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Luce d'Eramo

Nasce prima il personaggio, anche se comincio a conoscerlo gradualmente, come quando s'incontra una persona e ci si fa amicizia lentamente. Lo incontro, m'incuriosisce, mi apposto e poi, man mano cerco di scoprire la sua storia seguendo i suoi passi, i suoi spostamenti, andando nei luoghi dove va lui. Ci vado davvero.
Credo che ognuno di noi si muova nel collettivo e quindi trasmetta qualcosa del contesto in cui vive: lo stesso vale per un personaggio. La cronaca, tuttavia, non mi ha mai ispirato e i miei personaggi nascono dall'immaginazione; la cronaca mi serve semmai come termine di confronto, di verifica perché ho bisogno di capire al presente, di scrivere al presente, proprio perché ho un'insoddisfazione nei confronti della cronaca.
Mentre inseguo i personaggi prendo quaderni e quaderni di appunti. Poi, al momento della "cova", inizio a lavorare al computer. Scrivo per cinque, sette ore senza interruzione e se devo interrompere per qualche motivo provo una lacerazione da schizofrenica.
Non seguo una ritualità precisa nella scrittura. Viviamo in un mondo probabilistico, anche nella scrittura.
È difficile spiegare quando si avverte che un romanzo è concluso, ma leggendo e rileggendo la stesura, si avverte come la sensazione di fargli del male se si aggiungesse qualcosa, quasi fosse un organismo vivente.
Boileau diceva che la genialità è una lunga pazienza e non un talento; Silone che s'impara a nuotare nuotando e a scrivere scrivendo: sono d'accordo con loro. (Avvenimenti, 17 mag 95)

Luca Doninelli

Io sto con Camus, quando interpreta la letteratura come un'obbedienza: è un cammino segnato. In questo sta la libertà. La libertà è riconoscere l'inevitabile; per uno scrittore è l'inevitabilità del soggetto scelto. Lo scrivere è obbedire a un dettato morale che scaturisce dalla pagina. Non credo allo scrittore che domina la pagina, che ne fa quello che più gli piace.
La nostra generazione non ha, credo, maestri nella formazione di stile.
Il mestiere di giornalista non si concilia con quello di scrittore. Il giornalismo ha le sue necessarie regole di semplificazione, che per me costituiscono un limite troppo stretto. (Avvenimenti, 25 ott 95)

Silvana Grasso

La mia è una scrittura molto orale, nasce da un'oralità antica. Nessuna vocazione alla scrittura: piuttosto, allo sguardo, all'analisi, alla crescita delle cose. Un canto, una sorta di rapsodia che diventa scrittura.
Ho bisogno che la mia scrittura sia cadenzata da lunghe pause di riflessione.
Il mio linguaggio è quello di una persona che essendo stata per moltissimo tempo muta -nella mia famiglia si conosceva solo il dialetto-, quando poi ha riacquistato la parola, è diventata bulimica. Ho cercato di piegare la lingua a me in un duello corpo a corpo.
È sbagliato pensare che la storia preesista alla parola: la storia assume la sua identità solo perché quella parola l'ha narrata. (Avvenimenti, 15 ago 97)

Carlo Lucarelli

Scrivo ogni volta che posso e il più che posso, e inizio a scrivere quando incontro una storia che mi brucia in testa e preme dentro e diventa essenziale tirarla fuori.
Di solito inizio a scrivere partendo da alcune scene che ho in mente, da una breve traccia nella quale faccio muovere i personaggi senza sapere dove mi porteranno.
Ed è sempre una sorpresa, perché non è mai successo che abbia saputo in anticipo come sarebbe finito il libro che stavo scrivendo.
Io credo che il futuro della narrativa sia la commistione: di tecniche, di suggestioni, di generi. Il concetto stesso di letteratura di genere si sta disgregando in una trasversalità che contamina tutta la letteratura. Un'opera d'arte (un romanzo ma anche un film, un quadro, una canzone) in cui abbia diritto di cittadinanza tutto quello che "funziona" e che serve a fare in modo che quest'opera sia quello che deve essere.
Il cinema ha già un esempio: Pulp Fiction. Noi stiamo cercando di darlo anche al romanzo. (Avvenimenti, 27 nov 96)

Marco d'Eramo

Ci sono tre differenze fondamentali tra "scrittura giornalistica" e "scrittura saggistica". Prima di tutto il lavoro dello scrittore è solitario, mentre quello del giornalista è collettivo, nel senso che qualcuno disegna la pagina con te: tu scrivi ma altri correggono o tagliano il pezzo, e qualcun altro ci mette un titolo; insomma, il tuo articolo sta insieme ad altri e fa parte di un progetto, il giornale, firmato dal direttore.
La seconda grande differenza sta nella vanità: sia il giornalista che lo scrittore sono persone vanitose che hanno bisogno di avere l'io gratificato, ma mentre il primo si aspetta la verifica il mattino dopo che ha scritto l'articolo, la vanità dello scrittore è più grande e più paziente, deve saper attendere anche anni.
La terza differenza è tecnica. Il giornalista deve cominciare dall'ultima cosa avvenuta e poi risalire all'indietro: se deve raccontare una guerra, inizia dall'ultima battaglia e poi risale alla dichiarazione di guerra. Il procedimento di uno storico o comunque di uno scrittore è completamente diverso, ha una razionalità che scende in avanti.
Rispetto alla macchina da scrivere, che produce una scrittura della responsabilità, l'uso del computer appare più "irresponsabile". Con la macchina da scrivere devi pensare interamente una frase prima di scriverla, per evitare di dover passare la giornata a correggere e ribattere fogli. Al computer invece tu scrivi pensandoci molto meno prima, perché, tanto, puoi sempre correggere facilmente: pensi dopo aver scritto o in corso di scrittura. A volte la correzione è peggiore dell'originale, che però è cancellato e non lo ritrovi più. (Avvenimenti, 13 mar 96)

Giulio Ferroni

In un tipo di cultura che tende alla velocità, alla trasformazione continua, io credo che sia in pericolo anche l'immagine, non solo la parola.
È una civiltà della trasformazione continua, della velocità, dell'effetto, del prendere e lasciare continuamente (non a caso sulle immagini interviene lo "zapping", assistiamo alla simultaneità, al tempo reale ecc.).
La letteratura deve avere una funzione soprattutto di resistenza e di conoscenza. Si tratta di resistere alla degradazione dei linguaggi, di confrontarsi, anche, con la varietà dei linguaggi che circolano dappertutto; è quindi un tentativo di dare anche un senso razionale a questo conflitto di linguaggi.
Si tratterebbe di discriminare nel mare magnum della quantità, di trovare il messaggio e le comunicazioni essenziali, di liberare la parola essenziale dal contesto della parola inutile e vana che ci circonda. (Avvenimenti, 24 apr 96)

Aurelio Grimaldi

"Cioè", "poi", "ecco", "insomma", "va bene?" e altri: sì, li uso apposta. Sempre a proposito di lingua parlata, adopero pochi aggettivi, uno per sostantivo, in genere. Non amo le terne letterarie ridondanti, l'accumulo.
Spesso tendo a spostare il verbo alla fine della frase, arieggiando il siciliano. Il lavoro sulla sintassi è fondamentale, Verga rimane un maestro…
Il mio scritto-parlato però non è rispecchiamento di una realtà linguistica; contribuisce a ricreare un'atmosfera.
Amo scrivere. Sono un privilegiato, posso raccontare agli altri le cose che m'interessano. Perciò non concepisco la scrittura come fatica, il mito della terribile pagina bianca non mi appartiene.
Da ragazzino scrivevo e me ne vergognavo. Non lo dicevo a nessuno. Ora è una festa… Non ho orari. Sono velocissimo al computer. Spesso per darmi la carica, metto su un po' di musica barocca, Bach, Monteverdi, il grande Haendel. Mi piglia come un'eccitazione che mi precipita nella scrittura.
Poi, finita tutta l'opera al computer, magari ci metto mesi per ricorreggere su carta. Anche qui: devo cancellare sette parole? La musica che mi accompagna, sempre quella barocca, mi dà il tempo: zum zum, zac, zac, via via… (Avvenimenti, 14 giu 95)

Enrico Galavotti - Homolaicus.com - Letteratura