vengono sostenuti dalle industrie siderurgiche). Luperini [op. cit. 1981: pp. 49-50] ha inquadrato ottimamente il fenomeno:
Si spiega così l'ambivalenza del comportamento degli intellettuali del primo Novecento, del loro sovversivismo oscillante fra l'espressione delle istanze più radicali della classe dominante e la polemica contro di questa, sorretta prevalentemente da spinte anarcoidi, nelle quali si manifesta però un reale disagio sociale. L'esigenza di impegno che tutte le riviste giovanili mostrano nei primi anni del secolo sino allo scoppio della prima guerra mondiale nasce dalla coscienza che gli intellettuali possono, in quanto tali, avere ancora una funzione sociale, anche se (s'intuisce) diversa dal passato: di qui il successo di una formula pubblicistica (la rivista di politica e di cultura) destinata ad avere un notevole sviluppo in epoca più recente. Tale volontà di protagonismo da parte degli intellettuali trova il punto d'arrivo nella mobilitazione a favore dell'intervento italiano nella guerra mondiale: in nome di ragioni economiche (l'espansionismo determinerà la prosperità) e di prestigio (l'Italia deve raggiungere una posizione di forza fra gli stati europei, sono argomenti, questo e il precedente, già elaborati da "Il Regno"); in nome di ragioni morali (la guerra determinerà uno sviluppo delle virtù umane, è un argomento de "La Voce"); in nome della "igiene del mondo", cioè la guerra è la necessaria medicina per una età di decadenza e di corruzione (così pensano i futuristi); in nome della necessità di portare a compimento l'unità nazionale e gli ideali del Risorgimento (è la tesi di Salvemini). In ogni caso: l'opposizione a Giolitti, o ancora di più: l'avversione, l'odio e il livore nei confronti dei parlamento, del socialismo, della politica giolittiana a favore di una collaborazione fra liberali e socialisti riformisti, costituiscono il cemento della propaganda interventista che riesce a conquistare strati dell'opinione pubblica, anche se non la maggioranza.
Dato che stiamo parlando di riviste, diciamo subito che dal 1903 al 1944 l'impegno di Croce fu in buona parte rappresentato da "La Critica", la sua rivista di storia, letteratura e filosofia. Ancora una volta mi sembra adeguato citare l'ottima sintesi di Guglielmino (ivi: I/79):
Inoltre, bisogna tenere ben presenti gli interessi storiografici del filosofo (Teoria e storia della storiografia, 1917, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 1928, Storia d'Europa nel secolo XIX, 1932, La storia come pensiero e come azione, 1938), là dove l'interesse filosofico è in rapporto con il tentativo di capire il valore della storia; e ancora non bisogna dimenticare che in un primo momento Croce fu vicino al marxismo e al socialismo (fu allievo del filosofo marxista Antonio Labriola), e poi ebbe interesse per le teorie di Sorel. L'amicizia con Giovanni Gentile (43) indusse Croce a riesaminare il pensiero di Hegel e ad allontanarsi dal socialismo. Il distacco dal socialismo lo portò a posizioni conservatrici e, dopo la guerra, nel periodo di agonia dello stato liberale, a considerare il fascismo come un movimento in grado di restaurare l'autorità dello stato contro la disgregazione sovversiva. Quando, a partire come abbiamo visto dal 1925, il fascismo mostrò la sua natura totalitaria, Croce divenne oppositore, ruppe l'amicizia con Gentile, rivalutò la visione del mondo liberale, come fondamentale forma ideologico-politica, come "religione della libertà", e nel Partito liberale militerà dopo la seconda guerra mondiale. La "filosofia dello spirito" di Croce si articola su due aspetti "teoretici" ("estetica" e "logica"), che rappresentano l'attività conoscitiva, e due aspetti "pratici" ("economia" e "morale"), che rappresentano l'attività di concreta trasformazione della realtà. La dialettica che caratterizza i rapporti fra le categorie non è solo di opposizione (opposizione vi è all'interno delle categorie, nel senso che, per es., "bello" e "brutto", che appartengono all'attività estetica, si oppongono fra di loro, e così fanno "vero" e "falso", all'interno della logica, "utile" e "inutile", all'interno della economia, "buono" e "cattivo", all'interno della "morale"), ma anche di distinzione, nel senso che "bello", "vero", "utile", "buono" non si negano, non si superano, ma rimangono dei "distinti". Il legame consequenziale fra tali "distinti" è dato dal fatto che essi si implicano secondo una direzione ben precisa: la logica, il momento di riflessione filosofica, implica l'estetica, il momento di intuizione tipico dell'arte, sicché può esistere intuizione estetica senza logica, non può esistere logica senza intuizione; e così può esistere l'utile senza la morale, ma non può esistere la morale senza la consapevolezza dell'utile. Questi rapporti di implicazione (anche al macrolivello: attività teoretica e attività pratica si implicano in una sorta di moto circolare) assicurano la unitarietà dialettica della vita dello spirito. E l'estetica si pone chiaramente alla base, come attività anteriore, prioritaria. Estetica, cioè arte, significa intuizione, significa espressione di immagini, significa cogliere l'individuale; dopo viene il momento logico, critico, la distinzione fra vero e falso. Il critico d'arte deve innanzi tutto 'sentire', rivivere, la fase intuitiva dell'artista, e quindi giudicare fino a che punto l'artista sia riuscito a concretizzare l'intuizione liberandola da ogni 'sovrastruttura' ideologica e morale. Il sistema razionale e idealistico di Croce reagiva tanto al positivismo quanto ad altri antipositivismi, irrazionali come quelli rappresentati dalle riviste alle quali sopra si è accennato, oppure antistorici o spiritualisti, come quelli rappresentati da De Roberto e dall'ultimo Capuana. E reagiva anche contro Pirandello. Quando questi pubblicò il saggio L'umorismo (1908), in cui sosteneva che la poetica dell'umorismo si fonda sulla riflessione (e non certo sull'intuizione), in quanto è la riflessione che trasforma il comico, come "avvertimento del contrario", nell'umorismo, come "sentimento del contrario" (44) Croce espresse un giudizio del tutto negativo (45). In conclusione, il ruolo di Croce è innovatore e conservatore al tempo stesso, o, se si vuole, esso è caratterizzato da una "equilibrata conservazione", come dice Guglielmino [op. cit. 1971: I/82], al quale lascio ancora la parola:
Ritorniamo a "La Voce", diretta nella seconda fase della sua storia da Giuseppe De Robertis. Questi era un critico letterario antiaccademico, che riteneva che la critica dovesse "partecipare della natura della poesia", rivivere l'opera degli autori presi in esame (cfr. Luperini [op. cit. 1981: p. 195]), e in questo egli faceva sue le idee di Croce. A Croce però De Robertis contestava la chiusura nei confronti della poesia moderna; inoltre egli, a differenza di Croce, metteva in primo piano l'analisi formale del componimento letterario (cfr. Avalle (a cura di) [46]).
La sua direzione de "La Voce" è importante per tre ragioni: perché la rivista mostra ora un interesse particolare per autori nuovi, come Giuseppe Ungaretti e Aldo Palazzeschi; perché la rivista cambia la prospettiva di Prezzolini (e del resto, in modi diversi, di tutte le altre riviste), cioè non propone più la necessità del rapporto fra artista e politica, ma anzi proclama la autonomia dell'arte, e si trasforma in rivista che vuole essere puramente letteraria; perché la rivista (De Robertis stesso in prima linea) elabora la poetica del frammento, cioè l'idea secondo cui l'arte si realizza nella forma breve, non solo ovviamente per quanto riguarda la lirica, ma anche per quanto riguarda la prosa: pure la prosa deve tendere all'intensità lirica, e dunque essere prosa d'arte, frammento. Questa linea di 'ritorno all'ordine' della letteratura viene ripresa e portata avanti dalla rivista "La Ronda" (1919-1923), che contesta complessivamente il velleitarismo degli intellettuali e delle riviste del primo quindicennio del secolo, la loro pretesa di protagonismo politico, propugna un ritorno all'ordine, alle cure letterarie, e, per quanto riguarda la narrativa, alla prosa breve, raffinata, pulita, calligrafica. Questo punto ci permette ora di affrontare la questione della narrativa e, specificamente, del romanzo nella vicenda culturale fin qui schizzata. La narrativa italiana è caratterizzata, diciamo per il momento fino allo scoppio del primo conflitto mondiale, dalle seguenti tendenze. Rimane per alcuni scrittori il modello verista, si pensi a Il marchese di Roccaverdina di Capuana che è del 1901, anche se tale modello mostra quella crisi di cui abbiamo parlato. In questa tendenza va notata la novità della narrativa femminile: spicca il bellissimo Una donna (1906) di Sibilla Aleramo (vero nome Rina Faccio, 1876-1960). Bastino su tale opera le parole di Tateo / Valerio / Pappalardo [op. cit. 1985, vol. 3, tomo II: p. 370]: "la novità di questo romanzo consiste [...] nella sincerità e spregiudicatezza della confessione autobiografica, e più ancora nell'acuta e lucidissima anatomia della condizione femminile che in esso è condotta. Per la prima volta, infatti, la letteratura ospitava una analisi così spietata, e una altrettanto appassionata denuncia, dei meccanismi di sopraffazione e di coercizione di cui le donne sono quotidianamente vittime, della violenza cui soggiacciono per effetto di inveterati pregiudizi, di convenzioni sociali antiche e nuove, degli odiosi principi di una morale filistea." Vi sono, poi, una tendenza sperimentale, legata al futurismo, e una tendenza sperimentale legata a "La Voce". Il movimento futurista fu fondato da Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), che scrisse il 'manifesto' di fondazione del movimento, pubblicato il 20 febbraio 1909 su "Le Figaro"; egli scrisse inoltre il Manifesto tecnico della Letteratura Futurista (1912), Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica (1914), e a questi testi va aggiunto Primi principi di una estetica futurista (1920) di Ardengo Soffici. I cardini dell'estetica futurista sono noti: l'autonomia dell'arte è un fatto superato, l'arte deve trovare il suo posto nello sviluppo capitalista e nella civiltà industriale, deve amplificare il trauma costituito dalla civiltà moderna, deve provocare e distruggere la vecchia cultura fatta di biblioteche, accademie e musei. Sul piano strettamente tecnico-linguistico, viene propugnata la fine della sintassi, l'uso del verbo all'infinito, l'esaltazione delle 'parole in libertà', l'analogia come collegamento libero di cose distanti e apparentemente diverse. Il romanzo futurista, di conseguenza, mira a distruggere il codice stesso, l'autonomia, del genere letterario del romanzo, a eliminare esigenze realistiche e di verosimiglianza. L'opera più significativa è Il codice di Perelà (1911) di Aldo Palazzeschi (vero nome Aldo Giurlani, 1885-1974). Il protagonista, Perelà, è un essere fatto di fumo, privo di corpo, che giunge in un paese di umani, viene in un primo momento accolto bene, proprio a causa della sua alterità, e incaricato di compilare un nuovo codice legislativo. Egli visita il paese, sia i luoghi dei potenti, sia i luoghi degli emarginati (carceri e manicomi), e la sua alterità si rivela non solo di tipo fisico, ma anche di tipo morale, e mette in luce e in crisi le ipocrisie, le falsità, il conformismo della società. La sua presenza comincia a dare fastidio, e così con un pretesto viene processato e imprigionato. Ma non si può imprigionare un essere di fumo: egli evaderà su per il camino. Questa storia viene esposta senza alcun rispetto per il codice del romanzo realista, senza punto di vista dell'autore o del personaggio, senza nessi causali, con assoluta prevalenza del dialogo. Lo sperimentalismo legato a "La Voce" si caratterizza per il linguaggio, fatto di prosa lirica, per il rifiuto di complesse e articolate strutture narrative (anche quando si tenta il "Bildungsroman"), per il frammentismo, per l'autobiografismo. Opere significative: Il mio Carso (1912) di Scipio Slataper (1888-1915) e Il peccato (comparso a puntate fra il 1913 e il 1914) di Giovanni Boine (1887-1917) (47). Il frammentismo vociano da una parte segna, per il momento, la fine del romanzo (nessuna risonanza, nessun effetto hanno i romanzi di Pirandello, Il fu Mattia Pascal, del 1904, Si gira, del 1915, la versione definitiva esce nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore, così come assoluto silenzio circonda La coscienza di Zeno, del 1923, e prima Senilità, 1898, di Svevo), dall'altra parte però esso svolge un ruolo importante nel rinnovamento - rispetto ai modelli ottocenteschi - della narrativa, nella ricerca di nuovi strumenti espressivi, nella descrizione della vita psichica, nel passaggio insomma dalla fine del romanzo alla nascita di un nuovo romanzo (48). Nel dopoguerra infatti si pone, prima in modo isolato e limitato, poi sempre più ampio il problema del romanzo. Abbastanza isolati, come La coscienza di Zeno, sono i romanzi di Federigo Tozzi (1883-1920), Con gli occhi chiusi (scritto nel 1913, pubblicato nel 1919), Tre croci (1920), Il podere (scritto nel 1914-18, pubblicato postumo nel 1921), Gli egoisti (scritto nel 1917-20, pubblicato postumo nel 1923). Il contenuto dei romanzi lascia pensare al verismo: per es., la lotta di un giovane per sottrarsi alla dispotica volontà del padre, una lotta non sostenuta dal rapporto d'amore del ragazzo con una contadina che lo inganna (Con gli occhi chiusi); la lotta di un giovane per ottenere l'eredità del padre, in un mondo contadino che gli è ostile, perché egli precedentemente se ne è allontanato (Il podere); la rovina economica e morale di tre fratelli (Tre croci). Dunque: mondo contadino, mondo piccolo-borghese, casi patologici. Ma il metodo narrativo, il modo in cui tale materia viene formata, è ben poco naturalista: la narrazione si frammenta (è proprio la lezione del frammentismo utilizzata per un nuovo tipo di romanzo) in una serie di episodi, di per sé privi di importanza, e di punti di vista narrativi. I protagonisti sono inetti, in senso sveviano, 'uomini senza qualità', che si muovono in una sorta di delirio, incapaci di realizzare un rapporto con la realtà. Nel 1918 Tozzi pubblica un articolo intitolato Giovanni Verga e noi, e due anni dopo Pirandello tiene a Catania un discorso alle celebrazioni dell'ottantesimo compleanno di Verga (49). Scriveva Tozzi (cit. in Dedola [op. cit. 1981: pp. 60-61]):
Anche per Pirandello, Verga si oppone a D'Annunzio, e a Verga "ora si ritorna, sazii e stanchi di forme concluse e troppo sonore" (ivi: p. 49). Ma per Pirandello e Tozzi, il ritorno a Verga non significa il ritorno al verismo, significa il rifiuto delle forme sonore e troppo concluse: il romanzo verghiano privilegiato da Pirandello e Tozzi, I Malavoglia (1881), è appunto quella "montagna" che può indicare una nuova direzione alla ricerca degli scrittori.
Il bisogno del personaggio di entrare in contatto con la realtà: questo, e non la 'scientificità', la pretesa 'oggettività', costituisce secondo Pirandello il realismo. Gli scrittori naturalisti riuscivano a controllare la scissione fra individuo e realtà grazie alla superiorità della istanza narrativa onnisciente. I Malavoglia rappresentano in modo esemplare proprio l'assenza del narratore privilegiato, e, sul piano della histoire, l'assenza di distinzione fra personaggi principali e personaggi secondari, fra fatti importanti e fatti marginali.
Sul piano formale, l'opera cerca di recuperare la struttura tradizionale del romanzo ottocentesco; sul piano contenutistico, la storia del piccolo borghese Filippo Rubè, che muore per caso durante una manifestazione del dopoguerra, senza che nessuno riesca a capire se era dalla parte dei reazionari o dei rivoluzionari, "è intuizione niente affatto spregevole della ambiguità sovversiva della piccola borghesia dell'età giolittiana" (Luperini, ivi: p. 187; si veda anche Pappalardo [50]). Nel 1923, in Tempo di edificare, Borgese teorizza chiaramente il ruolo che il genere letterario del romanzo deve assumere: quello di essere una "opera organica e programmatica" che - attraverso il racconto di una vicenda individuale - sia rappresentazione "epica e tragica" di un periodo storico e delle sue contraddizioni sociali e morali (cfr. Tateo / Valerio / Pappalardo, op. cit. vol. 3, tomo II: p. 584]). Nel 1925, Omaggio a I. Svevo, di Eugenio Montale, costituisce un altro tassello della rinascita di interessi per il romanzo. Fin qui si tratta appunto di tentativi isolati, di interesse limitato. Prima di proseguire il discorso sul romanzo, ricordiamo che il 21 aprile 1925 appare il Manifesto degli intellettuali del fascismo, scritto da Gentile, firmato, tra gli altri, da Corradini, Marinetti e Pirandello (51). Il 1° maggio 1925 appare Una risposta di scrittori, professori e pubblicisti italiani, al manifesto degli intellettuali fascisti, scritta da Croce, firmata tra gli altri da Salvemini e Montale. Nel primo gli intellettuali si schierano a sostegno del fascismo per i suoi meriti: aver posto un freno al caos del dopoguerra, aver dato all'Italia un nuovo volto come nazione. Nella seconda, a parte l'esaltazione del liberalismo, visto come continuazione del Risorgimento, gli intellettuali difendono l'autonomia della cultura. Le culture del fascismo e dell'antifascismo non erano così compatte come sembra emergere dai due manifesti (52). Qui basti notare che questi due generali atteggiamenti degli intellettuali si riflettono sulla vita delle riviste: con le riviste è cominciato il presente paragrafo e alle riviste è necessario tornare per concludere il nostro discorso sul romanzo. Il primo campo, quello dell' 'intervento' della cultura, è rappresentato dalla rivista "Il Selvaggio" (1914-1943) e dalla rivista "900. Cahiers d'Italie et d'Europe" (1926-1929) (53). Il secondo campo, quello dell'autonomia della cultura (e specificamente della letteratura), è rappresentato da "Solaria" (1926-1943). "Il Selvaggio" considera come quintessenza della civiltà italiana il mondo contadino, con i suoi valori tradizionali. Pertanto, il movimento che fa riferimento a "Il Selvaggio" (il movimento "Strapaese") rifiuta categoricamente ogni rapporto con la cultura europea, con il moderno, "intruglio manipolato da banchieri ebrei, da pederastri, da pescicani di guerra, da tenutari di bordelli" (cfr. Tateo / Valerio / Pappalardo, op. cit., vol 3, tomo II: p. 688]). E invece "900" (il movimento che vi fece riferimento fu chiamato "Stracittà"), fondata da Massimo Bontempelli (1878-1960), esce nel biennio 1926-1927 in francese proprio per sottolineare l'orizzonte europeo che la caratterizza (tra gli altri fanno parte del comitato di redazione James Joyce e Ilja Ehrenberg), per sottolineare il progetto di una conciliazione fra tradizione e rinnovamento, all'insegna del dialogo con le altre nazioni europee (54). Anche Bontempelli e la sua rivista svolgono un certo ruolo nel rilancio della narrativa, ma è "Solaria" che, nel suo interesse per l'autonomia della letteratura, valorizza decisamente Svevo, Tozzi e la narrativa europea, Kafka, Proust, Joyce, Gide, è "Solaria" che cerca un equilibrio fra tradizione e sperimentalismo, è con "Solaria" che la questione del romanzo diventa attuale. Nel primo numero della rivista si legge (cit. da Guglielmino [op. cit. 1971: I/204]):
Si noti il riferimento a "La Ronda": si allude all'atteggiamento di 'ritorno all'ordine' della letteratura, all'atteggiamento antisperimentale che caratterizzava appunto "La Ronda". E tuttavia tale riferimento si stempera grazie alla negazione di stilismi e purismi esagerati, grazie al fatto che il bel ritmo e il linguaggio forbito possono essere sacrificati, se tale sacrificio è finalizzato ad una creazione artistica di ampio respiro: in questo caso il sacrificio è accettato "con passione". Il riferimento a Dostoevskij è inequivocabile: l'arte di ampio respiro, singolarmente drammatica e umana, trova la sua più chiara esemplificazione nel romanzo. "Strutturare un romanzo nuovo e tuttavia classico", "senza indulgere a soluzioni d'avanguardia", ma anche "senza ricadere nelle secche del romanzo verista" (Luperini [op. cit. 1981: p. 467]): a questo miravano i solariani. (43) Giovanni Gentile (1875-1944) fu professore nelle università di Palermo, Pisa e Roma. Dopo la rottura con Croce fondò il "Giornale critico della filosofia italiana". Nazionalista, decisamente a favore dell'intervento italiano nel conflitto mondiale, aderì al fascismo nel 1923, fu ministro della cultura, teorico dello "stato etico fascista", presidente della Accademia d'Italia. Il 15 aprile 1944 fu ucciso dai partigiani a Firenze. (torna su) (44) L'esempio più famoso di Pirandello è quello di una vecchia signora "coi capelli ritinti, tutti unti non si sa da quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili": ebbene tale figura fa ridere il lettore, che avverte in essa il contrario di ciò che avrebbe dovuto essere una vecchia rispettabile signora: questo è il comico, come avvertimento del contrario. "Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è qui tutta la differenza tra il comico e l'umoristico." (cit. in Virdia, Ferdinando, Invito alla lettura di Pirandello, Mursia, Milano 1976, p. 54]) Sull'umorismo di Pirandello si legga il bel saggio di Umberto Eco, Pirandello ridens, in Eco, Umberto, Sugli specchi, Bompiani, Milano 1985, pp. 261-279 (I edizione "Tascabili Bompiani": 1987). (torna su) (45) Cfr., per es., "La Critica", 7 (1909), 33 (1935), 34 (1936). E' evidente che Croce non poteva accettare - forse neppure comprendere - la poetica dell'umorismo, non solo perché essa sottolinea l'intervento della riflessione nel processo creativo dell'artista umorista, ma anche, e direi soprattutto, perché il pensiero di Pirandello, fondato sulla consapevolezza della scissione dell'individuo e del suo rapporto sfasato con la realtà, mette irreparabilmente in crisi proprio la razionalità classica a cui si ispira il sistema idealistico di Croce. (torna su) (46) Avalle, D'Arco Silvio (a cura di), L'analisi letteraria in Italia, Ricciardi, Milano-Napoli 1970. (torna su) (47) Si legga su questi esperimenti narrativi l'ottimo Dedola, Rossana, Il romanzo e la coscienza. Esperimenti narrativi del primo Novecento italiano, Liviana, Padova 1981. (torna su) (48) "Il frammentismo [...] non aveva rappresentato una pausa indolore o uno sbandamento momentaneo, ma al contrario aveva segnato il momento più acuto di critica e di distacco dalla tradizione. Con esso un'intera generazione di scrittori aveva vissuto l'esperienza più significativa di quegli anni, traducendo sul piano letterario il tentativo di rinnovamento e la ricerca di una nuova cultura da parte della 'Voce'." (Dedola [op. cit. 1981: p. 50]) (torna su) (49) Ottimo su questo argomento il saggio Il ritorno a Verga nel primo Novecento: Pirandello e Tozzi di Dedola [1981: 49-64]. (torna su) (50) Pappalardo, Ferdinando, "Rubè" fra tradizione e crisi, in "Lavoro critico" 1980, 20, pp. 47-79. (torna su) (51) Sul 'fascismo' di Pirandello, cfr. Virdia [op. cit. 1976: pp. 43-49]. (torna su) (52) cfr. Contarino, Rosario / Tedeschi, Marcella, Dal fascismo alla Resistenza, in: Letteratura Italiana Laterza, LIL 64, Laterza, Roma-Bari 1980. (torna su) (53) Per altre riviste o giornali impegnati, come "Il Bargello", si veda Appunti sul neorealismo, 1. Il realismo degli anni Trenta e il "neo-realismo". (torna su) (54) In effetti i movimenti di "Strapaese" e "Stracittà" "esprimono aspetti complementari della problematica fascista - quello provinciale e rurale e quello industriale e cittadino -, in polemica per la conquista dell'egemonia culturale, ma accomunati dal medesimo referente politico." (Luperini [op. cit. 1981: p. 449]). (torna su) |
L'autore di questo ipertesto è Giovanni Lanza il cui sito è qui: www.giovanni-lanza.de/il_romanzo_dalla_crisi_del_posit.htm