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Il bisogno di personaggi e la tragedia impossibile
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Moravia, nato a Roma il 28 novembre 1907 (2), cognome anagrafico Pincherle (3), si ammalò nel 1916 di tubercolosi ossea, "una coxite, ossia ero malato all'anca" (Vita, op. cit.: p. 12). All'inizio la malattia non sembrava preoccupante, infatti dopo qualche mese trascorso a letto il ragazzo tornò a frequentare la scuola. Ma, periodicamente, forti dolori alla gamba lo costringevano nuovamente al letto. Nel 1923 la situazione precipitò: dolori atroci e febbre alta indussero il medico a mettere in pratica una terapia decisa e tuttavia sbagliata: |
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Era stato scoperto allora (era una cura che facevano all'istituto Rizzoli di Bologna) che la tubercolosi ossea si poteva guarire con la trazione. Il punto è disgiungere le ossa fra loro, perché il dolore proviene proprio dal loro contatto: la trazione con i pesi annulla il contatto. Il medico che mi curava la pensava diversamente: mi ingessò [...]. Si veniva ingessati sotto cloroformio: tre infermieri mi torcevano la gamba e la fasciavano col gesso. Ora, la tubercolosi produce contrazioni incontrollabili: all'interno della fasciatura la mia gamba si voltò in dentro e la temperatura febbrile aumentò violentemente. (Siciliano, op. cit. [1982: p. 31])
Allora il medico mi fece togliere l'ingessatura, mi fece torcere di nuovo la gamba, mi fece di nuovo cloroformizzare e di nuovo mettere il gesso. Soffrivo moltissimo, mi ridussi senza forze, non riuscivo nemmeno a sollevare la mano. (Vita, op. cit.: p. 16)
E tuttavia, aggiunge Moravia, "continuavo a leggere Dostoevskij. Ricordo che leggevo L'idiota." Ritorneremo su questo punto.
Il giovane fu letteralmente salvato dalla zia, Amelia Rosselli, madre di Carlo e Nello Rosselli (4), la quale aveva saputo che non solo al Rizzoli di Bologna la tubercolosi ossea veniva curata in modo diverso, ma anche che tale terapia aveva dato risultati molto positivi al sanatorio Codvilla di Cortina d'Ampezzo. Nel marzo del 1924 Moravia partì per Cortina:
[...] fu un viaggio molto sgradevole. In quel tempo della mia vita mi vergognavo di tante cose. [...] Mi sono vergognato quando un bidello mi ha preso per le braccia per portarmi nell'aula dell'esame. Ma soprattutto mi vergognavo di farmi vedere malato in mezzo a tanta gente sana. Il viaggio a Cortina d'Ampezzo si svolse in questo modo: venne un'autoambulanza, mi misero in barella e partimmo per la stazione, dove posarono a terra la barella. Poi, con gran fatica, in mezzo a una folla che guardava, mi infilarono nel vagone letto dal finestrino. Io mi vergognavo che mi guardassero. (Vita, op. cit.: p. 21)
Moravia rimase in sanatorio fino al settembre del 1925, quindi, guarito,
trascorse un periodo di tre anni di convalescenza in Alto Adige (a parte qualche
viaggio a Roma, in Austria e in Germania), a Bressanone e poi a Cortina
nell'albergo Bellevue. E appunto a Bressanone cominciò a scrivere Gli
indifferenti (5).
La malattia e tutto ciò che essa comportò, la sofferenza, la solitudine, la sensazione di diversità rispetto agli altri, costituiscono un fatto decisivo nella vita di Moravia, e spiegano la sua precocità. L'ambizione di scrivere, la aveva avuta fin da piccolo ("Ne avevo, letteralmente, la vocazione", Vita, op. cit.: p. 20): |
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A nove-dieci anni scrivevo dei racconti che erano già Gli indifferenti. Compariva sempre un ragazzo che si muoveva in qualcosa di incerto e traumatizzante, che piano piano, nel corso degli anni, diventò un ambiente sociale. Ancora prima, mi raccontavo, da solo, dei romanzi, delle storie, ad alta voce. (Siciliano, op. cit. [1982: p. 38])
E fin da piccolo aveva avuto il gusto della lettura. La malattia rese la lettura e la scrittura centrali nella sua vita, giacché esse sostituirono le esperienze che la malattia gli impediva di fare.
In sanatorio Moravia leggeva un libro al giorno: "la biblioteca Viesseux di Firenze, alla quale ero abbonato, mi mandava sette volumi ogni settimana, e all'arrivo del nuovo pacco avevo già esaurito il contenuto del precedente"(6). Fra le letture fondamentali spiccano: Dostoevskij (lesse Delitto e castigo a undici anni), Gogol, il romanzo russo in genere, il romanzo antico (Petronio e, soprattutto, Apuleio), il teatro classico, Molière, Shakespeare, Goldoni, e poi ancora la narrativa, Boccaccio, Manzoni, Dickens, Balzac, Stendhal; tra i poeti: Rimbaud, Baudelaire, Mallarmé, Apollinaire, Leopardi, Coleridge, Eliot (7).
Bisogna aggiungere che durante la convalescenza comprò in una libreria di Merano, che vendeva romanzi stranieri, Á l'ombre des jeunes filles en fleur di Proust e Thomas l'mposteur di Cocteau (Ajello [op. cit., 1978: p. 97-98], Siciliano [op. cit., 1982: 33]), e, ancora, non va dimenticata l'opera di Pirandello: "Quando scrivevo Gli indifferenti avevo un'idea del tragico che ricavavo dalla lettura di un po' di teatro pirandelliano. In Il fu Mattia Pascal, nei Sei personaggi, in Così è (se vi pare) trovavo un'eco del mio stesso sentimento di rivolta." (Siciliano, ivi: 68)
Un primo dato è evidente: la formazione di Moravia è europea, facilitata dalla perfetta conoscenza della lingua francese (8) (Delitto e castigo lo lesse appunto in traduzione francese); un secondo dato è la presenza di opere teatrali; un terzo dato è la presenza della cultura del decadentismo (nell'accezione più ampia del termine); infine, la presenza di Dostoevskij. A proposito del modo particolare in cui egli recepì la cultura europea del decadentismo, conviene leggere per intero le seguenti osservazioni di Moravia (Siciliano [op. cit., 1982: p. 32]):
Leggendo, assorbii la cultura europea, la vissi da malato, con la violenza di uno che a letto non vorrebbe stare, ma vorrebbe fisicamente identificarsi con quel che legge. Questa impossibilità era la forma per cui la cultura decadente andava a coincidere con la mia persona.
[...]
Era come se io capissi attraverso la mia malattia tutta l'impossibilità di fondo, l'impossibilità alla vita che la cultura europea esprimeva. Il senso di cupio dissolvi era diffuso a ogni livello in maniera allarmante. Era una cosa di cui soffrivo anch'io acutamente, condannato com'ero all'immobilità. E bastava che mi guardassi attorno, nello stesso sanatorio, per scoprire come l'idea di morte, il disfacimento, pure se sembrerà strano che tutto questo potesse avvertirlo un ragazzo, erano intorno a me. Era in atto una decomposizione sociale dalla quale affiorava un violentissimo erotismo. Oggi non si può avere idea di che cosa poteva essere l'eros di quegli anni, tra l'inizio del secolo e il '25. Fu una vera rivoluzione, le cui tracce si trovano in Freud, in Proust: ma era qualcosa che tingeva di sé la vita ordinaria. Parlo dell'universo borghese, naturalmente: un universo nel quale non entravano tracce di comunismo.
Gli elementi centrali sono: quello personale-biografico: la malattia e l'immobilità; quello culturale-sociale: la letteratura europea, il senso di disfacimento, l'erotismo (9), visti nell'ottica dell'universo borghese. Si noti che manca del tutto la politica. Nel 1924, durante la crisi seguita al delitto Matteottti (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 2. Dalla "età di Giolitti" al fascismo), i cugini Carlo e Nello Rosselli visitarono Moravia in sanatorio e gli dissero che contavano di mandare Mussolini in Corte d'Assise, ma egli non mostrò alcun interesse (cfr. Siciliano [op. cit. 1982: p. 39], Vita: op. cit., p. 23).
Consideriamo ora l'esordio del nostro scrittore.
Nell'ottobre del 1927 Moravia pubblica ne "La fiera letteraria" l'articolo C'è una crisi del romanzo?, l'unico testo che egli abbia firmato con il nome di Alberto Pincherle. L'articolo è stato ripubblicato e commentato da Pasquale Voza, da cui citerò (10).
Il romanzo - afferma Moravia - è malato: soffre di "cerebralità", di una "gran fiera psicologica", di una "zavorra psicoanalitica", vale a dire: soffre di un anomalo squilibrio fra pensiero (cioè commento psicologico del narratore, analisi della coscienza dei personaggi) e reale azione dei personaggi.
Moravia non propone che si ritorni "alla narrazione pura e semplice dei fatti, senza alcun commento psicologico": il problema è che "questo commento psicologico da qualche tempo ha superato di gran lunga, per la sua mole, il testo, cioè l'azione; dopo Raskolnikoff è venuto Leopold Bloom: dopo l'allucinante analisi del delitto quella non altrettanto interessante della defecazione (11) o di altre simili... atrocità; oppure il pensiero sostituisce addirittura l'azione ed abbiamo i monologhi più o meno ampi".
La terapia non può essere che quella di riequilibrare il rapporto fra pensiero (commento psicologico) e azione, e ciò può essere fatto solo in un modo: restaurando la funzione del personaggio.
La posizione di Moravia non è conservatrice, non solo perché egli non mette in discussione la grandezza di Pirandello, Joyce, Proust ("stelle di prima grandezza", li definisce), ma anche è soprattutto perché egli propone come modello Dostoevskij.
Ora, Dostoevskij, come ha mostrato limpidamente Bachtin [12], è il creatore di quel tipo di romanzo, caratterizzato dalla centralità dei personaggi in continuo dialogo fra di loro e con il narratore stesso, che Bachtin definisce come "polifonico", "dialogico", in cui cioè la 'voce' del narratore si confronta, e su un piano di pari dignità, con la 'voce' autonoma dei personaggi. Si tratta di un romanzo in cui il rapporto - problematico, aperto, conoscitivo - con la realtà emerge dal continuo incrociarsi dei punti di vista dei vari personaggi e del narratore.
Ecco che ha ragione Voza [op. cit., 1982: pp. 209-210], quando afferma che secondo Moravia non si tratta di opporre "alla patologia della cultura e della letteratura decadente, contrassegnata da una paralisi progressiva dell'azione [...], una radicale alternativa regressiva", ma "di riequilibrare dall'interno di quello sviluppo patologico una nuova misura narrativa", così che la crisi che la letteratura decadente esprime in modo, per Moravia, troppo soggettivo, venga oggettivata grazie all'azione e alla rinnovata funzione del personaggio.
Lo scrittore si oppone, dunque, sia ad una restaurazione del romanzo di impianto naturalistico, sia ad un romanzo in cui sensazioni e stati d'animo finiscano con il prevalere nei confronti dell'azione. Vale a dire: contro la fine dell'azione del personaggio, contro il suo ridursi a pura coscienza, il giovane Moravia, immobilizzato a lungo dalla tubercolosi ossea e innamorato del teatro, cercava la funzione, il rilievo, la testimonianza del personaggio.
Era proprio questo che Moravia trovava in Dostoevskij: un romanziere esistenzialista ante litteram, che supera nettamente la struttura del romanzo realistico ottocentesco, ma senza che ciò porti all'annullamento della funzione del personaggio. Il rilievo, la funzione, l'autonomia del personaggio, in un instabile equilibrio fra coscienza e azione: questo era, e in buona parte è rimasto, il perno della poetica di Moravia.
Nello stesso 1927 Moravia pubblica nella rivista "900" la novella Cortigiana stanca (13) e l'anno successivo, ancora in "900", la novella Delitto al circolo di tennis (14). Le due novelle, che segnano l'effettivo esordio narrativo del nostro scrittore, mostrano in modo esemplare quella dialettica tra coscienza e azione, di cui sopra. Inoltre, per molti aspetti esse sono come le due facce di una medaglia, nel senso che presentano separatamente temi e tecniche narrative che si ritrovano in modo unitario ne Gli indifferenti. |
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Prima di tutto giova osservare qualcosa. Intanto, la pubblicazione di queste novelle sulla rivista "900", una rivista molto aperta ad esperienze europee, conferma che la polemica contenuta in C'è una crisi del romanzo? non significa un rifiuto totale delle suggestioni europee (rifiuto, peraltro, inconcepibile da parte di chi si era formato su autori come Rimbaud e Dostoevskij).
In secondo luogo, notiamo che Moravia esordisce come scrittore di novelle. Emerge già qui un tratto che segnerà tutta la carriera del nostro autore: la forma narrativa breve costituisce una sorta di 'officina' in cui egli sperimenta i propri schemi narrativi, come del resto altri scrittori più o meno lontani da lui, ma egualmente innovatori dei codici letterari - come Verga e Pirandello - avevano fatto (15).
Inoltre, il racconto breve è per Moravia fin dall'inizio, e lo sarà poi in particolare a partire dal secondo dopoguerra, il mezzo di una divulgazione di massa delle proprie idee, il mezzo con cui egli propone ai lettori temi e moduli stilistici in modo, rispetto al romanzo, più schematico e conciso.
Cortigiana stanca è una novella con azione minima, in Delitto al circolo di tennis, invece, l'azione prevale nettamente sul commento psicologico. Entrambe le novelle sono in terza persona ("Er-Erzählsituation"), ma nella prima la situazione narrativa è "personale" (16), nella seconda è "neutrale": si tratta in quest'ultima della prima realizzazione di quel metodo narrativo oggettivo, teatrale, che caratterizza Gli indifferenti.
In Cortigiana stanca si narra di una visita, molto probabilmente l'ultima, di un giovane (è questa la "Reflektorfigur", peraltro senza nome per tutto il racconto) alla sua matura amante, Maria Teresa. Abbiamo la seguente situazione: da una parte il giovane che si vede costretto a lasciare la donna perché non ha più i soldi per mantenerla, dall'altra parte la donna che si trova in condizioni economiche precarie.
Non c'è reale incontro: ciascuno dei due cerca separatamente la soluzione del proprio problema. Il giovane, mentre si reca dall'amante, se la immagina più vecchia e cadente di quanto in realtà non sia, per avere la forza di lasciarla; di fronte alla donna, però, oscilla fra l'attrazione che Maria Teresa ancora esercita su di lui, il desiderio di trovarla più matura per provare almeno compassione per lei, la gelosia nei confronti di altri eventuali amanti che la donna potrebbe avere e di quelli che ha avuto, il cattivo compiacimento per il fatto che lei è ormai condannata ad essere vecchia.
Maria Teresa da parte sua ignora il giovane. La soluzione del suo problema la vagheggia da una parte immaginandosi di dover necessariamente morire di morte violenta ("Evidentemente la tragedia moderna, tra quattro mura, lusingava la sua immaginazione di avventuriera stanca e sfiduciata" (17): è questo l'unico segmento narrativo che potrebbe essere attribuito al narratore, cioè fuori della focalizzazione del giovane), dall'altra parte aspettandosi da un antico amante, diventato ricco, l'aiuto economico necessario per potersi trasferire in una piccola città e condurre lì una vita ritirata.
Ma l'aiuto sperato non viene: aspetta una telefonata dall'ex amante, telefona invece il segretario dell'uomo per comunicarle che questi non ha tempo di parlarle. Maria Teresa piange per essere costretta a mendicare la vita, il giovane non va al di là di una pura contemplazione di questo dolore, si congeda dalla donna, ed è contento di avere ancora tempo per chiudersi in un cinematografo.
Queste le linee di una novella che, scritta a vent'anni, appare incredibilmente densa e pregnante. Vi è un 'luogo' che merita di essere citato perché ne emerge un motivo importantissimo nel 'primo' Moravia:
La lampada illuminava nel mezzo la stanza, e tutte le mattonelle di maiolica lucente ne riverberavano i riflessi; la stanza era un cubo di luce bianca coi due amanti dentro come, dentro un blocco di ghiaccio mortuario, due salme ben conservate. (18)
Questo passo contiene un'immagine tipica degli esordi del nostro scrittore: un luogo chiuso, la luce che lo inonda, lo riempie, la sensazione di bianco che ne emana. A questa immagine si oppone la conclusione della novella: il giovane si rifugia nel buio di un cinematografo. Il buio si oppone alla luce, ma può anche nascondere un inganno, può costituire un surrogato di quella realtà luminosa dalla quale si vuole fuggire:
Questa idea [di andare in un cinematografo] gli piacque, non sapeva neppure lui perché lo entusiasmò. Ora provava un desiderio insaziabile di quella promiscua oscurità popolata di avventure facili e di paesaggi lontani. (19)
In Delitto al circolo di tennis compare il motivo dello specchio, tipico di tutta l'opera di Moravia (lo specchio è il luogo di confronto con la propria identità e con la maschera che la realtà le impone [20] ). Compare inoltre, probabilmente in modo del tutto involontario - stando a quanto Moravia ha detto a proposito de Gli indifferenti (21) - e tuttavia corposo, quell'acre e spietata critica della società borghese, che diventerà con consapevolezza sempre più lucida una caratteristica fissa dell'opera del nostro autore.
Il comitato direttivo di un circolo di tennis, composto di ricchi borghesi, organizza un ballo di gala. Viene invitata anche un'anziana "principessa", una donna che un tempo ha fatto vita di società, e poi ne è stata esclusa in seguito a scandali. Il motivo dell'invito è il gusto di prendersi gioco, come già altra volta è stato fatto, di questa donna snob e patetica, pronta ad illudersi di piacere ancora, pronta a prendere sul serio qualsiasi sciocchezza le venga detta. Solo Costa, un membro del comitato, si oppone e trova tutto ciò vergognoso, ma si limita ad abbandonare la riunione in cui si decide l'invito.
Durante la festa, Ripandelli, un altro membro del comitato, invita la donna in un salottino al secondo piano, là dove ha luogo una miserabile commedia. Ripandelli si finge innamorato della donna. Entrano improvvisamente altri membri del circolo, tra cui Jancovich, il più anziano, ricco industriale. Questi finge di essere il padre di Ripandelli e di essere anche lui innamorato della "principessa".
La farsa degenera: gli uomini chiedono alla donna di spogliarsi, lei accetta, ma poi "sia che ella si vergognasse", "sia che [...] un barlume di coscienza l'avesse illuminata ed ella si fosse veduta in quella stanzetta bianca [corsivo mio] tra quegli uomini imbestialiti" (22), rifiuta e cerca di scappare.
Gli uomini la prendono e cercano di spogliarla con la forza. La donna sfugge ancora e, a questo punto, Ripandelli la uccide, colpendola sulla testa con una bottiglia. La situazione viene risolta dall'industriale (vero "deus ex machina"), che propone di portare via più tardi il cadavere e di gettarlo nel fiume. La "principessa" viveva sola, la gente penserà sicuramente ad un suicidio in un momento di sconforto. Gli uomini escono dalla stanzetta, dopo essersi guardati in uno specchietto per vedere se sono `in ordine'. E ritornano al ballo.
Qui il "cubo di luce" è proprio il circolo di tennis, e, ancora di più, la stanzetta che vede la "tragedia moderna":
Il salottino particolare era una stanzetta piena di armadietti bianchi, nei quali venivano di solito riposte le racchette e le palle.(23)
In questa stanzetta bianca la "principessa" muore di quella morte violenta che la "cortigiana stanca" vagheggiava, ma è una morte senza senso, la "tragedia moderna" è del tutto assurda: Ripandelli uccide perché preso da "un senso nero di irreparabilità", da un' "angoscia che fa pensare 'non c'è più rimedio, il peggio è successo, meglio abbandonarsi alla china...'" (24).
A parte la principessa (personaggio umoristico, del tutto pirandelliano [25]), tre personaggi si impongono all'attenzione: Costa, che si ribella, ma non agisce; Ripandelli, che agisce, ma la cui azione è assurda, non ha alcun seguito, si risolve in uno sguardo di controllo allo specchio e nel ritorno al ballo; Jancovich, freddo e cinico industriale, che domina e manovra la situazione. Si noti poi lo spazio in cui si svolge l'azione, esso è duplice: la sala del ballo e la stanzetta bianca. La sala del ballo, per così dire, apre e chiude la tragedia moderna, nel senso che la abbraccia, la comprime, la annulla: è come un mare in cui la tragedia affonda senza lasciare tracce.
Ho citato precedentemente Moravia, il quale ha affermato che in alcune opere di Pirandello, tra cui Il fu Mattia Pascal, egli trovava un'eco del suo stesso sentimento di rivolta.
Ne Il fu Mattia Pascal (1904) si tratta di questo. Mattia Pascal vive una situazione alienante e dolorosa con sua moglie. Si allontana da casa, va a Montecarlo, dove per caso gioca e vince una forte somma. Sulla via del ritorno a casa, legge su un giornale una notizia incredibile: Mattia Pascal è morto. Il fatto è che la moglie di Mattia ha identificato il marito nel cadavere di uno sconosciuto suicida. Mattia decide di approfittare: ora è ufficialmente morto, può 'uscire' dalla sua vita meschina, può costruirsi una nuova vita, libera e soddisfacente.
Dopo vari viaggi, si stabilisce a Roma con il nome di Adriano Meis, e qui si innamora di una donna, Adriana. Ma la vita 'nuova' che sognava non può realizzarsi: perché gli manca un passato, una identità, perché non può provare di essere la persona che dice di essere, egli si sente in effetti un'ombra. Decide di inscenare il suicidio di Adriano Meis e di tornare a casa, nell'ambiente da cui si era illuso di poter uscire.
A casa trova la moglie sposata con un altro: e questo conferma che lui è un escluso, che la sua ribellione è stata inutile, essa ha, se non peggiorato, inesorabilmente confermato la sua condizione. E allora si rassegna a essere 'il fu Mattia Pascal', e si reca talvolta a visitare la sua tomba.
Rivolgiamo ora brevemente la nostra attenzione alla categoria di "campo semantico", proposta da Jurij M. Lotman [26]. Dopo aver parlato dell'importanza nell'opera d'arte dei modelli spaziali, che "diventano base di organizzazione per l'edificazione di un 'quadro del mondo', di un modello interamente ideologico proprio al dato tipo di cultura" (p. 263), Lotman prende in esame il problema dell'intreccio (sujet) nel testo narrativo.
Lotman si inserisce nella tradizione dei formalisti russi, secondo cui alla base del concetto di intreccio c'è la rappresentazione dell'avvenimento. (27) Il critico arricchisce l'idea formalista, in quanto alla domanda "come si presenta l'avvenimento come unità della composizione del sujet?" risponde: "Nel testo l'avvenimento è il trasferimento del personaggio oltre i confini del campo semantico" (p. 276).
Infatti, secondo Lotman, i testi letterari rappresentano un campo semantico e sono retti da una logica binaria: il campo semantico si distingue in due sottoinsiemi separati da un limite spaziale, il passaggio di un personaggio oltre il limite è avvenimento. Di qui la distinzione fra personaggi "immobili", che accettano un dato ordine, una data visione del mondo, e personaggi "mobili", che non accettano quell'ordine, che cercano di superare il "limite"; di qui la distinzione fra "testi senza intreccio", che "sostengono un certo mondo e la sua organizzazione", e "testi ad intreccio", costruiti su quelli come loro negazione (pp. 279-288).
Torniamo a Moravia. La 'ribellione' di cui egli parlava è, in termini semiotico-narratologici, appunto il superamento del limite del campo semantico. Mattia Pascal è un personaggio paradigmatico della narrativa moderna perché vive la ambiguità del superamento del limite: egli si illude di poter superare il limite, ma la sua azione si rivela vana. Tale ambiguità, appunto, è abbozzata nelle due prime novelle moraviane: abbiamo da una parte la realtà, alienante, in cui vivono la 'cortigiana', il suo amante e i protagonisti di Delitto al circolo di tennis; dall'altra parte il tentativo di uscirne: in forma di tragedia, vagheggiata (la 'cortigiana') o attuata (Ripandelli), o in forma di fuga (nel buio di un cinematografo, l'amante della 'cortigiana'). Il ritorno al ballo dei protagonisti di Delitto al circolo di tennis segna la vanità dell'azione, l'inutilità, l'impossibilità di una tragedia risolutrice: tutto rimane come prima.
Si tratta di un abbozzo, come dicevo. L'esemplare realizzazione di tale schema si ha ne Gli indifferenti (1929). Prima di tutto vediamo in breve di che cosa si tratta.
Mariagrazia Ardengo, madre di due figli, Carla e Michele, ha affidato l'amministrazione dei suoi beni a Leo Merumeci, con il quale ha una relazione. Merumeci non solo ha del tutto consumato il patrimonio della donna, ma anche è stanco di questa relazione e circuisce la ventenne Carla, la quale, dopo qualche esitazione, cede.
Michele è a conoscenza della disonestà di Leo, ma è completamente indifferente, anche se soffre della sua indifferenza e vagheggia qualche gesto di riscatto. L'occasione decisiva si presenta quando Michele viene a sapere da Lisa, un'amica di famiglia, che è stata amante di Leo, della relazione fra questi e la sorella.
Michele compra una pistola e i proiettili, si reca a casa di Merumeci, che si trova proprio in compagnia di Carla, e spara all'uomo. Ma non succede proprio nulla, perché Michele, tutto preso dal 'sogno' della tragedia, ha dimenticato di caricare la pistola. Merumeci, da parte sua, per 'riparare' la seduzione di Carla, decide di sposare la ragazza, e questo gli permetterà di impossessarsi anche della villa di Mariagrazia, ultimo bene della famiglia. Il romanzo si conclude con Carla e la madre che si accingono a recarsi ad un ballo in maschera insieme con Leo. Queste le linee essenziali della trama.
Nel Ricordo de "Gli indifferenti", pubblicato su "Nuova Europa" nel 1945, poi in A. Moravia, L'uomo come fine e altri saggi, Bompiani, Milano 1964, pp. 61-67, Moravia espone il progetto formale che presiedette alla nascita del suo romanzo nei seguenti termini (p. 63):
[...] mi ero messo in mente di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di un'opera narrativa e quelle di un dramma. Un romanzo con pochi personaggi, con pochissimi luoghi, con un'azione svolta in poco tempo. Un romanzo in cui non ci fossero che il dialogo e gli sfondi e nel quale tutti i commenti, le analisi e gli interventi dell'autore fossero accuratamente aboliti in una perfetta oggettività.
Come si vede, non vi sono riferimenti a questioni contenutistiche, sociali, ideologiche (cfr. supra quanto detto a proposito di Delitto al circolo di tennis), ritroviamo invece quella polemica contro il commento psicologico contenuta in C'è una crisi del romanzo?. La ricerca di oggettività infatti corrisponde alla rivalutazione del personaggio e della sua funzione in un intreccio ben definito:
D'altra parte mi ero convinto che non mettesse conto di scrivere se lo scrittore non rivaleggiava col Creatore nell'invenzione di personaggi indipendenti, dotati di vita autonoma; l'idea che l'arte potesse essere altra cosa che la creazione di personaggi non mi sfiorava neppure la mente. [...] Soprattutto la maggiore difficoltà la incontravo nello stabilire dei rapporti tra me e i miei personaggi. Sentivo che mi sarebbe stato relativamente facile fare dei personaggi semplici portavoci dei miei sentimenti e delle mie idee; ma non era questo il fine che mi proponevo. (ivi: pp. 63-64)
L'oggettività tuttavia non esclude la 'presenza' del narratore, 'presenza' che si concretizza non solo nella discreta onniscienza, ma anche nello stile, in particolare, come ha mostrato in modo magistrale Franca Schettino [28], nella scelta degli aggettivi.
Discreta onniscienza, si diceva, e infatti possiamo parlare di narratore "nascosto" (o "non rappresentato") (29), con focalizzazione interna variabile nella prima parte del romanzo (capp. I-VIII), più spiccatamente teatrale, con focalizzazione interna fissa (personaggio di Michele), nella seconda parte (capp. IX-XVI), là dove la teatralità viene interiorizzata (30).
Da un punto di vista tecnico le due 'parti' de Gli indifferenti riproducono, le prime due novelle: narrazione "personale" (focalizzazione interna fissa) per quanto riguarda Cortigiana stanca, narrazione "neutrale" (focalizzazione interna variabile) per quanto riguarda Delitto al circolo di tennis.
Ora: qual è l'avvenimento, nel senso di Lotman, cioè il passaggio del personaggio oltre il limite del campo semantico, ne Gli indifferenti? L'unica azione del romanzo è il rapporto erotico fra Carla e Merumeci. Consideriamo qualche passo significativo (citerò sempre dalla seguente edizione: A. Moravia. Opere 1927-1947, a cura di Geno Pampaloni, "Classici Bompiani", Milano 1981).
Innanzi tutto, lo 'sfondo' dell'azione di Carla (p. 30):
[Carla] sedeva alla tavola familiare, come tante altre sere; c'erano i soliti discorsi, le solite cose, più forti del tempo, e soprattutto la solita luce senza illusioni e senza speranze, particolarmente abitudinaria, consumata dall'uso come la stoffa di un vestito e tanto inseparabile dalle loro facce, che qualche volta accendendola bruscamente sulla tavola vuota ella aveva avuto la netta impressione di vedere i loro quattro volti, della madre, del fratello, di Leo e di se stessa, là, sospesi in quel meschino alone; c'erano dunque tutti gli oggetti della sua noia [...].
Questo è il campo semantico nel quale si muove il personaggio: la realtà della vita familiare, fatta di ripetitività, noia, ipocrisia (Mariagrazia e Merumeci fingono un rapporto formale, si danno del "lei" dinanzi ai figli, i quali sanno bene della loro relazione), scenate di gelosia della madre. Si noti (è solo uno fra i tantissimi passi) che questo campo semantico è caratterizzato dalla luce, senza illusioni, senza speranze, abitudinaria: il 'cubo di luce' come 'un blocco di ghiaccio mortuario', di cui abbiamo letto in Cortigiana stanca.
Dopo una ennesima scenata di gelosia di Mariagrazia, leggiamo (pp. 32-33):
[...] ora, dopo quest'ultima scena, un'atterrita disperazione possedeva la fanciulla: "finirla," pensava guardando la madre puerile e matura che a testa bassa pareva ruminare la gelosia; "finirla con tutto questo, cambiare ad ogni costo." Delle risoluzioni assurde passavano per la sua testa; andarsene, sparire, dileguarsi nel mondo, nell'aria. Si ricordò delle interessanti parole di Leo: "Tu hai bisogno di un uomo come me." Era la fine: "Lui o un altro..." pensò; la fine della sua pazienza, dalla faccia della madre i suoi occhi sofferenti passarono a quella di Leo: eccoli i volti della sua vita, duri, plastici, incomprensivi [...].
Più tardi, nella sua camera, Carla riflette (p. 54):
"Non è strano?" si diceva; "domani mi darò a Leo e così dovrebbe incominciare una nuova vita... e appunto domani è il giorno in cui sono nata;" si ricordò di sua madre; "ed è col tuo uomo" pensò "col tuo uomo, mamma, che andrò." Anche questa ignobile coincidenza, questa sua rivalità con la madre le piaceva; tutto doveva essere impuro, sudicio, basso, non doveva esserci né amore né simpatia, ma solamente un senso cupo di rovina: "Creare una situazione scandalosa, impossibile, piena di scene e di vergogne" pensava; "completamente rovinarmi..."
Si tratta, a ben altro livello artistico, dello stesso cupo e nero senso di irreparabilità che induce Ripandelli ad agire, ad uccidere la "principessa".
Ed infine, poco prima di andare all'appuntamento con Leo (p. 168):
[Carla] corse alla finestra, incollò il volto contro i vetri neri; per vedere se piovesse ancora: ascoltò, guardò: nulla; la notte non voleva rivelarsi e alle sue spalle la stanza con una fatalità ironica le opponeva le sue bianche illusioni e l'indifferente luce della lampada.
La luce e il colore bianco connotano nel romanzo la normale realtà di casa Ardengo, una realtà che a Carla (e Michele) si rivela unheimlich e dalla quale Carla cerca di uscire. Alla luce si oppone il buio della notte (31): è il buio della notte che la ragazza cerca, e questo la spinge al rapporto erotico con Leo.
Si noti come la finestra segni il limite fra la luce dell'indifferenza e il buio della differenza: Carla vuole differenziarsi dalla madre, vuole rompere l'insopportabile, indifferente normalità; ma, come il passo citato mostra in modo magistrale, quel buio è ambiguo (come ambigua è la promiscua oscurità del cinematografo in cui si rifugia il giovane di Cortigiana stanca), le illusioni della ragazza si tingono già di bianco, e infatti cercando quel buio, Carla perverrà alla 'luce' del ballo in maschera, alla fine del romanzo, e, in prospettiva, alla 'luce' del matrimonio con Leo. In effetti l'azione di Carla termina quando la ragazza si maschera (davanti allo specchio) da Pierrot per partecipare alla festa, proprio come l'azione di Ripandelli termina quando l'uomo, prima di ritornare al ballo, si specchia per vedere se è 'in ordine'.
Anche Michele si ribella, ma non agisce, egli cioè fa pensare a Costa in Delitto al circolo di tennis: "rivoltato", ma impotente (32). E anche per Michele compare il limite segnato dalla finestra: dopo un ennesimo, e sterile, tentativo di provocare Merumeci,
Il ragazzo si rifugiò presso la finestra: la pioggia cadeva ancora, se ne udiva il fruscio sulle imposte e sugli alberi del giardino; pioveva tranquillamente, sulle ville, per le strade vuote. Molta gente doveva ascoltare come lui, dietro i vetri chiusi, col cuore pieno dell'istessa angoscia, volgendo le spalle alla calda intimità delle stanze: "È inutile" si ripeteva toccando con le dita incerte i bordi della finestra, "è inutile... questa non è la mia vita..." [...] "Tutto qui diviene comico, falso; non c'è sincerità... io non ero fatto per questa vita." L'uomo che egli doveva odiare, Leo, non si faceva abbastanza odiare [...].
"Non è questa la mia vita" pensò con convinzione; "ma allora?"
Dietro di lui l'uscio si chiuse ed egli si voltò; il salotto era vuoto; madre e figlia erano uscite per accompagnare l'ospite alla porta; la lampada brillava nel cerchio immobile delle poltrone deserte. (p. 161)
Michele non agisce perché non ha fede ("un po' di fede... e avrei ucciso Leo... ma ora sarei limpido come una goccia d'acqua", p. 304), non ha una "ragione assoluta" per agire (33). Egli cerca un "paradiso di concretezza e di verità" (p. 243), nel quale la sincerità e il tragico, e quindi l'azione che da essi scaturisce, non vengano annullati dal ridicolo e dal falso:
Non esistevano per lui più fede, sincerità, tragicità; tutto attraverso la sua noia gli appariva pietoso, ridicolo, falso; [...] bisognava appassionarsi, agire, soffrire, vincere quella debolezza, quella pietà, quella falsità, quel senso del ridicolo; bisognava essere tragici e sinceri.
"Come doveva esser bello il mondo" pensava con un rimpianto ironico, quando un marito tradito poteva gridare a sua moglie: "Moglie scellerata; paga con la vita il fio delle tue colpe" e, quel ch'è più forte, pensar tali parole, e poi avventarsi, ammazzare mogli, amanti, parenti e tutti quanti [...]; quando non si pensava tanto, e il primo impulso era sempre quello buono; quando la vita non era ridicola come ora, ma tragica e si moriva veramente, si uccideva, e si odiava, e si amava sul serio [...]. (pp. 210-211)
La classica azione tragica: questo sogna il personaggio, e questo egli non riesce a realizzare perché il mondo in cui vive non è quello classico, è quello moderno.
Il campo semantico appare chiaramente diviso in due sottoinsiemi: (a) il sottoinsieme della realtà normale, dominato e connotato dalla luce, e questo sottoinsieme forma la base, il testo senza intreccio, il testo che rappresenta l'ordine economico e morale costituito ed accettato; (b) il sottoinsieme della differenza, della ribellione, della rottura (o del tentativo di rottura) di quella normalità, ed è questo il testo ad intreccio. Il limite spaziale è segnato, come abbiamo visto, dalla finestra, e l'unico personaggio 'mobile' del romanzo è Carla; cerca di essere 'mobile' (o meglio è 'mobile' a livello interiore, e qui è la sua grandezza di personaggio) Michele, sono 'immobili' gli altri.
Tuttavia tale campo semantico è fortemente ambiguo. Carla agisce, ma la sua azione è avvenimento solo nella misura in cui il personaggio decide di sposare Merumeci, capisce, cioè, che questa è in effetti la soluzione del suo problema: non cercare una rottura impossibile, ma, per così dire, integrarsi nel "testo senza intreccio".
Carla diventerà come la madre, meglio: istituzionalizzerà con il matrimonio la posizione di amante della madre. Così come il delitto di Ripandelli viene riassorbito dalla festa: la festa, appunto, il ballo sono ne Gli indifferenti e in Delitto al circolo di tennis il 'luogo', lo 'spazio' e il simbolo della struttura senza intreccio, della struttura che sostiene un determinato ordine sociale, sicché l'ingresso di Ripandelli (di nuovo 'in ordine' dinanzi allo specchio) e di Carla (che si è mascherata da Pierrot dinanzi allo specchio) nella festa segnano l'ingresso dei personaggi 'mobili' nella struttura 'immobile', segnano la fine dell'intreccio, la negazione dell'avvenimento.
Ambiguità del campo semantico, dunque, ovvero ambiguità dell'azione, ambiguità dell'intreccio, un intreccio che serve a mostrare che reale avvenimento non c'è: il finale all'imperfetto di Delitto al circolo di tennis e de Gli indifferenti ne è il segno più chiaro e convincente.
Michele da parte sua è indifferente, egli non agisce, nella sua vicenda non vi è avvenimento, cioè non vi è superamento del limite da parte di Michele: è questo il senso dell' indifferenza che caratterizza la 'risposta' del ragazzo all'immobile ipocrisia del testo senza intreccio. Dunque, per quanto riguarda Michele, la conclusione del romanzo è aperta.
Nel complesso Gli indifferenti si presenta come un testo ambiguo: da parte di un personaggio, Carla, viene simulato il superamento del limite, ma in realtà viene negata l'esistenza stessa di questo limite; da parte dell'altro personaggio, Michele, non vi è alcun superamento: la ricerca rimane aperta. In entrambi i casi il superamento del limite non è un dato di fatto, ma un problema per il lettore. Ed è appunto questa, del resto, la questione centrale che pone la narrativa moderna: la questione dell'opera aperta (34).
Il campo semantico e l'avvenimento al suo interno non sono entità astratte: sono fatti storico- culturali. Vale a dire, l'intreccio "è organicamente legato ad una rappresentazione del mondo che fornisce la scala degli avvenimenti" (Lotman [op. cit., 1970/1972-1980: p. 276]), e dunque la struttura dell'intreccio viene definita dal tipo di modellizzazione culturale del mondo. Come si realizza questo ne Gli indifferenti?
Riprendiamo la genesi del romanzo. Nel Ricordo de "Gli indifferenti" Moravia dice:
Cominciai Gli indifferenti senza alcun piano preciso né sul significato e i fini dell'opera che intendevo scrivere, né sulla trama, né sui personaggi, né sull'ambiente. (cit., p. 62)
[...]
Ero partito senza idee contenutistiche ma non senza alcuni schemi letterari. Durante molti anni avevo letto moltissimi romanzi e opere teatrali. Mi ero convinto che l'apice dell'arte fosse la tragedia. D'altra parte mi sentivo più attratto dalla composizione romanzesca che da quella teatrale. (p. 63)
Seguono i passi che già conosciamo: cioè il conseguente progetto di scrivere un romanzo che avesse al tempo stesso le qualità di un'opera narrativa e quelle di un dramma. Centrale in questo romanzo doveva essere il ruolo dei personaggi.
Fin qui il programma di Moravia, pur senza riferimenti contenutistici, è tuttavia formalizzazione, modellizzazione di precisi fatti culturali: il dibattito sul romanzo, del quale l'autore si era occupato in C'è una crisi del romanzo?; la cultura decadente, caratterizzata in narrativa dalla paralisi dell'azione e dalla dissoluzione del personaggio, cultura che Moravia aveva recepito da malato costretto all'immobilità, cultura che egli non rifiutava ma che voleva riequilibrare, oggettivare, ripristinando il ruolo del personaggio, dell'azione tragica, giacché la tragedia costituiva per lui l'apice dell'arte. Come si vede, anche senza riferimenti contenutistici, l'opera (pure a livello di progetto) modellizza il contesto culturale ed umano, personale, dell'autore.
Moravia prosegue (p. 64):
La particolare struttura de Gli indifferenti però non fu voluta né prestabilita. Io avevo pensato che il romanzo dovesse svolgersi in due giorni lontani l'uno dall'altro, come in due atti drammatici. Mi accorsi però scrivendo che non c'era alcun motivo di diluire la vicenda in un lungo periodo di tempo. Naturalmente e quasi mio malgrado saldai il primo giorno al secondo. Ciò contribuì ancor di più a dare al romanzo quella fisionomia teatrale che era una delle mie ambizioni originarie.
Ristretta la vicenda a due giorni, venne come conseguenza che dovevo descrivere oltre allo svolgimento delle passioni dei miei personaggi anche tutto ciò che facevano all'infuori di queste passioni. Ne seguirono tutte quelle descrizioni di pranzi, di cene e di scene di genere che riempiono il romanzo. Così senza volerlo né propormelo come fine, diedi una pittura completa e veritiera della vita quotidiana di una famiglia borghese romana di quegli anni.
Maria Corti [35] ha notato che alcune opere nascono con una struttura già chiara, fin dall'inizio, nella mente dell'autore, in altre invece la struttura si forma, si modifica e si riforma gradatamente, ed è come se l'opera stessa dettasse all'autore la propria volontà. Gli indifferenti appartiene al secondo tipo, come la citazione mostra con chiarezza: si noti quel "quasi mio malgrado".
Ma vi è di più. Dunque, coerentemente con il suo progetto, Moravia voleva rappresentare le "passioni" dei personaggi, in una vicenda diluita nel tempo e tuttavia concentrata in due giorni, come in due atti di un dramma. La decisione di saldare i due giorni avvicinava i due atti del dramma, cosa che piaceva all'autore, giacché ne veniva accresciuta la fisionomia teatrale alla quale egli mirava, ma determinava una necessità: due giorni separati nel tempo permettono di concentrarsi solo sulle passioni dei personaggi, ma se i due giorni diventano consecutivi, proprio tale continuità di svolgimento impone, appunto, la necessità di descrivere anche avvenimenti privi di passione, avvenimenti non tragici, ma semplicemente quotidiani. E a questo punto il romanzo si fa modellizzazione dell'universo familiare borghese.
Emerge dunque un processo attraverso cui una generale scelta formale (quella del "romanzo teatrale") subisce un aggiustamento strutturale (i due giorni diventano consecutivi), tale aggiustamento impone nuovi nuclei contenutistici (descrizioni di vita quotidiana, di pranzi, di cene, ecc.) e così l'opera assume un "significato" (rappresentazione della vita quotidiana di una famiglia) al quale l'autore non aveva per nulla pensato. Ancora: per rappresentare la vita familiare, cioè per aggiungere i nuovi nuclei contenutistici che descrivessero tale vita, Moravia aveva un unico modello: egli, giovanissimo, conosceva solo la propria famiglia, una famiglia borghese, ed ecco che la rappresentazione della vita quotidiana di una famiglia si precisa come rappresentazione della vita quotidiana di una famiglia borghese, della quale l'autore non era entusiasta:
Mia madre era una signora borghese, come ce ne sono tante. Entrambi i miei genitori non erano persone particolari, ma avevano dei caratteri piuttosto comuni, con pregi e difetti banali. Erano i classici personaggi borghesi di un tempo. Soffrivo molto perché mi dava fastidio la famiglia borghese. (D'Isa [36])
Ho detto che Moravia non era entusiasta della vita familiare, ma va precisato: a livello inconscio. Alla domanda "Tu stavi bene in famiglia?", infatti, egli ha risposto. "Mica tanto. Ma non me ne rendevo conto. Che inconsciamente non mi piacesse è dimostrato dalla descrizione poco lusinghiera della vita di famiglia che ho fatto negli Indifferenti." (Vita: op. cit., p. 8)
E bisogna ancora sottolineare che non si tratta qui di meccanico rispecchiamento: la famiglia di Moravia non era come la famiglia di Michele. Le abitudini, il modo di pensare, il rapporto uomo-donna, le piccole nevrosi quotidiane: questi sono gli elementi, i segni che lo scrittore coglie nella sua famiglia. La famiglia non viene riprodotta meccanicamente: viene interpretata.
Ora succede un fenomeno importante: questa descrizione e 'interpretazione' della vita familiare, frutto come abbiamo visto di una scelta tecnico-letteraria, determina: (a) la presa di coscienza critica da parte dello scrittore delle caratteristiche della famiglia borghese; (b) il fatto che il romanzo venga recepito come opera di critica antiborghese, e svolga una obiettiva funzione antifascista; (c) il fatto che il progetto 'tragico' di Moravia (la tragedia come apice dell'arte) ne venga compromesso.
A proposito dell'ultimo punto, basti leggere:
La differenza tra la famiglia di Eschilo e quella di Freud è che nella prima esiste un elemento drammatico, nella seconda c'è un elemento abitudinario. Le signore viennesi che raccontano i sogni a Freud non vivono il dramma che coinvolge invece tutta la trilogia di Eschilo, perché dietro all'immagine della borghesia non palpita il mito né la leggenda, ma gli episodi nevrotici legati alle meschinità familiari quotidiane. (D'Isa: [op. cit., 1991: p. 113])
Sembra che parlino Carla e Michele. Si notino gli accenni all' "elemento abitudinario", alle "meschinità familiari quotidiane": è appunto ciò che angoscia Carla, ciò che la spinge ad agire, e poi proprio da tali meschinità e da tale elemento abitudinario l'azione della ragazza verrà riassorbita. E, d'altra parte, Michele cerca nell'idea classica della tragedia il "paradiso di concretezza e di verità", ma si rende conto che invece ora e qui, nella sua famiglia, tutto è comico e falso. E per questo è incapace di agire. Ecco che dal punto di vista della vicenda di Michele, Gli indifferenti è una tragedia moderna, cioè mancata, o meglio una tragedia impossibile.
Passiamo al secondo punto, la ricezione. E qui innanzi tutto una questione teorica. Secondo Buttitta/Giacomarra [37] e secondo Buttitta [38], il "significato" di un segno diviene "senso" del segno, quando il segno è inserito nel contesto sociale e culturale. Riassume Buttitta [op. cit., 1979: p. 71], corsivo dell'autore:
Pertanto solo la conoscenza del contesto consente di portare avanti la indagine semiotica oltre il momento del "significato", e dunque, come commenta Pagnini [39], per un'opera letteraria "avere un 'senso' e non soltanto un 'significato' [...] significa avere agganciato dei referenti che appartengono alla sociocultura cui il recettore appartiene."
In conclusione, il "significato" di un'opera letteraria acquista un "senso" (che può anche allontanarsi dal "significato") quando l'opera è considerata alla luce della realtà storica, economica, sociale e culturale. Il caso de Gli indifferenti è esemplare: il "significato" del romanzo, come Moravia ha chiaramente sostenuto, non era quello di una critica sociale antiborghese; il "senso" antiborghese e antifascista si è prodotto nell'ambito del contesto storico-sociale. E consideriamo appunto tale contesto.
Mentre lentamente si riprendeva dalla malattia, Moravia stringeva contatti con alcuni letterati, tra cui Corrado Alvaro (1895-1956), il quale lo presentò a Bontempelli. Infatti, come sappiamo, le due novelle, di cui ci siamo sopra occupati, escono appunto nella rivista fondata da Bontempelli, "900".
Un giorno, deve essere stato intorno al 1926, Moravia partecipò ad una riunione di redazione di "900", nella quale ognuno dei presenti si impegnò a scrivere un romanzo. Nel 1928 Moravia era l'unico ad aver concluso il romanzo (al quale del resto lavorava da tempo, si tratta appunto de Gli indifferenti) e lo presentò all'editore di "900", tale Lironcurti. Questi lo rifiutò, giudicandolo "una nebbia di parole". Moravia presentò allora il libro alla casa editrice Alpes. Il direttore, Cesare Giardini, gli rispose dopo alcuni mesi, dicendogli che il libro era bello e veniva accettato. In seguito, però, Giardini inviò ancora una lettera a Moravia, in cui gli diceva che, date le difficoltà economiche in cui versava la casa editrice, egli non poteva presentare al consiglio di amministrazione uno scrittore sconosciuto, senza che questi si assumesse il pagamento delle spese di pubblicazione. Il padre di Moravia pagò, Gli indifferenti uscì nel luglio 1929 (per tutte queste notizie, cfr. Siciliano [op. cit., 1982: pp. 39-40] e Vita: op. cit., pp. 44-46).
Come si vede, il libro non fu bloccato da alcuna censura, non solo: uno dei proprietari della casa Alpes era Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Il fatto è, come nota Moravia (Camon [op. cit., 1988: pp. 18-22]), che il fascismo nel '29 era del tutto impreparato a condurre una politica culturale (bisogna specificare: per quanto riguarda la letteratura).
L'atmosfera, per il momento, era dominata ancora dal 'rappel à l'ordre' propugnato da "La Ronda" (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 3. Riviste, frammento romanzo), sicché il fascismo "era abituato ad un'atmosfera letteraria talmente depressa, talmente asfittica che non attribuiva alcuna importanza alla letteratura. La considerava un'attività bizzarra, decorativa e innocua [...].
Gli indifferenti in un certo senso furono il campanello d'allarme: fecero capire che la letteratura [...] poteva dare delle noie." (Camon [op. cit. 1988: p. 21, 22]) Certo, un campanello d'allarme, e per varie ragioni. Innanzi tutto, il romanzo fu accolto bene: non solo ebbe cinque edizioni, ma fu salutato da alcuni critici di rango. Fondamentale fu, e in parte rimane, la recensione di Giuseppe Antonio Borgese sul "Corriere della Sera" del 21 luglio 1929 (se ne possono leggere stralci in Mascia Galateria [40]).
A parte la suggestiva osservazione, "Gl'indifferenti! Potrebb'essere un titolo storico. Dopo i crepuscolari, i frammentisti, i calligrafi, potremmo avere il gruppo degl'indifferenti", a parte il sicuro giudizio sul valore dello scrittore, "Ma Moravia è Moravia, e l'autenticità del suo ingegno è fuori dubbio", Borgese individua con acume l'influenza di Pirandello e, soprattutto, di Dostoevskij: "[...] per la tecnica narrativa bisogna [...] fare un gran salto e risalire nientemeno a Dostojevskij, a quell'immaginare congestionato che, scrutando ogni increspamento della subcoscienza, registrando ogni parola e ogni sospiro, accumula cento pagine su una sola ora di vita. Penso all'Idiota, a Umiliati e offesi."
Sergio Solmi, in "Convegno", dicembre 1929 (stralci in Mascia Galateria [op. cit. 1975: pp. 84-85], più ampi in Benussi (a cura di) [41]), riconobbe a sua volta l'influsso di Dostoevskij, ma soprattutto, preso atto dello stile narrativo "volutamente grigio e povero" del romanzo, pose una questione: "[...] resterebbe a vedersi se, come non è improbabile, i nuovi tentativi di creare un romanzo italiano, non debbano per forza costare, in molti casi, il sacrificio di quel tanto di musica personale, di 'lirica', a cui la nostra tradizione antica e recente, eminentemente soggettivistica, ci ha abituati."
Nel primo fascicolo di "Solaria" (si veda Per una storia del romanzo italiano dalla crisi del positivismo a "Solaria", 3. Riviste, frammento, romanzo) si affermava: "[...] se tra noi qualcuno sacrifica il bel ritmo di una frase e magari la proprietà del linguaggio nel tentativo di dar fiato a un'arte singolarmente drammatica e umana gli perdoniamo in anticipo con passione.
Per noi insomma Dostoevskij è un grande scrittore." Sono evidenti le corrispondenze, ed infatti Solmi era legato alla linea culturale di "Solaria" (su Solmi cfr. Luperini [42]). Solmi parla di tentativi di creare il romanzo italiano, "Solaria" parla di un'arte drammatica e umana alla quale è lecito sacrificare anche il bello stile: c'è attesa, c'è il bisogno del nuovo romanzo.
Come osserva Moravia, [Vita op. cit.: p. 50], il successo riscosso da Gli indifferenti si spiega tenendo presente che gli ultimi romanzi italiani di successo erano stati quelli di D'Annunzio, e in effetti i romanzi di Pirandello, di Svevo e di Tozzi cadono nel silenzio, e solo a partire dal 1923, per Tozzi, dal 1925, per Svevo, se ne comincia a parlare.
Tutti i movimenti letterari, venuti dopo D'Annunzio, da "La Voce" a "La Ronda", erano stati contrari al romanzo. E infatti bisogna aspettare "900" e "Solaria", perché si riapra la discussione a livello di rivista. D'altra parte, ricorda ancora Moravia, aveva avuto grande successo la collezione dei classici russi della casa editrice Slavia, e questo aveva contribuito al clima di attesa del nuovo romanzo italiano: perciò sembrò che Gli indifferenti riempisse un vuoto, e piacque a critici di scuole diverse.
Chiaro è, però, che questo nuovo romanzo italiano, Gli indifferenti, a parecchie persone non poteva piacere. Innanzi tutto per motivi moralistici: "l'Italia è ancora oggi un paese di mentalità moralistica e cattolica. Figuriamoci allora! Gli indifferenti è un libro assolutamente casto e fu attaccato invece come se fosse stato un libro pornografico" (Moravia, Vita op. cit.: p. 50).
Si veda come il contesto pragmatico della fruizione attribuisca "senso" all'opera, in questo caso un "senso" del tutto sciocco e fasullo, e tuttavia significativo. Non si dimentichi che il 1929 è l'anno dei Patti del Laterano: "Mussolini marciava protetto dal Papa, dalla Chiesa, dalla più alta autorità temporale, il Vaticano" (43]).
A parte la questione della 'pornografia', il fatto è che nel romanzo di Moravia viene distrutta una 'sacra' istituzione: la famiglia, fondamentale anche per il fascismo (si pensi solo alla "fissazione demografica" di Mussolini, alla protezione della maternità, ai provvedimenti contro il celibato, cfr. Salvatorelli/Mira [op. cit. 1972, vol. 2: pp. 346-350]). E poi la questione generale e decisiva:
[...] il fascismo affermava e proclamava di aver rinnovato la società italiana. Invece, ecco, il tanto atteso romanzo italiano smentiva le sue affermazioni. Il succo di questa affermazione fascista si può trovare in un discorso pubblico pronunciato dal fratello di Mussolini, Arnaldo, che era uno dei proprietari della casa editrice Alpes che aveva pubblicato il romanzo. Disse: "Vorremmo sapere se la gioventù italiana deve leggere i libri di Dekobra, inventore di facili avventure decadenti, di Remarque, distruttore della grandezza della guerra, e di Moravia, negatore di ogni valore umano."
Le parole di quest'uomo che, armato di tutto il fascismo, se la prendeva con un ragazzino di vent'anni dimostrano, se non altro, che la letteratura, anche la più aliena dalla critica sociale, va sempre molto oltre alle vere intenzioni degli scrittori. Io avevo voluto semplicemente scrivere un romanzo contro l'indifferenza e invece ci videro una critica del regime fascista che non era stata nelle mie intenzioni. (Vita: op. cit. pp. 50-51)
Si tratta appunto della questione semiotica posta da Buttitta: il "senso" del romanzo si realizza nel contesto pragmatico della recezione, contesto storico, sociale e politico.
Ed infatti la reazione non si fa attendere. In "Antieuropa" (organo culturale fascista), novembre 1929, un tale A. Campanile scrive (stralci in Mascia Galateria [op. cit. 1975: pp. 88-89]): "[...] Nelle prime pagine specialmente, battute di dialogo sciatte, puerili, di una sorprendente cafoneria. E in seguito si cerca invano la pagina che ti elevi, che dia vibrazioni, che ti riporti alla luce e ti inabissi": ecco l'impreparazione del fascismo, di cui parlava Moravia; il tono del critico è 'dannunziano', nel senso deteriore del termine (lo sottolineo, per evitare di fare a D'Annunzio un torto che non merita), il critico non si rende conto, non ne ha la preparazione, del fatto che i dialoghi sciatti vogliono essere proprio una reazione alle pagine che elevano e che inabissano.
"Una madre con l'amante - prosegue il critico - una figlia che ruba l'amante alla madre; un figlio che assiste e solo pensa; e poi, sempre, oscene nudità, osceni desideri, sorda, malata libidine": il moralismo di schietta marca cattolica si unisce alla incapacità di leggere il testo, alla semplificazione.
Ma ciò che veramente brucia è chiaro in seguito: quando, nel romanzo, Michele 'sogna' il processo che subirà per aver ucciso Merumeci (e 'sognando' appunto tale processo, dimentica di caricare la pistola), egli immagina che il pubblico ministero si rivolgerà a Carla chiamandola "sciagurata figura del nostro tempo corrotto" (p. 277), e qui il critico fascista scatta: questa è per lui un'affermazione indegna da ricacciare in gola a chi la pronuncia, e aggiunge: "Di quale tempo parla il Moravia? Del suo tempo; forse dei suoi giorni, e delle sue ore; non del nostro tempo, ché il nostro tempo è così chiaro, luminoso, puro, che dal contrasto risulta palese la sua [probabilmente vuole dire: di Moravia, oppure: del tempo di Moravia!] indegnità [...]. Quanta bellezza da sette anni! Campi in rigoglio, officine sonanti, opere grandiose, canti e canti; dolcissimi canti d'amore, vibranti canzoni di guerra, inni di vita. [...] Roma splende di luce meridiana. Il Genio, oggi, la guida. Povero giovinotto, fa pietà. Compatirlo bisogna, il povero Moravia, egli è sordo e cieco", ecc.
Il contrasto stridente fra il mondo di Moravia e il mondo che da sette anni guida il 'Genio': questo irrita il fascismo; e la 'risposta' del critico, il tentativo di ridicolizzare, di isolare con la compassione il 'povero giovinotto', mostra bene che egli non ha capito i problemi che può dare, e darà, al regime la letteratura, e in particolare il romanzo.
Un tale F. Agnoletti su "Il Bargello" del 1929 (stralcio in Mascia Galateria, [op. cit. 1975: p. 88]) parla del romanzo di Pincherle Moravia come di un "ignobile romanzaccio, tutto giudeo, la cui indecenza interiore trasuda fino sulla copertina postribolare, anch'essa disegnata da un giudeo": qui il moralismo si unisce al razzismo, all'antisemitismo; l'equazione: ebreo = indecenza precorre i tempi del 1938, quando Mussolini farà suoi i provvedimenti razziali del nazismo, e mostra che tali provvedimenti avevano in Italia un consenso, pur limitatissimo per fortuna.
Questo Agnoletti, poi, nota: "Se si pensa che queste pagine di finta prosa strofinata nella cocaina sono andate a ruba, che critici dal cerbero stupefatto hanno osato lodarle, che le spedizioni punitive e i falò per ragioni imperturbabili non si vogliono più 'colà dove si puote', altro non rimane da fare, in odio ai libri schifosi, che occuparsi dei libri generosi e segnalarli ai fascisti."
Certo, è poco piacevole leggere tale roba, eppure la rozzezza del 'critico' ci permette di cogliere alcuni fatti: questo romanzo, così in contrasto con la Roma che "splende di luce meridiana", ha avuto consenso di pubblico (è andato a ruba) e di critica (il richiamo ai "critici dal cerbero stupefatto" allude ai critici come Borgese e Solmi); come 'risposta', Agnoletti non pensa di compatire Moravia, pensa di picchiarlo con una spedizione punitiva e di bruciare il suo libro.
Ma ciò non è più possibile: il fascismo si è assestato come stato totalitario, cerca il consenso di massa, e ciò significa che gli estremismi, le spedizioni punitive, di cui Mussolini si era servito per spaventare le masse, per disperdere gli antifascisti e ricattare la monarchia e la destra costituzionale, sono diventati anacronistici: lo dice Mussolini stesso in una circolare ai prefetti, "di tono eminentemente normalizzatore" (Salvatorelli/Mira [op. cit. 1972, vol. 1: p. 393]).
La circolare è del 5 gennaio 1927 e dice che il prefetto è la più alta autorità della provincia, che soprattutto i fascisti gli devono obbedienza, che qualunque cosa accada, nessuna rappresaglia è consentita, che lo squadrismo è anacronistico.
Dunque, la 'risposta' a Gli indifferenti sarà 'legale': nel 1931 un'ulteriore ristampa del romanzo viene sospesa dalla Alpes: il fascismo comincia ad 'interessarsi' di Moravia. A tale 'interessamento' lo scrittore rispose assumendo una posizione sempre più chiaramente antifascista.
Questo antifascismo ha dei caratteri su cui è necessario dire qualcosa. In primo luogo, è profondamente radicato nel moralismo di Moravia, conseguenza a sua volta di scelte letterarie, legate come sempre alla centralità del genere letterario romanzo e alla centralità del personaggio nella struttura romanzesca. In secondo luogo, l'antifascismo di Moravia ha motivazioni culturali, egli reagisce contro la retorica, la rozzezza, il provincialismo del fascismo; si legga:
Quando cominciai ad interessarmi di politica, diventai subito antifascista per quel senso di repulsione quasi fisica che provo per la retorica, specie quando - come nel fascismo - si fonde con lo spirito di sopraffazione. Ben presto, al tempo degli Indifferenti, il fascismo si mise anche contro di me come scrittore, e allora l'ostilità divenne più profonda. (Ajello [op. cit. 1978: p. 5])
Infine, bisogna notare che l'antifascismo di Moravia non è borghese: egli si orienta verso il comunismo, pur con qualche problema ed oscillazione. Il fatto è che il campo semantico delle sue prime opere modellizza una realtà che storicamente è la realtà borghese del periodo fascista, e al tempo stesso modellizza l'impossibilità di superare il limite di tale campo semantico. Ne deriva un messaggio che Moravia comunicava, in un primo momento, suo malgrado: all'interno del campo semantico borghese non è dato avvenimento rivoluzionario, ogni azione diventa adattamento o commedia. Di qui la crescente simpatia dell'intellettuale per il comunismo e il giudizio nettamente negativo sull'antifascismo borghese (44).
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