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"Andare vero il popolo": populismo e alienazione

Il 25 ottobre 1931 Mussolini, in un discorso tenuto a Napoli fra acclamazioni deliranti, affermò: "[...] andare verso il popolo [...] realizzare concretamente la nostra civiltà economica, che è lontana dalle aberrazioni monopolistiche del bolscevismo, ma anche dalle insufficienze [...] dell'economia liberale [...] se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime col popolo - interessi di gruppi e di singoli - noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo." (1)

Si noti la chiara reciproca dipendenza dei concetti di "popolo" e di "nazione": come osserva Asor Rosa [2], ogni tendenza populista si pone "un problema di egemonia politica e ideologica", e ne deriva che i termini "di popolo e di nazione rivelano la loro reciproca e indissolubile dipendenza".

Forse Mussolini non sapeva, osservano Salvatorelli e Mira [op. cit. 1972, vol. 2: p. 534], che la formula "andare verso il popolo" era stata usata dai rivoluzionari russi. Come è noto, infatti, è la Russia la patria del populismo: "Perché ci sia populismo, è necessario [...] che il popolo sia rappresentato come un modello." (Asor Rosa [op. cit. 1965/1988: p. 19]) Ciò avviene appunto in Russia fra il 1850 e il 1880, e "popolo" significa contadini, significa l' "ordine contadino russo, forma storica e nello stesso tempo ideale di una grande Nazionalità, che porta in sé, come un seme fecondo sotto una coltre di neve, il principio di una giustizia universale, di un socialismo non materialistico, valido per gli spiriti come per le condizioni sociali." (ivi: p. 21)

Premesso, dunque, che il populismo si fonda sul riconoscimento del popolo come depositario di valori positivi e non corrotti, che tale concetto di popolo è privo di "un preciso significato sociologico", cioè "non indica una precisa classe individuata nell'ambito del processo di produzione: è una immagine generica, nebulosa, mitica o sentimentale" (3), e quindi può identificarsi "con i contadini (è il caso più frequente), gli operai, il sottoproletariato della città, o addirittura una piccola borghesia artigiana o bottegaia" (ivi), premesso ancora che "il populismo non potrà mai essere in sé una posizione totalmente autonoma, poiché esso nasce già come espressione di una volontà borghese di egemonia politica, ideologica e culturale", e per questo i confini del populismo sono quelli "che la borghesia determina di volta in volta nel corso della sua storia" (Asor Rosa [op. cit. 1965/1988: pp. 112-113]), premesso tutto ciò, diciamo che in Italia, dal Risorgimento alla Resistenza e agli anni immediatamente seguenti alla Resistenza, il populismo è corposamente attivo negli atteggiamenti politici e culturali della borghesia, sia a causa della forte presenza contadina nel paese, sia a causa del problema dell'unità nazionale, che diventa attualissimo a partire dal 1861, e al qual problema sono sensibili tanto il liberalismo, quanto, in seguito, il fascismo e l'antifascismo (la Resistenza): il richiamo agli ideali del Risorgimento è infatti comune.

Molto schematicamente possiamo distinguere due linee del populismo, non solo italiano (per una analisi approfondita, rinvio all'appassionato libro di Asor Rosa, Scrittori e popolo, a cui sto facendo più volte riferimento): quella conservatrice, talvolta chiaramente reazionaria e nazionalista, e quella democratica, che influenza la Resistenza e le posizioni degli intellettuali di sinistra.

  • La prima è ben rappresentata da quei movimenti nazionalisti che sorsero nell'età di Giolitti (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 3. Riviste, frammento, romanzo), è la linea secondo la quale il popolo è il veicolo dello spirito bellicista e interventista (Asor Rosa [op. cit. 1965/1988: p. 64]); dopo la vittoria del fascismo, questa linea viene portata avanti soprattutto dalla rivista "Il Selvaggio" (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 1.3 Riviste, frammento, romanzo).
     
  • La seconda è per noi qui più interessante. Il 20 marzo 1919 Mussolini tenne un discorso ad alcuni operai scesi in sciopero (nella località di Dalmine), e tra l'altro affermò: "Voi vi siete messi sul terreno della classe, ma non avete dimenticato la Nazione. Avete parlato di popolo italiano, non soltanto della vostra categoria di metallurgici. Per gli interessi immediati della vostra categoria voi potevate fare lo sciopero vecchio stile, lo sciopero negativo e distruttivo; ma pensando agli interessi del popolo, voi avete inaugurato lo sciopero creativo, che non interrompe la produzione [...]:" (cit. in Asor Rosa [op. cit. 1965/1988: p. 82])

Si noti anche qui il solito nesso, nazione = popolo, un nesso, un'equazione che isola e annulla la classe e il significato di classe dello sciopero. Peraltro, il fascismo proibirà tutti gli scioperi, quelli "distruttivi" e quelli "creativi". Ma, come dice giustamente Asor Rosa, non c'è da scherzare molto sulle affermazioni di Mussolini: giacché qui abbiamo in nuce la teoria delle Corporazioni (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 2. Dalla "età di Giolitti" al fascismo); e abbiamo anche il punto di riferimento di "quel fascismo di sinistra [si veda Appunti sul neorealismo, 1. Il realismo degli anni Trenta e il "neo-realismo"], che tanta parte avrà nella formazione dei nuovi quadri intellettuali e politici fra il 1924 e il 1940, e che proprio questo Mussolini e questo fascismo delle origini terrà presenti, magari per opporli al consolidamento d'un fascismo assai più dichiaratamente conservatore e borghese." (ivi)

Elio Vittorini è il rappresentante più significativo di questa direzione populistica: nel suo Conversazione in Sicilia (si veda Appunti sul neorealismo, 1. Il realismo degli anni Trenta e il "neo-realismo") il popolo ha qualità positive, amore, pietà, perché esso soffre di più nel mondo, e proprio per tale motivo il popolo appare come il simbolo della sofferenza che travaglia il mondo.

Qui è la base di, almeno, alcuni aspetti della politica culturale di Vittorini nel dopoguerra con "Il Politecnico" (si veda Appunti sul neorealismo, 3. La testimonianza, il racconto, l'impegno): la centralità della cultura come qualcosa che dovrebbe non consolare ma liberare l'umanità (cioè il popolo) dall'offesa, dal dolore.

Uomini e no, il romanzo che Vittorini pubblica nel 1945, la storia di un intellettuale borghese che si impegna nella lotta partigiana, è la raffigurazione paradigmatica del populismo umanitario che nutre l'impegno non solo di Vittorini, ma di moltissimi intellettuali di sinistra del periodo resistenziale e post-resistenziale.

Cesare Pavese non aveva avuto nulla a che fare con il fascismo, né di destra né di sinistra. La sua posizione è autonoma e interessante. In un saggio inedito datato 14-16 aprile 1946 e intitolato Il comunismo e gli intellettuali scriveva:

Verso il popolo ci vanno i fascisti. O i signori. E "andarci" vuol dire travestirlo, farne un oggetto dei nostri gusti e delle nostre degnazioni. Libertà non è questo. Non si va "verso il popolo". Si è popolo. Anche l'intellettuale, anche il "signore", che soffrono e vivono l'elementare travaglio del trapasso da una civiltà d'impedimento e di spreco a quella organizzata nella libertà della tecnica, sono popolo e preparano un governo di popolo. Che è ciò che vuole il comunismo. Democrazia significa questo governo. (Saggi letterari, Einaudi, Torino 1968, pp. 214-215)

E in Ritorno all'uomo, del 1945, egli diceva che "noi non andremo verso il popolo. Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo se mai verso l'uomo. Perché questo è l'ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine dell'uomo - di noi e degli altri." (ivi: p. 198) E ancora: dopo aver affermato, "senza ombra di timidezza o di ironia", che le "parole sono il nostro mestiere", che "sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l'uomo le cercava per servirsene", e questo è appunto il compito degli scrittori, conclude: "Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione." (ivi: pp. 198-199)

La posizione di Pavese è notevole ed isolata: perché lo scrittore capisce che il popolo può trasformarsi nel travestimento, nella maschera dei gusti dell'intellettuale; perché propone e cerca un dialogo diretto con la base proletaria, rovesciando in questo modo - come giustamente ha detto Asor Rosa [4] - "la direzione organicamente statuita di qualsiasi politica culturale", tanto quella di Vittorini quanto quella di un Alicata; perché egli onestamente e umilmente sostiene che la vita è comunione, è lotta contro la solitudine, cioè non rinuncia al tema esistenziale, quello della solitudine dell'uomo, che è effettivamente il tema fondamentale della sua opera. Con la stessa umiltà e con la stessa onestà con le quali rappresenta nel suo capolavoro, La casa in collina (1947-1948), il fallimento dell'intellettuale borghese che tenta di fare politica, di essere veramente popolo, e con le quali la notte fra il 26 e il 27 agosto del 1950, nella solitudine di una camera d'albergo di Torino, chiude con il suicidio la sua vicenda umana.

Altrettanto isolata e notevole è la posizione di Alberto Moravia.

Ci interessa qui in primo luogo un racconto scritto nel 1944, intitolato significativamente Andare verso il popolo (5). Vi si narra l'avventura (o meglio la disavventura) di due giovani borghesi, un ragazzo e una ragazza, che, in aperta campagna, non possono proseguire con la macchina per mancanza di acqua nel radiatore. I due si dirigono verso la capanna di alcuni contadini per chiedere acqua. La ragazza, Ornella, teme che il suo compagno approfitti di questa occasione da un lato per baciarla strada facendo, dall'altro lato per svolgere le sue solite inchieste sui contadini e la loro vita. A proposito delle domande ai contadini il giovane le dice "leggermente e ironicamente": "Ma non lo sai [...] che bisogna andare verso il popolo?" (6).

Giunti alla capanna, assai miserabile, i due giovani trovano una donna con i suoi figli. La donna racconta che i tedeschi hanno portato via le bestie, hanno distrutto tutto, e loro - lei, suo marito, i suoi figli - per vivere rubano. Il giovane rimane sconcertato, dice che rubare è un delitto, che possono essere arrestati; la donna ribatte che ormai non ci sono più carabinieri e che del resto tutti hanno fame, anche le guardie. Quindi il giovane va a prendere l'acqua, mentre Ornella rimane nella casa con la donna. Questa improvvisamente le impone di darle la borsa, le scarpe, le calze; intanto anche il giovane viene derubato dal marito della donna, il quale peraltro accompagna gentilmente Ornella e il suo compagno alla macchina, e così i due, lui seminudo, possono ripartire.

La forza del racconto, la cui azione si svolge chiaramente nel periodo della Liberazione, scaturisce dai due piani che lo caratterizzano e che contrapponendosi ne costituiscono il messaggio: la falsa e ridicola commedia borghese, l'autentica e drammatica condizione del popolo.

L'episodio del bacio è emblematico della commedia: Ornella teme di essere baciata, il compagno le giura di "star buono", in realtà tenta di baciarla, la ragazza si oppone, ma con civetteria, e poi si lascia baciare "di buona grazia": uno stucchevole campo semantico borghese, un "testo senza intreccio", secondo Lotman, in cui tutto è convenzionale (ridicolo e falso, avrebbe detto il Michele de Gli indifferenti), in cui non c'è "avvenimento" (su Gli indifferenti e sui concetti di "campo semantico", "testo senza intreccio" e "avvenimento" si veda Il bisogno di personaggi e la tragedia impossibile).

E nell'ambito di tale commedia si parla di 'andare verso il popolo': una sciocca serie di finzioni allude, nella struttura semantica del racconto, alla finzione fondamentale: quella appunto dell' 'andare verso il popolo'. Falso diventa, in altri termini, anche ciò che potrebbe costituire "avvenimento": l'apertura al popolo, il superamento del "limite" borghese. E del resto, anche la miserabile condizione popolare sembra essere un "testo senza intreccio", privo di "avvenimenti", fatto di rassegnazione.

Si noti, a questo proposito, come il popolo, le prime volte che compare in primo piano nell'opera di Moravia, in Agostino (7) e nel nostro racconto, non sia un popolo idillico e depositario di nobili valori, ma un popolo stravolto dalla discriminazione di classe (Agostino) e dalla guerra (Andare verso il popolo).

'Andare' verso questo popolo senza veramente conoscerlo, pronti ad opporgli subito la rassicurante idea (e la minaccia) della legge, dei carabinieri, dell' 'ordine' borghese, è la vera commedia che il nostro racconto efficacemente modellizza. E il giovane protagonista della commedia è, forse non a caso, senza nome: più che essere una precisa individualità, egli rappresenta l'atteggiamento di una parte degli intellettuali borghesi in quel periodo.

Consideriamo ancora tre racconti moraviani dell'immediato dopoguerra. In "Rinascita" nel marzo del 1945 apparve Nausea prima di pranzo, un raccontino, così mi pare, ignorato dalla critica e mai più ripubblicato dall'autore (8). Anche i personaggi di Nausea prima di pranzo sono senza nome. L' io narrante, invitato a pranzo da una famiglia borghese, si sente male per aver bevuto qualcosa a digiuno e in una sorta di semi-incoscienza percepisce solo le voci di alcune persone che dicono di essersi "sistemate".

La padrona di casa si è sistemata bene grazie all'olio dei suoi contadini e alla carne che un fornitore, che serve anche le ambasciate, le vende, naturalmente a caro prezzo; la figlia si è sistemata grazie alle stoffe che durante la guerra ha messo da parte e che ora può utilizzare; un ospite si è sistemato grazie alle sterline che da tempo ha cominciato ad accumulare. Tre persone dunque grazie alla guerra si sono sistemate bene o hanno migliorato la loro già buona condizione: alla miseria del popolo si oppone il benessere di chi ha goduto i vantaggi del proprio ceto sociale e della guerra.

In Ritorno al mare, del 1945 (9), Lorenzo, che durante il fascismo ha ricoperto cariche di responsabilità politica e si è sposato più per conformismo (10) che per amore, dopo la Liberazione viene arrestato e poi rilasciato. Proprio ora, nel momento in cui ha bisogno della moglie e quasi scopre l'importanza dell'amore, la donna decide di lasciarlo. Lorenzo si toglie la vita.

Ne L'ufficiale inglese, del 1946, si tratta del breve rapporto erotico fra una ragazza e, appunto, un ufficiale inglese. La ragazza è solita lasciarsi avvicinare da militari in cerca di avventure, all'inizio non ha pensato di trarne un vantaggio economico, ma poi si è arresa a questa sorta di vocazione "fruttuosa e involontaria".

Non è difficile intravedere in Ritorno al mare quel tema del conformismo fascista che sarà ripreso nel il romanzo Il conformista, del 1951, mentre il personaggio femminile de L'ufficiale inglese è una prima manifestazione di Adriana, la protagonista de La romana, del 1947.

In sostanza questi racconti costituiscono un primo sguardo di Moravia sulla realtà italiana della Liberazione e dell'immediato dopoguerra, e al tempo stesso essi costituiscono un inventario di temi e di motivi che lo scrittore riprenderà e svilupperà nella sua produzione successiva.

A partire dal 1945 riprendeva per Moravia, a Roma, la vita normale, "sotto il segno della povertà" (Vita, op. cit.: p. 152). "Ero quasi indigente, avevo un vestito solo, di mio fratello morto in guerra, rivoltato e con il taschino a destra" (ivi: p. 152). Guadagnava qualcosa grazie alla collaborazione a vari giornali, in particolare, dal 1946, al "Corriere della Sera"; scriveva inoltre sceneggiature cinematografiche. E lavorava al romanzo destinato a dargli fama mondiale e a risolvere così definitivamente la questione economica: La romana, che esce nel 1947, come sempre per i tipi della casa editrice Bompiani.

La romana è un romanzo di 550 pagine scritto in quattro mesi, dal 1° novembre '46 al 28 febbraio '47 e originato dal proposito di raccontare in una novellina di tre pagine un episodio della mia vita avvenuto nel '36 e durato probabilmente non più di un'ora. (Vita, op. cit.: pp. 160-161)

L'episodio è il breve rapporto erotico con una bellissima prostituta romana di circa vent'anni. Vale veramente la pena di lasciare la parola a Moravia e al suo suggestivo ricordo:

Mi portò in un piccolo e modesto appartamento in una viuzza dietro il palazzo del Messaggero. Come entrammo capii che era la casa dove viveva con i suoi familiari. Ad un certo momento, lei era nuda, aveva un corpo splendido, mi ricordò una strana novella di Henry James intitolata "L'ultimo dei Valeri", in cui c'è un uomo che si innamora di una statua. Poi improvvisamente entrò una vecchia che portava una brocca d'acqua calda e un asciugamano e disse con fierezza: "Di' un po', ma dove l'hai mai visto un corpo così, guarda, dove l'hai mai visto..." Facemmo l'amore in maniera semplice e sana. Alla fine lei mi disse: "Quella che è venuta a portare l'asciugamano era mia madre."
Questa è la storia del mio incontro con la donna che dieci anni dopo doveva ispirarmi il personaggio della romana. A questo punto vorrei fare una riflessione sulla ispirazione e il suo potere di irradiazione. Come ho detto, il mio rapporto con quella ragazza era durato un'ora, ma la frase "quella era mia madre" non era durata più di qualche secondo. Sarà un paragone romantico, ma tant'è: quella frase ebbe la durata e anche l'efficacia di un lampeggiamento durante un temporale: mi rivelò tutto un paesaggio diciamo pure umano, che ad un sociologo, per spiegarlo e illustrarlo adeguatamente, richiederebbe un libro di riflessioni, più semplicemente direi che la frase "mi colpì", cioè mi traumatizzò. Poi deve essere avvenuto in me quel fenomeno psicologico che in psicoanalisi si chiama rimozione. La rimozione, come ho già detto, durò dieci anni e crollò il mattino del 1° novembre allorché mi misi alla macchina per scrivere pensando di buttar giù una novellina su un rapporto tra madre e figlia del popolo romano. (Vita, op. cit.: p. 161)

La romana (che dal punto di vista strettamente letterario si ispira chiaramente alla Moll Flanders di Defoe, cfr. Vita, op. cit.: p. 162) è appunto la storia di una bellissima ragazza del popolo, Adriana, la quale, in seguito ad una delusione d'amore e istigata da un'amica, diventa prostituta.

La madre, una povera sarta, è orgogliosa della bellezza della figlia e vorrebbe che la ragazza avesse una esistenza diversa, non miserabile come quella che lei ha avuto: desidera che Adriana faccia la modella o la ballerina, oppure che sposi un uomo ricco. Il rapporto fra Adriana e la madre, la quale accetta la professione di prostituta della figlia, considerandola il male minore rispetto al matrimonio con un poveraccio, costituisce solo una delle direzioni tematiche del romanzo.

La seconda, fondamentalissima, direzione, quella a cui molto probabilmente si deve il fatto che la "novellina" progettata da Moravia si trasformò in un lungo romanzo, è costituita dal rapporto di Adriana con Giacomo, uno studente antifascista del quale la ragazza si innamora. Arrestato dalla polizia, il giovane denuncia i suoi compagni, cade poi in uno stato di profonda depressione e si toglie la vita.

Cerchiamo di mettere a fuoco questo personaggio (citerò sempre dalla seguente edizione: A. Moravia, Opere 1927-1947, a cura di Geno Pampaloni, "Classici Bombiani", Bompiani, Milano 1986). Giacomo - dice Adriana - è "un ragazzo di agiata famiglia provinciale, delicato, intelligente, colto, educato, serio"; la sua famiglia, della quale egli non ama parlare, è una "famiglia tradizionale", il padre è "medico e proprietario di terre", la madre, "assai bigotta", sta molto in casa e non pensa che al marito e ai figli (pp. 905-906).

Giacomo nutre "contro la sua famiglia un'avversione, un'antipatia, un disgusto", che riescono incomprensibili ad Adriana; e gli stessi sentimenti prova nei confronti di se stesso, egli odia in se stesso "tutta quella parte" che è "rimasta attaccata alla sua famiglia" o che, comunque, ha subito "l'influenza dell'ambiente familiare", disprezza dunque la sua educazione e la sua cultura, perché sospetta di doverle all'ambiente e alla famiglia in cui è nato e cresciuto (p. 906).

Si vede bene la caratteristica basilare dell' 'eroe' moraviano: l'avversione, in forma di indifferenza o di disubbidienza, nei confronti della propria famiglia borghese. Giacomo, come il Michele de Gli indifferenti rifiuta il campo semantico borghese (si veda Il bisogno di personaggi e la tragedia impossibile), egli tuttavia concretizza tale rifiuto nell'impegno antifascista e sovversivo ("Io faccio parte di un gruppo di persone [...] che non ama, diciamo così, il governo presente... anzi che lo odia e vorrebbe che se ne andasse al più presto", rivela ad Adriana, p. 870), nell'andare verso il popolo: tali aspetti si collocano senza discussioni nel clima post-resistenziale e neorealistico.

Fissiamo ancora alcune caratteristiche del personaggio.

Un'altra sua idea fissa, tanto più singolare in quanto non tentava di metterla in pratica e non serviva che a guastargli il piacere, era quella della castità. Egli ne faceva l'elogio ad ogni momento e soprattutto, come per dispetto, immediatamente dopo che avevamo fatto l'amore. Diceva che l'amore era soltanto la maniera più sciocca e più facile di liberarsi di tutte le questioni, facendole uscire dal basso, di soppiatto, senza che nessuno se ne accorgesse, come si fanno uscire gli ospiti imbarazzanti per una porticina di servizio. "Poi, ad operazione fatta, si va a spasso con la propria complice, moglie od amante, meravigliosamente disposti ad accettare il mondo com'è... foss'anche il peggiore dei mondi possibili." (p. 910)

Anche il Michele de Gli indifferenti, proprio perché indifferente, non riusciva ad amare (rifiutava per es. il rapporto erotico con Lisa), ma l'atteggiamento di Giacomo è caratterizzato non solo dalla contraddizione (elogia la castità, però non la pratica), ma anche da quell'accenno al fatto che l'erotismo può costituire una sorta di valvola di sfogo che permette all'uomo e alla sua donna di accettare il mondo così com'è: vale a dire l'erotismo blocca la ribellione.

Inoltre, Giacomo mostra "un irrefrenabile istinto di predicare e agire a favore di quello che egli pensava fosse il bene degli uomini. Quasi sempre intralciato da improvvisi pentimenti e sarcastici disgusti, è vero, ma sincero." (p. 915) (Questo istinto di predicatore e la pratica coerente della castità caratterizzeranno un personaggio de La ciociara (1957), il cui nome non a caso sarà Michele; riprenderò tale questione in un altro saggio.)

Ancora. Il giovane antifascista vive in una camera presso la signora Medolaghi, vedova di un funzionario dello stato, e la figlia. Giacomo, invitato a cena dalla vedova, porta con sé Adriana, che presenta come la sua fidanzata. Alla signora non piace affatto avere una popolana al suo tavolo, e la figlia, piuttosto brutta, che si chiama pure Adriana, ne è addirittura terrorizzata. Adriana racconta:

Sedetti e guardai la ragazza che si chiamava come me. Era la metà di me, esattamente, come testa, come petto, come fianchi, come tutto. Magra, con un cranio povero di capelli, un viso ovale e fine, dai grandi occhi smorti, dall'espressione come allibita. (ivi)

Sembra una maschera. La strategia del testo gioca precisamente su questo elemento: due ragazze che si chiamano Adriana, l'una bellissima, l'altra brutta, ma in effetti: l'una senza maschera, l'altra mascherata. Ed infatti la splendida bellezza della 'fidanzata' di Giacomo è solo il primo motivo del terrore della figlia della signora Medolaghi. Adriana nota:

Era atterrita dalla mia bellezza che esplodeva nell'aria spenta e polverosa della sua casa come una rosa in una ragnatela, dalla mia esuberanza che non poteva non notarsi anche quando tacevo e stavo ferma, ma, soprattutto, dall'esser mio di popolana. Il ricco non ama certo il povero ma neppure lo teme e sa tenerlo a distanza con superbia e sufficienza; ma il povero che per educazione o origine abbia l'animo del ricco, è addirittura atterrito dal povero vero e proprio, come chi si sente predisposto ad una certa malattia da chi ne è già affetto. Ricche le due Medolaghi non erano di sicuro altrimenti non avrebbero fatto le affittacamere; sentendosi povere e non ammettendo di esserlo, la mia presenza di povera senza maschera pareva loro un pericolo e un insulto. (p. 898)

Qui abbiamo i segni interpretanti della maschera (si veda La modellizzazione del totalitarismo). Meglio non poteva essere descritto il terrore della piccola e media borghesia, soprattutto nell'Italia centrale e meridionale, di fronte ai ceti popolari, il terrore di 'ammalarsi', cioè di perdere la propria 'maschera' di persone agiate e per bene (si ricordi che Mariagrazia, ne Gli indifferenti, in effetti povera, perché derubata da Merumeci, sull'orlo della rovina finanziaria, mostrava lo stesso sacro terrore).

Appunto a causa di tale terrore la piccola e media borghesia sono state la base di massa del fascismo. Inoltre, la "allibita" figlia della Medolaghi ricorda molto la figlia di Milone, anch'egli funzionario dello stato, "ormai matura, di aspetto gramo e come allibito", del racconto Felicità in vetrina (si veda Il soffio dell'assurdo), la quale vorrebbe comprare la merce come falso surrogato della felicità: ed infatti la piccola e la media borghesia troveranno ben presto nei beni di consumo della società neocapitalista il mezzo per vincere il terrore che incutono i ceti popolari, e mascherarsi ancora una volta da persone agiate e per bene.

Giacomo, da parte sua, si diverte a provocare la signora Medolaghi, soprattutto attraverso l'elogio di Adriana: "Adriana non è una signora... e non lo sarà mai... Adriana ha sempre rifatto letti e spazzato stanze... Adriana è una ragazza del popolo" (p. 899), e ancora:

"[...] Adriana è figlia di camiciaia e camiciaia lei stessa... non è vero Adriana?" Egli tese un braccio attraverso la tovaglia, mi afferrò la mano e la rivoltò sul dorso: "Si dipinge le unghie, è vero, ma la mano è di operaia: grande, forte, semplice... come i suoi capelli: arricciati sì, ma in fondo, ribelli, duri." Egli lasciò la mano e mi diede una tirata ai capelli, forte, come a una bestia. "Insomma Adriana è in tutto e per tutto una degna rappresentante del nostro buon popolo sano e vigoroso." (p. 900)

In realtà Giacomo sta usando Adriana, così come si può usare una bestia per i propri fini. Il suo elogio del popolo è una commedia che ha come fine quello di provocare le due Medolaghi: è la 'disubbidienza' nei confronti della borghesia che spinge il 'disubbidiente' a strumentalizzare Adriana e il popolo, che egli ben poco conosce o si sforza di conoscere veramente. Fin qui, dunque, siamo alla stessa tematica del racconto Andare verso il popolo. Ma vi è qualcosa di più. Giacomo soffre di una 'malattia': l'inimicizia nei confronti degli oggetti, la perdita di contatto con la realtà. Si leggano le seguenti battute di un dialogo fra il giovane e Adriana:

"[...] ti ricordi quando ti ho storto il dito e ti ho fatto male?"
"Sì"
"Ebbene [...] L'ho fatto per rendermi conto che esistevi veramente ... così ... magari facendoti soffrire". (p. 781)

Si crea una sorta di interruzione del rapporto fra il personaggio e la realtà, e il personaggio cerca in qualche modo di ripristinare tale rapporto, con la crudeltà, come nel caso appena citato, oppure recitando una parte, una commedia. Si legga (sono riflessioni di Adriana):

[Giacomo sembrava] sempre piuttosto recitare una parte, in tono semiburlesco, che agire seriamente. Pareva che si fosse costruito pezzo per pezzo un suo personaggio ideale, cui però non credeva che fino ad un certo punto. (p. 873)

E si considerino ancora le seguenti riflessioni della ragazza: più che incostanza Giacomo mostra:

una singolare incapacità, che chiamerei fisica, a perdurare in uno sforzo qualsiasi che richiedesse un continuo e sincero entusiasmo. Egli non me ne parlò mai in maniera esplicita, ma compresi che sovente quell'aria di commedia che emanava dalle sue parole rispondeva ad un'effettiva condizione del suo animo. Gli accadeva di infiammarsi, insomma, per un fine qualsiasi e, finché durava il fuoco del suo entusiasmo, di vedere quel fine come una cosa concreta e possibile. Poi, tutto ad un tratto, il fuoco si spegneva ed egli non provava più che noia, disgusto e, soprattutto, un completo sentimento di assurdità. Allora o si lasciava del tutto andare ad una specie di smorta e inerte indifferenza, oppure agiva in maniera esteriore e convenzionale, come se quel fuoco non si fosse mai spento, ossia, in una sola parola, fingeva. Mi riesce difficile spiegare che cosa gli succedesse in tali congiunture: probabilmente un brusco arresto di vitalità, come se tutto ad un tratto il calore stesso del sangue si fosse ritirato dalla sua mente, non lasciandovi che vuoto e aridità. Era un'interruzione subitanea, imprevedibile, totale, paragonabile a quella di una corrente elettrica che improvvisamente cessi piombando nel buio una casa ancora un minuto prima sfarzosamente illuminata; o a quella di un motore, che, mancando ad un tratto l'energia, ruota dopo ruota, si fermi e rimanga immobile. (pp. 917-918)

Nel 1947, quando non ha ancora fatto il suo ingresso nella cultura italiana il concetto di alienazione (questo succederà agli inizi degli anni Sessanta [11]), Moravia mostra - e proprio in un giovane sovversivo di sinistra - un caso di vera e propria alienazione. In effetti Moravia mostra come il populismo stesso possa essere una forma di alienazione.

Inoltre lo scrittore aggancia il tema dell'impegno rivoluzionario, dell'andare verso il popolo, alla fondamentale direzione della sua ricerca artistica: l'analisi conoscitiva del rapporto fra individuo e realtà sulla base della grande lezione di Pirandello, di Svevo, della letteratura e della cultura europee del moderno.

Ed infine lo stesso Giacomo spiega con precisione:

[...] mi viene un grande desiderio di fare una cosa, un grande entusiasmo, tutto mi sembra perfetto, sono sicuro che agirò come ho intenzione di agire e poi al momento di agire davvero, tutto crolla e io, per così dire, cesso di esistere... o meglio esisto soltanto con le parti peggiori di me... divento freddo, ozioso, crudele... come quando ti ho storto il dito. (p. 783)

Questa scissione, questo 'crollo', si mostrano in modo inesorabile e completo in quello che è il momento nodale della sua vita: il momento del confronto con la polizia fascista.

Quando viene arrestato dalla polizia fascista, Giacomo denuncia subito, senza esservi costretto, i suoi compagni. Più tardi dà ad Adriana una complessa spiegazione del suo comportamento. Egli dice che ad un tratto non gliene è importato più niente delle proprie idee, che ha parlato quasi con "zelo", che il funzionario di polizia che lo interrogava gli è risultato quasi "simpatico", e, dinanzi alla perplessità della ragazza, spiega:

Piano... non lui personalmente... ma la sua funzione... eh già... quando si rinunzia o non si sa essere quel che si dovrebbe essere, viene fuori però quel che si è... non sono forse io figlio di un ricco proprietario?... E quell'uomo, nelle sue funzioni, non difendeva forse i miei interessi?... Ci siamo riconosciuti della stessa razza... solidali nella stessa causa... cosa credi? Che provassi simpatia per lui, personalmente? No, no... provavo simpatia per la sua funzione... ho sentito che ero io che lo pagavo, io che lui difendeva, io che stavo dietro di lui come padrone pur standogli davanti come accusato. (pp. 955-956)

Questa è dunque una spiegazione di classe, che suona come denuncia dell'antifascismo borghese, il quale si rivela un "testo senza intreccio", privo di avvenimento, e quindi una commedia dai risvolti tragici. Ma c'è qualcosa di più, Giacomo prosegue:

Ma forse mi calunnio... e semplicemente ho parlato perché non mi importava di non parlare... perché ad un tratto tutto quanto mi è sembrato assurdo e senza importanza e non ho capito più niente delle cose in cui avrei dovuto credere [...] o meglio ho capito soltanto, come capirei tuttora, le parole... ma non i fatti che quelle parole indicavano [...] le parole non avevano più alcun valore per me, mi sembravano tutte assurde e tutte eguali, lui voleva parole e io gliene ho date quante ne ha volute. (p. 956)

Giacomo ritorna alla sua spiegazione iniziale: non gliene è importato più nulla delle proprie idee, non le ha capite più, non ha capito più il significato delle parole. Si è creata cioè una di quelle interruzioni subitanee, imprevedibili, totali di corrente elettrica, evocate da Adriana, per cui improvvisamente una casa illuminata piomba nel buio.

Sicché i segni - le parole e le idee - hanno perso il loro significato, perché hanno perso il rapporto con il referente, perché sono diventati 'puri significanti', privi di valore, privi di un codice in grado di correlare il significante al suo significato, e di porre entrambi in relazione con la realtà extrasegnica.

Allora: perché Giacomo ha tradito? Perché ha avvertito la solidarietà di classe, la sua sostanziale appartenenza alla classe dei padroni, e per questo non gliene è importato più niente delle idee sovversive, e tali idee hanno perso di significato per lui? Oppure la solidarietà di classe è riemersa quando anche quelle idee hanno perso di significato, si sono mostrare assurde, e per questo Giacomo ha tradito?

Sanguineti [12] non ha dubbi: l' "autentica" spiegazione di Giacomo è quella di classe, e questo è il " 'testo' realistico quale Moravia sa offrire"; ciò che Giacomo aggiunge altro non è che la "traduzione" della prima ed "autentica" spiegazione "nel linguaggio della filosofia della decadenza borghese". Abbiamo allora, ritiene Sanguineti, "in lucido dittico, la verità effettuale e la mistificazione ideologica": infatti, "dietro la metafisica esistenziale dell'assurdo, Moravia insegna, si cela appena, in ultima analisi, la realtà vissuta dei figli dei ricchi proprietari che non riescono a liberarsi, per quanti decorosi sforzi facciano, della loro storica natura".

In effetti la questione è molto più complessa. In primo luogo, limitare la "metafisica dell'assurdo" a mistificazione dietro la quale si cela solo il velleitarismo dei figli dei ricchi proprietari, mi sembra deprimere e banalizzare un fenomeno di portata europea - la crisi del rapporto con la realtà, la crisi del linguaggio, l'emergere della complessità e della contraddittorietà del processo conoscitivo - le cui radici storiche sono più complesse e mediate di quanto Sanguineti sembra ritenere, almeno nel suo lavoro su Moravia.

In secondo luogo, da un punto di vista di analisi testuale il procedimento di Sanguineti appare piuttosto disinvolto e non molto convincente. La spiegazione di Giacomo è sostanzialmente una sola e si impernia sulla crisi del rapporto con la realtà: questa crisi investe anche l'alternativa, l'attività sovversiva. Il figlio del ricco proprietario riemerge quando anche le idee sovversive - le idee su cui si fonda l'impegno antifascista - vengono scosse da un senso di assurdità e non hanno più significato, e con esse non ha più significato l'impegno stesso. Dinanzi all'assurdo Giacomo arretra nella sua sicurezza di borghese, nella sicurezza del mondo conosciuto, l'impegno si rivela così una commedia, tanto intransigente quanto falsa. Quando Giacomo racconta ad Adriana il suo tradimento, le dice (si tenga presente che "Mino" è il diminutivo di Giacomo):

Il signor Mino tra i suoi compagni di fede politica era conosciuto per la intransigenza delle sue opinioni e per la violenza dei suoi risentimenti... il signor Mino era da loro considerato addirittura come un futuro capo... e il signor Mino era così sicuro che in qualsiasi circostanza avrebbe saputo farsi onore che quasi si augurava di essere arrestato e messo alla prova... [...] il signor Mino appena portato davanti a un qualsiasi poliziotto, senza neppure aspettare di essere minacciato o tormentato, ha spifferato ogni cosa... insomma ha tradito... così il signor Mino da ieri ha lasciato la carriera politica ed è entrato in quella, chiamiamola così, delatoria... (pp. 954-955)

Le caratteristiche della "carriera politica" di Giacomo sono, come ben si vede, l'intransigenza, il risentimento violento, il fanatismo e la fretta (si veda La modellizzazione del totalitarismo, il personaggio di Saverio) che spingono a desiderare di essere messi alla prova: tutto ciò altro non fa che mascherare la commedia dell'intellettuale antifascista, e quando la perdita di contatto con la realtà, quando la crisi dei segni e del loro rapporto con il referente, mostreranno che la ribellione era una commedia, a Giacomo non rimarrà che riprendere la propria identità di borghese e suicidarsi.

Nel 1947, cioè in un anno centrale della temperie neorealista (si veda Appunti sul neorealismo, 3. La testimonianza, il racconto, l'impegno) caratterizzato dai dibattiti degli intellettuali, dalla ideologia dell'impegno, Moravia ha il coraggio di operare una estrema modellizzazione del rischio insito in tale impegno: quello di essere una commedia alienante.

Lo aveva già fatto nel 1944 con il racconto Andare verso il popolo, in modo leggero, comico; lo fa ne La romana in modo drammatico, agganciandosi alle sue tematiche di fondo: il rapporto fra individuo e realtà, l' "indifferenza", cioè la ribellione nei confronti dell'universo borghese, la necessità che tale ribellione sia disposta a confrontarsi, umilmente, in atteggiamento conoscitivo, con l'apertura del reale, imprevedibile, sfuggente, inafferrabile una volta per tutte.

Solo tenendo ben presenti queste tematiche, è possibile comprendere non solo il romanzo breve La disubbidienza, che esce nel 1948, ma anche e soprattutto L'amore coniugale (1949), Il disprezzo (1954), e i capolavori La ciociara (1957) e La noia (1960).


(1) Salvatorelli, Luigi / Mira, Giovanni, Storia d'Italia nel periodo fascista, Mondadori, Milano 1972, p. 534 (prima edizione: Einaudi, Torino 1964) (torna su)
(2) Asor Rosa, Alberto, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Samonà e Savelli, Roma 1965, p. 20; seconda edizione: 1966; terza edizione: Einaudi, Torino 1988) (torna su)
(3) Baldi, Guido (a cura di), Manzoni. Cattolicesimo e ragione borghese, Paravia, Torino 1975, p. 35 (torna su)
(4) Asor Rosa, Alberto, Lo Stato democratico e i partiti politici, in Letteratura italiana, volume primo, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 585. (torna su)
(5) Il racconto fu pubblicato dall'autore in L'amore coniugale e altri racconti, del 1949, e ancora ne I racconti 1927-1951, del 1952. (torna su)
(6) A. Moravia, I racconti 1927-1951, Bompiani, Milano 1952, p. 540. (torna su)
(7) Agostino fu scritto nel mese di agosto (di qui appunto il nome del protagonista che è il titolo dell'opera) del 1942 a Capri. "Agostino è il rapporto di un bambino con la madre, al mare, nelle vacanze. Agostino ama sua madre e al tempo stesso entra a far parte di un gruppo di ragazzi del popolo che formano la corte di un bagnino omosessuale. Agostino, in quei giorni della sua estate in una cittadina balneare che è Viareggio, scopre due cose fondamentali, almeno oggi, nella vita: il sesso e la differenza di classe. Il sesso è ciò che in fondo determina il suo rapporto con la madre, dapprima vista da lui come genitrice sacra e inaccessibile, poi come una donna simile a tutte le altre. La differenza di classe è quello che lo divide dai suoi compagni di gioco proletari. È la storia di una vacanza infantile, ma è anche la storia dell'incontro di Agostino con la cultura moderna, che presuppone l'opera di due grandi smascheratori, Marx e Freud. Si intende che io avevo voluto solo raccontare una favola, ma si deve anche intendere che ogni favola, spinta fino all'ultima conseguenza, non può non rivelare un proprio segreto rapporto con la cultura dell'epoca." (Alberto Moravia - Alain Elkann, Vita di Moravia, Bompiani, Milano 1990., op. cit.: p. 135) (torna su)
(8) Leggo questo racconto nel volumetto 24 racconti, a cura di A. Cadioli, Allegato al n. 9 dell' 8-3-1986 di "Rinascita", pp. 13-17. (torna su)
(9) Ritorno al mare e L'ufficiale inglese, a cui accennerò subito dopo, apparvero in L'amore coniugale e altri racconti, Bompiani, 1949, e poi in I racconti 1927/1951, uscito nel 1952. (torna su)
(10) E' evidente la modellizzazione della propaganda e dei provvedimenti del governo fascista a favore del matrimonio quale mezzo di incremento demografico (cfr. Salvatorelli/Mira [op. cit., 1972, vol. 1: p. 574]). (torna su)
(11) Si pensi, per es., al dibattito su "L'Espresso" suscitato da Moravia stesso con un articolo del 26 maggio 1962 (l'articolo si intitolava I miei problemi, ora in L'uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, pp. 377-382), al quale risposero Pier Paolo Pasolini e Enzo Siciliano (in "L'Espresso", 3 giugno 1962). (torna su)
(12) Sanguineti, Edoardo, Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962, p. 106 (quarta edizione, identica alla prima a parte l'aggiornamento della bibliografia: 1977).  (torna su)
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