A QUALI CONDIZIONI E' POSSIBILE UN RITORNO AL COMUNISMO PRIMITIVO?

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


A QUALI CONDIZIONI E' POSSIBILE UN RITORNO AL COMUNISMO PRIMITIVO?

I - II

Bisogna ammettere che né il Marx delle Formen né l'Engels dell'Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato riuscirono a capire che la transizione dal comunismo primitivo allo schiavismo non ebbe alcun carattere naturale o necessario, ma, al contrario, un carattere particolarmente violento. E questo nonostante che proprio loro avessero chiarito una volta per tutte che i processi dell'economia borghese andavano considerati come "storici" e quindi destinati a un'evoluzione che li avrebbe portati alla fine.

Il motivo di questa incomprensione è dipeso da un preciso limite epistemologico interno alla loro concezione materialistica della storia, quello secondo cui i processi economici hanno un primato assoluto su ogni altro fenomeno sociale e non esiste sovrastruttura in grado di modificarli. Tutto il processo storico viene spiegato sulla base del livello delle forze produttive e del loro nesso coi rapporti produttivi, che quando diventa insostenibile, determina la necessità di un radicale mutamento di struttura.

La sovrastruttura può giocare un ruolo di legittimazione del processo o di contrasto, ma non può impedire un determinato corso storico, che ha proprie leggi oggettive, indipendenti dalla volontà umana. I processi storici sono in fondo dei processi naturali basati sulle leggi della dialettica, che Hegel aveva scoperto (la negazione della negazione, dalla quantità alla qualità, la compenetrazione degli opposti). La transizione da una formazione sociale a un'altra diventa, ad un certo punto, quando tutte le potenzialità produttive si sono esaurite, un fatto inevitabile. Anche la borghesia ha la pretesa di far passare il capitalismo come un fenomeno naturale, ma la differenza dal marxismo sta appunto nel fatto ch'essa non vede la necessità del suo superamento.

Come noto, questa visione deterministica della transizione fu rovesciata da Lenin, il quale sosteneva che attraverso la politica rivoluzionaria si poteva impedire che in Russia si formasse il capitalismo, passando direttamente dal feudalesimo al socialismo, senza rinunciare alle acquisizioni tecnico-scientifiche della borghesia. I bolscevichi avrebbero dovuto realizzare non solo il socialismo ma anche l'elettrificazione di tutto il paese.

Lenin diceva che gli operai, abituati a difendere i loro salari, non potevano avere una coscienza della fattibilità di questa transizione, però se venivano aiutati dagli intellettuali, avrebbero potuto dare facilmente il loro consenso. Quanto ai contadini, sarebbe stato sufficiente assicurare loro la proprietà della terra.

Erano semmai gli intellettuali di sinistra, quelli che si richiamavano al marxismo, e i populisti, quelli che consideravano la comune agricola il baluardo più forte contro la penetrazione del capitalismo, i più difficili da convincere.

Infatti la lezione marxista ufficiale era tutta favorevole allo sviluppo capitalistico della Russia, onde permettere la nascita di un significativo proletariato industriale e lo sviluppo di un livello culturale tale da permettere il superamento delle influenze conservative delle tradizioni religiose. La lezione dei "marxisti legali" e degli "economicisti" era tutta deterministica, in linea con le tesi del Capitale e delle altre opere marxiane di economia politica.

In un certo senso Lenin fece una "rivoluzione contro il Capitale", come disse Gramsci, ma non fino al punto da negare la necessità di attribuire all'industria un primato sull'agricoltura. Per tutta la sua vita egli considerò gli operai superiori ai contadini (in un paese che al 90% era rurale) e non mise mai in discussione né che fosse indispensabile avviare un'imponente e immediata rivoluzione industriale, né che la produzione economica dovesse essere controllata dallo Stato. Tuttavia, finché rimase in vita cercò di non inimicarsi le simpatie dei contadini, i quali, grazie al suo Decreto sulla terra, erano finalmente riusciti a diventare padroni dei lotti che coltivavano.

A onor del vero va detto che se non ci fosse stata la guerra mondiale e se questa non fosse stata catastrofica per la Russia, nessuno avrebbe preso in considerazione le sue tesi. Chiunque si dichiarasse marxista, considerava indiscutibile credere nel fatto che se una formazione sociale non ha esaurito tutte le proprie potenzialità, è impossibile che venga superata dalla successiva. Tutti erano convinti che il socialismo non avrebbe mai potuto svilupparsi in Russia senza prima passare per le forche caudine del capitale. Marx ebbe un ripensamento soltanto nell'ultimissimo periodo della sua vita, venendo a contatto coi populisti, e ponendo come condizione per un salto epocale dal feudalesimo al socialismo che quest'ultimo si realizzasse preventivamente nella parte occidentale dell'Europa.

Infatti gli unici a credere che il capitalismo non si sarebbe sviluppato in Russia, in quanto la comune agricola non gliel'avrebbe permesso, erano i populisti, con cui il giovane Lenin aveva profondamente polemizzato, dimostrando che il capitalismo in Russia sarebbe stato inevitabile e che anzi era già in atto nelle grandi città. Resta tuttavia singolare che proprio nel momento decisivo della rivoluzione del 1917, Lenin facesse suo il programma dei populisti (o meglio, dei menscevichi) relativo alla gestione collettiva della terra.

Purtroppo lo stalinismo non ebbe questa flessibilità nei confronti dei contadini (né l'avrebbe avuta il trotskismo, beninteso), per cui non si fece alcuno scrupolo nel far pagare a loro tutti i costi di una rivoluzione industriale e urbana che si volle imponente e accelerata, dietro il pretesto che, in caso contrario, non si sarebbe potuto reggere il confronto coi progressi dei paesi euroccidentali e nordamericani, e soprattutto con l'ansia di non riuscire a fronteggiare un nuovo, eventuale, intervento armato straniero, come quello degli anni 1918-20.

Se la Russia non avesse avuto risorse enormi, umane e materiali, un progetto del genere sarebbe presto abortito o lo stalinismo l'avrebbe fatto pagare alle nazioni limitrofe, come fecero i paesi europei al momento del colonialismo. Non furono comunque solo i contadini a rimetterci, ma anche quei comunisti che non avevano mai pensato di fare una rivoluzione per ottenere una dittatura peggiore di quella zarista. E ci rimise anche l'ambiente naturale, la cui incredibile vastità sembrava autorizzare lo sfruttamento più indiscriminato (esattamente come avviene oggi, a dimostrazione che nei confronti della natura non esistono differenze di rilievo tra capitalismo privato e socialismo di stato).

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Detto questo, viene ora da chiedersi che fine abbia fatto l'intuizione leniniana secondo cui una politica rivoluzionaria può modificare sostanzialmente dei processi storici oggettivi, apparentemente inevitabili. Guardando la parabola involutiva del "socialismo reale", verrebbe da dire che la sua tesi era completamente fuorviante e che, in definitiva, avevano ragione quei marxisti da lui combattuti, quando dicevano che, prima di realizzare il socialismo, occorre che si affermi il capitalismo, cioè quel sistema produttivo in grado di spazzare vie tutte le resistenze provenienti dal mondo rurale (e religioso, poiché quest'ultimo si basa sull'ignoranza e la superstizione dei contadini).

In realtà Lenin aveva ragione nell'attribuire alla politica una funzione non meno rivoluzionaria di quella dello sviluppo di tipo capitalistico. Quello tuttavia che non si spiega è il motivo per cui, dopo la sua lezione, non si siano avviati degli studi per comprendere che, nell'ambito della sovrastruttura, non solo la politica può giocare un'influenza decisiva sui processi storici dell'economia, ma anche la cultura. L'unico, tra i grandi, ad aver provato a fare un'operazione del genere è stato Gramsci, ma viziandola con due limiti di fondo:

  1. Gramsci aveva nozioni molto scarse di economia politica e di storia dell'economia, per cui, quando affronta il tema della sovrastruttura, mette prevalentemente in rapporto la cultura con la politica e non la cultura con l'economia;
  2. quando inizia a scrivere i Quaderni, Gramsci era un uomo politicamente sconfitto, sicché tutta la sua analisi sulla necessità di conquistare l'egemonia culturale prima di quella politica è visibilmente idealistica. Il socialismo, in realtà, non ha alcuna possibilità di conquistare l'egemonia culturale finché il possesso dei mezzi di comunicazione resta saldamente in mano alla borghesia, e se anche riuscisse a conseguire questo obiettivo, conservando le proprie istanze rivoluzionarie, dovrebbe in ogni caso passare a una rivoluzione istituzionale, in quanto i governi borghesi non cadono da soli. Il socialismo non può limitarsi a rendere meno gravosa una determinata forma di sfruttamento, pretendendo di razionalizzare un sistema antagonistico.

Quello che oggi manca non è soltanto una politica di sinistra che martelli quotidianamente i partiti conservatori sulla loro gestione fallimentare dell'economia, ma anche una cultura socialista che cerchi di capire come le idee, nella storia, hanno influenzato i processi storici.

Nonostante la piena destalinizzazione, ancora oggi si ha a che fare con una sinistra radicale che considera la sovrastruttura un epifenomeno della struttura, o che, nel migliore dei casi, si limita a utilizzare, della sovrastruttura, soltanto l'aspetto della politica, impoverendo enormemente la possibilità di fare un discorso molto più allargato. Il quale, si badi, non diventa tale soltanto quando si vanno a ricercare in talune espressioni dell'ideologia religiosa o idealistica (si pensi solo alle eresie medievali) delle anticipazioni, più o meno confuse, del socialismo scientifico. Facendo un'operazione del genere (che resta gramsciana), difficilmente p.es. si arriverebbe a capire che influì molto di più sulla nascita del movimento borghese, nell'Italia comunale, l'astratta teologia scolastica, che riduceva l'esperienza della fede a una mera dottrina filosofica, che non la ripresa dei commerci con l'oriente islamico.

Non è un caso, in tal senso, che la sinistra non abbia ancora recepito, in profondità, i temi ambientalistici e anteponga a questi, sempre e comunque, quelli economici della produttività e del lavoro; non è un caso che, ogniqualvolta essa affronta gramscianamente i temi culturali, smetta d'essere rivoluzionaria; non è un caso che, quando svolge una politica operaista, si frantumi in mille rivoli e finisca col chiudersi in un ghetto autoreferenziale; non è un caso, infine, che quando la sinistra preferisce una politica più moderata, vicina agli interessi dei ceti medi, non abbia assolutamente nulla di socialista, neppure il riformismo degli utopisti pre-marxisti.

Ci si può altresì chiedere il motivo per cui l'erede della tesi marxiana secondo cui il protestantesimo costituiva la religione più appropriata per lo sviluppo capitalistico, non sia stato un altro marxista, ma un sociologo borghese: Max Weber.

Dunque cos'è che ha impedito al marxismo di svolgere un'operazione culturale che mettesse in luce il ruolo specifico della sovrastruttura? Possibile che ogni volta che si affronta il nesso di economia e cultura, mostrando come questa possa influenzare quella, si debba rischiare di cadere nell'idealismo di matrice hegeliana? Cos'è che ci impedisce di sviluppare il marxismo, senza tradire la necessità di una transizione al socialismo democratico?

Se in occidente non riusciamo a capire il motivo per cui tendiamo pedissequamente ad accentuare il primato della struttura sulla sovrastruttura, o il motivo per cui, quando, analizzando quest'ultima, smettiamo d'essere rivoluzionari, noi continueremo ad avere, nei confronti dello sviluppo capitalistico, un atteggiamento del tutto rassegnato o, a seconda dei casi, del tutto illusorio, in quanto restiamo convinti ch'esso crollerà da solo, a causa delle proprie interne contraddizioni.

Cosa che in realtà non accadrà mai, proprio perché senza una reale e fattiva opposizione, che metta in chiaro un'ipotesi di superamento radicale dell'esistente, la borghesia non farà altro che curare le ferite delle proprie sconfitte, per poi tornare in campo più forte di prima. Basta guardare cosa è accaduto con la I guerra mondiale, col crack del 1929, con la II guerra mondiale e con la contestazione operaio-studentesca del 1968-69: ogni volta c'era la possibilità di una svolta radicale e ogni volta la si è sprecata.

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Ci sono alcuni nodi che in Europa occidentale non abbiamo ancora saputo sciogliere, nonostante ormai due secoli di socialismo:

  1. l'odio nei confronti delle tradizioni (cultura e coltura) contadine, che oggi peraltro abbiamo quasi completamente distrutto, ovvero reso folcloristiche (utili per il turismo o per la nostalgia delle generazioni più anziane), quando non sono state addirittura incanalate in una produzione esclusiva per il mercato;
  2. l'indifferenza nei confronti delle questioni religiose, in luogo di un loro affronto culturale di tipo ateistico: il timore di cadere nell'anticlericalismo giacobino ha impedito alla sinistra di sviluppare l'umanesimo laico e, indirettamente, ha favorito l'ingerenza del clero negli affari civili, nonché il collateralismo dei partiti politici ai valori religiosi, per ottenere l'appoggio della chiesa;
  3. l'incapacità di vivere un'esistenza di tipo collettivistico, in quanto domina incontrastato l'individualismo borghese;
  4. l'eccessiva importanza data alla scrittura (che oggi è anche videoscrittura) rispetto ai rapporti umani;
  5. il rapporto feticistico che abbiamo nei confronti della scienza e della tecnica;
  6. l'esigenza continua che abbiamo di possedere qualcosa di materiale come forma di status symbol (o di identificazione personale);
  7. il bisogno di darci continuamente dei miti per sopportare meglio le frustrazioni della vita quotidiana.

Questi e altri condizionamenti hanno fatto sì (e la cosa è evidente anche in Marx ed Engels) che in Europa occidentale la sinistra radicale abbia del tutto trascurato il fattore del "libero arbitrio", ovvero l'elemento soggettivo nelle scelte in direzione dell'alternativa. La sinistra è come se fosse in fase di attesa, non si preoccupa minimamente di organizzare un consenso di massa, è convinta di avere in tasca la soluzione magica alle fondamentali contraddizioni del sistema borghese, per cui, quando vede approssimarsi all'orizzonte il rischio di gravi catastrofi sociali o ambientali, assume l'atteggiamento di chi, dopo tante sconfitte, è in procinto di prendersi una meritata rivincita. Non si rende conto che la borghesia è così forte che, in assenza di una vera alternativa, sa sempre fare delle catastrofi ch'essa stessa produce, un'occasione per diventare ancora più forte. Non solo, ma quando dice di voler fare un'opposizione radicale al sistema, la sinistra tende sempre a scindersi in tanti gruppuscoli rivali tra loro, ruotanti attorno a un unico leader carismatico, la cui funzione alla fine è proprio quella di dimostrare che la sinistra non ha alcuna alternativa praticabile.

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Ora, cerchiamo di capire, con esempi concreti, come poter uscire da questa empasse epistemologica.

Innanzi tutto noi dovremmo partire dal presupposto leniniano secondo cui l'operaio non è più rivoluzionario del contadino proprio perché è privo di tutto, eccetto la propria forza-lavoro, e anche perché non ha rapporti con la chiesa. In sé l'operaio - diceva Lenin - al massimo ha una coscienza sindacale. Per avere una consapevolezza della necessità di un superamento dell'intero sistema, nella sua globalità, occorrono gli intellettuali, che devono persuadere gli operai a non illudersi di poter migliorare la loro condizione di sfruttamento limitandosi a chiedere aumenti salariali e altri diritti di tipo sindacale.

Gli stessi dirigenti sindacali tendono inevitabilmente al riformismo. Per avere una coscienza rivoluzionaria bisogna saper fare della politica uno strumento per abbattere il governo in carica e rovesciare il sistema.

In quanto intellettuale, Lenin rappresentava, non meno dell'operaio, l'uomo completamente sradicato dalle tradizioni della terra. Ma, a differenza degli altri intellettuali di sinistra, non riteneva necessario che si formasse un enorme proletariato nazionale prima di pensare a come rovesciare il sistema. Secondo lui era sufficiente scardinare i gangli dei principali centri urbani, ove si gestiva tutto il potere politico-istituzionale. Una volta occupati con la lotta questi centri, il resto sarebbe venuto da sé: operai e contadini avrebbero capito molto facilmente che, diventando gli effettivi padroni dei loro mezzi produttivi, non avrebbero avuto motivo di rimpiangere l'autocrazia zarista.

Lenin era un politico e tale restò sino alla fine della sua vita, salvo gli anni in cui s'interessò di economia (per contestare i populisti e ampliare il Capitale con l'analisi dell'imperialismo) e di filosofia (per sviluppare le tesi hegeliane sulla dialettica e contestare gli empirio-criticisti).

Lenin purtroppo morì giovane, a 54 anni, di cui gli ultimi due vissuti con grandissima fatica. Anzi, tutta la sua vita fu vissuta in condizioni molto difficili, non solo per l'attentato terroristico, che lo segnò in maniera irreparabile, ma anche per il carcere siberiano (tre anni) e per il lungo esilio (16 anni): egli non ebbe il tempo materiale per fare altro che politica. Al pari di Marx e di Engels, ci lasciò un metodo di lavoro, non una dottrina da imparare a memoria.

Egli era sicuramente più interessato alla pratica politica che non alla teoria economica (per lui la politica era una "sintesi" dell'economia); della rivoluzione gli premevano di più gli aspetti tattici e strategici che non quelli meramente critici. C'era molta differenza tra lui e Marx. Se Machiavelli inventò la scienza borghese della politica, Lenin ha inventato quella proletaria, infinitamente più democratica.

Uno sradicato come lui, che aveva capito l'inutilità del terrorismo solo dopo aver visto giustiziare il fratello, e che per tutta la sua vita si pose come unico obiettivo quello di abbattere lo zarismo, risparmiando ai propri connazionali la sciagura della guerra mondiale e le nefandezze dell'oppressione capitalistica, che dovette organizzare immediatamente la difesa contro la reazione dei "bianchi", appoggiati dall'interventismo straniero, dove poteva trovare il tempo per occuparsi del lavoro culturale? Alla fine della sua vita, sapendo benissimo dell'importanza di questa cosa, scrisse di sperare che altri lo facessero e che gli pareva ingiusto essere stato criticato per non averlo fatto.

Anche su questo, in effetti, aveva ragione: una volta compiuta la rivoluzione politica, avrebbe dovuto essere più facile compiere il lavoro culturale. Ma così purtroppo non è stato. Gorbaciov s'è lamentato che dal 1991 ad oggi il socialismo democratico non ha neppure fatto un passo in avanti: possiamo aggiungere che non l'ha fatto non solo sul piano politico, ma neppure su quello culturale.

Quando si parla di democrazia, si trascura completamente il socialismo, e quando si parla di socialismo, si ripetono tesi che hanno fatto il loro tempo. Lenin diceva che non ci può essere una politica rivoluzionaria senza una teoria rivoluzionaria: oggi possiamo aggiungere che una teoria, per essere davvero rivoluzionaria, non può fare a meno della cultura. Non avrebbe senso rifare una rivoluzione comunista per ripetere errori già compiuti.

Una cultura davvero rivoluzionaria - ecco l'aspetto che avrebbe messo in crisi anche uno come Lenin - non può essere elaborata da chi non ha alcun rapporto con la terra. Gli sradicati, coloro che vivono nelle città, quanti dispongono soltanto della propria forza-lavoro (manuale e/o intellettuale) per sopravvivere, nel migliore dei casi possiedono un grandissimo desiderio di liberazione, ma non possono avere il senso di una memoria di liberazione.

Lo si capisce semplicemente guardandoli difendere il diritto al lavoro, che per loro deve prescindere da qualunque preoccupazione di tipo ambientale. Il rispetto dell'ambiente rientra nell'ambito della sicurezza sul lavoro, ma non ha riferimenti prioritari alla tutela della riproduzione della natura. Questa viene concepita soltanto in funzione degli interessi dell'uomo.

I comunisti oggi difendono lo status quo dell'industrializzazione borghese, senza rendersi conto che non può assolutamente bastare la socializzazione dei mezzi produttivi per assicurare la realizzazione di un socialismo davvero democratico. Non ci può essere alcuna vera democrazia contro le esigenze riproduttive della natura.

Con lo stalinismo abbiamo capito che una statalizzazione della proprietà poteva tranquillamente convivere con la più totale assenza di democrazia civile e politica. Oggi dobbiamo arrivare a capire che anche con la socializzazione della proprietà si rischia di non garantire affatto alcuna vera democrazia, in quanto se non si ripensano i criteri della produttività del lavoro, che non possono più essere quelli basati sull'industria, l'uomo finirà, devastando irresponsabilmente la natura, con l'autodistruggersi.

La desertificazione, causata dai disboscamenti, dalla cementificazione, dalla antropizzazione incontrollata dell'ambiente, dai mutamenti climatici dovuti a stili di vita insensati, dall'uso del nucleare (civile e militare) e anche da uno sfruttamento intensivo dei suoli agricoli, tutto questo già oggi rende impossibile, in molti luoghi del pianeta, la riproduzione umana. Non è vero che la natura è comunque in grado di superare i guasti provocati dagli esseri umani: non lo è certamente almeno finché gli uomini sopravvivono sul pianeta.

Per questo motivo dobbiamo pensare seriamente a come recuperare il tipo di esistenza vissuta sotto il comunismo primitivo. Il primo lavoro culturale che dobbiamo fare è questo, passando eventualmente attraverso la valorizzazione dell'autoconsumo del periodo feudale.

Quando Engels scriveva, nel testo citato sopra, che il passaggio dal comunismo primitivo allo schiavismo si verificò in maniera spontanea, attraverso l'accumulo di eccedenze alimentari, l'aumento della popolazione, la divisione del lavoro ecc., stava delineando una transizione con le medesime caratteristiche di naturalezza di quella che secondo lui si dovrà verificare tra capitalismo e socialismo.

Sia per lui che per Marx la violenza è tale solo da parte di chi si oppone a delle leggi oggettive, inevitabili. Gli uomini dovrebbero semplicemente prendere atto di queste leggi e accettare le necessarie trasformazioni. Dissero questo non solo per la transizione dal feudalesimo al capitalismo e da questo al socialismo, ma, purtroppo, anche per quella dal comunismo primitivo allo schiavismo.

Questo fu un grave errore, parzialmente giustificato dal fatto che gli studi etno-antropologici o etnostorici sul comunismo primitivo avevano appena raggiunto una rilevanza scientifica proprio nella seconda metà dell'Ottocento. Marx infatti evitò di dare alle stampe qualunque cosa su questo argomento: non si sentiva sufficientemente sicuro, anche perché attraverso i populisti russi era riuscito a comprendere l'importanza della comune agricola.

L'idea che una successione di determinazioni quantitative, ad un certo punto porti a una nuova qualità, era di derivazione hegeliana. Applicarla anche alla prima transizione della storia, senza chiamare in causa alcun fenomeno di violenza, è stato uno sbaglio. Lo sarebbe stato anche nel caso in cui si fosse attribuita un'opposizione violenta ai difensori del comunismo primitivo, facendoli passare per dei "reazionari conservatori".

Si può anche pensare che per un contadino medievale passare dal servaggio al lavoro salariato in fabbrica sia stata una semplice questione di forma e che una vera resistenza allo sviluppo capitalistico sia stata compiuta solo dai feudatari (ancorché su questo potremmo trovare esempi del tutto opposti, e cioè resistenza contadina e condiscendenza nobiliare), ma è difficile pensare che da una condizione di piena libertà gli uomini siano passati tranquillamente a una condizione di piena schiavitù.

Abbiamo già detto che ci volle Lenin prima che il marxismo arrivasse a capire che la sovrastruttura può influenzare notevolmente il corso storico. Ora bisogna aggiungere che, oltre alla politica, anche la cultura può farlo, cioè anche la formazione di idee che divergono da quelle dominanti, come quella che il serpente propose ad Eva nel mito della caduta.

Se non si comprende questo, non si è poi in grado di spiegare il motivo per cui, in presenza di medesime condizioni economiche di vita, in un luogo si verificano determinati fenomeni, in un altro no. P.es. le cosiddette riserve produttive eccedenti il semplice bisogno di riproduzione immediata, non creano necessariamente l'esigenza di darsi un'organizzazione statuale, per il cui funzionamento occorrono addetti specifici. Un'organizzazione di questo tipo presume già una stratificazione sociale.

Persino il bisogno di andare oltre un certo livello di eccedenza è già sintomatico di una incipiente divisione in classi. Una riserva che va ben oltre il semplice autoconsumo, implica una gestione centralizzata del bisogno, che rende prima o poi inevitabile il privilegio e quindi l'abuso. La necessità di avere un'eccedenza che superi abbondantemente il livello dei bisogni primari indica una sfiducia nella gestione collettiva di questi bisogni, nonché un rapporto artificioso con la natura, che sono cose spesso destinate a marciare in parallelo.

Ecco perché bisogna sostenere che dal comunismo primitivo allo schiavismo vi fu una traumatica rottura, rinvenibile in qualche maniera nei miti che già conosciamo e che vanno interpretati tenendo conto che chi li ha elaborati aveva tutto l'interesse a mettere in cattiva luce gli elementi del passato che voleva superare.

Il mito ebraico, p.es., sintetizza la transizione da una formazione sociale all'altra nell'omicidio dell'allevatore Abele da parte del fratello Caino, agricoltore. All'origine della nascita dello schiavismo vi sono stati duri conflitti tra nomadi e sedentari, tra allevatori e agricoltori, che sicuramente precedono i conflitti tra mercato e autoconsumo, tra valore d'uso e di scambio. La delimitazione di determinate aree geografiche, per lo sviluppo dell'agricoltura, confliggeva con gli interessi degli allevatori e delle popolazioni nomadi, che furono le più antiche della storia e per le quali tutto il mondo era la propria casa.

Molte di queste aree disboscate per le esigenze rurali, ma anche per quelle abitative e persino commerciali, finirono col desertificarsi, riducendo drasticamente il numero dei lavori inerenti all'allevamento, ovvero il numero di persone dedite al nomadismo. L'allevamento si riduce al minimo e diventa esso stesso stanziale, parte organica della stessa attività agricola, almeno sino a quando non subirà nuove, pesanti, trasformazioni con l'ingresso del capitalismo nelle campagne.

Non è certo un caso che, per quanto riguarda le popolazioni indigene del continente americano, noi attribuiamo il temine di "civiltà" agli imperi inca, maya e azteco, che non erano nomadi (come invece le popolazioni nord-americane, le cui abitazioni in tenda permettevano facili spostamenti) e che sicuramente praticavano lo schiavismo, tant'è che le popolazioni locali, rimaste all'autoconsumo, le fuggivano spaventate.

Il fatto che di questa traumatica rottura non sia esistita una documentazione esplicita, non vuole affatto dire che il passaggio sia avvenuto in forma indolore. La violenza è all'origine della nascita delle civiltà: si tratta soltanto di individuarla in quei racconti mitologici che, essendo stati scritti dai vincitori, la presentano come una scelta necessaria.

Senza ideologia, la trasformazione della realtà arriva sino a un certo punto. Sono le idee che inducono a compiere delle scelte decisive, tali per cui risulta molto difficile il ripensamento, e ci vogliono idee particolarmente mistificanti per opporre con successo l'individualismo al collettivismo originario.

Sono soltanto i miti e le leggende che documentano questi traumi, mascherandoli in varie forme e modi. L'eroe del mito deve sempre apparire come una figura positiva, assolutamente innocente, che ha subìto un grave torto e che, per questo, si è dovuto difendere con la necessaria durezza. L'eroe può anche avere dei difetti personali, ma essi non inficiano mai la versione ufficiale che la cultura dominante ha dato di lui. E' sempre l'eroe di una civiltà classista, che ha tolto di mezzo un nemico volutamente dipinto come rozzo, crudele, spietato, arrogante, ateo o, a seconda dei casi, superstizioso in quanto ignorante, primitivo.

L'agricoltore Caino è miscredente, invidioso e violento, attaccato alla proprietà: per questo uccide il pio, ingenuo e generoso Abele, di professione allevatore. Così Ulisse nei confronti di Polifemo, Teseo nei confronti del Minotauro ecc. E' facile immaginarsi che nella realtà devono essersi verificati dei processi capovolti, in cui tradizioni secolari (si pensi solo al matriarcato) sono state messe in crisi e alla fine distrutte dalla nascita inaspettata degli antagonismi sociali.

Sarebbe interessante mettere a confronto i miti pagani con quelli cristiani: gli uni tradirono il comunismo primitivo, gli altri il tentativo, fallito, di ripristinarlo, cercando di superare in maniera rivoluzionaria lo schiavismo. Ogni forma antagonistica ha bisogno di miti per illudere le masse oppresse che l'esistenza, nonostante lo schiavismo, è sopportabile e che il medesimo antagonismo è un fenomeno imprescindibile.

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Tornare al comunismo primitivo per noi oggi vuol dire tornare a una proprietà comune dei mezzi produttivi, in nome del primato del valore d'uso, favorendo la sinergia tra agricoltura e allevamento. L'industrializzazione deve essere ridotta al minimo indispensabile (a una forma d'artigianato), in quanto i suoi prodotti, in genere, ledono il diritto della natura alla riproduzione. Noi dovremmo ammettere soltanto l'industria di quei prodotti naturali visibili a occhio nudo. Scavare in una miniera o nelle profondità della terra è già indizio di civiltà, e noi dalla civiltà dobbiamo uscire.

E' curioso notare come quanto più forti sono le contraddizioni sociali, tanto più si vanno a cercare risorse nelle profondità della terra. Gli indiani d'America, prevalentemente nomadi, si rifiutavano di praticare persino l'agricoltura, poiché temevano di "ferire la terra". In effetti, quanto più siamo andati in profondità, tanto più abbiamo devastato la natura, e questa è stata tanto più devastata quanto più s'è cercato di trovare risorse energetiche equivalenti a quella solare, minacciando seriamente (l'abbiamo visto col nucleare) la stessa sopravvivenza umana.

Il criterio di alto o basso livello delle forze produttive non dà alcun vero indicatore circa il "benessere sociale" di una comunità umana. Non può essere un criterio economico di quantità a determinare il criterio sociale di qualità di un collettivo umano. Il socialismo scientifico ha ereditato dall'economia politica borghese un concetto di "benessere" che coincide troppo con "produttività" e molto poco con "socializzazione". Più importante dell'economico non vi è solo l'ecologico ma anche il sociale.

Se un uomo primitivo potesse leggere quel che di lui oggi gli storici dicono, e cioè che essendo molto basso il livello produttivo del suo lavoro, era di conseguenza molto precario tutto il resto, ci obietterebbe facilmente che tutto è relativo. Un livello molto alto di produttività non solo non garantisce maggiore democrazia e maggiore ambientalismo, ma, stando ai risultati storici, si dovrebbe sostenere proprio il contrario: qualcuno (i più deboli) e qualcosa (la natura) hanno pagato caro il "benessere" esagerato che altri hanno voluto vivere.

Infatti un alto livello produttivo non può basarsi sul necessario (come nell'autoconsumo) ma sul superfluo, non può capire la fatica ma solo la comodità, non è interessato a risparmiare ma a sperperare, antepone sempre l'interesse individuale a quello collettivo, nonché l'artificioso macchinismo alla riproduzione naturale delle cose. Ecco perché diciamo che tutto quanto esula dall'autoconsumo va considerato come frutto di un'alienazione sociale, di uno sradicamento dalla terra.

Bisogna inoltre fare molta attenzione alle origini materiali del "benessere sociale", che non può dipendere in alcun modo da fattori esterni (esogeni) alla comunità locale. Se una comunità è "benestante" semplicemente perché commercia con altre comunità, possiamo stare sicuri che prima o poi tra queste comunità scoppierà una guerra. Venezia, p.es., fruiva di rapporti commerciali privilegiati con Bisanzio, ma questo non le impedì di saccheggiarla orrendamente nel corso della quarta crociata.

Se il livello del benessere non dipende prevalentemente da fattori interni (endogeni) alla sopravvivenza della comunità locale, è inevitabile il ricorso alla guerra. Chi imposta il benessere sul commercio, aspira ad aumentarlo di continuo e non tollera in alcun modo variazioni che ne limitino la portata.

Si dirà che le crociate sono scoppiate quando ancora in Europa occidentale dominava l'autoconsumo. Sbagliato. Le crociate sono avvenute quando l'inizio dello sviluppo borghese era avvenuto in modo tale da togliere all'autoconsumo le sicurezze che aveva avuto un tempo. Alle crociate parteciparono sia i contadini affamati che i borghesi e i latifondisti loro affamatori.

La pace tra una comunità e l'altra può essere garantita solo se è nettamente prevalente l'autoconsumo, mentre il commercio va limitato alle eccedenze o al superfluo. Non può riguardare neppure quelle cose ritenute essenziali che non si riescono a produrre in quantità sufficiente: anche se queste cose fossero pochissime, sarebbero comunque sufficienti a minare l'indipendenza di una comunità.

La mancanza di elementi essenziali alla propria sopravvivenza ci rende facilmente ricattabili, esposti alle mire espansionistiche altrui. La proprietà collettiva dei principali e fondamentali mezzi produttivi deve esser tale da garantirci la riproduzione senza l'aiuto di forze esterne. A meno che la dipendenza non sia assolutamente reciproca: p.es. gli allevatori possono aver bisogno degli agricoltori e viceversa. E' però difficile, anche se non impossibile, che una comunità possa fare affidamento, per assicurarsi la sopravvivenza, alla volontà di membri che non le appartengono, pur sapendo che questi sono costretti a comportarsi nella stessa maniera.

Quando prima si diceva che occorre tornare al comunismo primitivo, passando eventualmente per l'autoconsumo feudale, s'intendeva appunto escludere che il feudalesimo sia fallito a causa dell'autoconsumo, come spesso sostengono gli storici: il feudalesimo è fallito per il servaggio e per il clericalismo che gli era connesso in maniera ideologica.

Il servaggio ha portato a cercare un'alternativa non solo a se stesso, ma anche all'autoconsumo: il libero mercato (libero perché formalmente o giuridicamente i contraenti, che comprano e vendono, sono liberi, si sentono equivalenti). Un'alternativa che in realtà non ha fatto che produrre nuove contraddizioni antagonistiche, ancora più gravi delle precedenti.

Lo sviluppo del capitalismo non ha costituito alcuna vera alternativa all'autoconsumo medievale, anche perché ha fatto pagare le proprie conseguenze al mondo intero. L'illusione di una libertà individuale, connessa all'uso della scienza e della tecnica, nonché all'accumulo di capitali facili attraverso l'industria o il commercio, è stata la tentazione n. 1 che ha provocato la morte dell'innocenza originaria dell'autoconsumo.

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Se c'è stato un progresso dal feudalesimo al capitalismo, lo si può notare a livello di concezione della vita, che da religiosa è divenuta laica. Il che però non dice nulla sul carattere "democratico" di una società, in quanto, in astratto, può essere più democratica una società religiosa che non una laica.

E' difficile sostenere che lo stalinismo sia stato più democratico dello zarismo solo perché era ateo, o che il capitalismo è socialmente più democratico del feudalesimo solo perché possiede un parlamento, un sistema di votazione ecc. o solo perché è culturalmente più "laico" (che poi, a livello istituzionale, è soltanto "meno religioso"). Senza la democrazia, la laicità è soltanto una concezione di vita, al pari di altre. Oggi non abbiamo neppure un concetto di vera "democrazia", figuriamoci se possiamo averne uno di vera "laicità". Continuiamo a parlare di "Stato laico" senza renderci conto che la laicità può essere soltanto un prodotto della "società civile", di cui lo Stato deve semplicemente limitarsi a prendere atto.

E' fuor di dubbio, tuttavia, che senza uno sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica e ovviamente dell'industrializzazione (che ha comportato una netta subordinazione delle risorse naturali agli interessi umani), difficilmente si sarebbe sviluppato il laicismo. L'altra possibilità sarebbe stata quella di vedere i contadini emanciparsi dal servaggio per affermare la proprietà comune dei mezzi produttivi, conservando ovviamente l'autoconsumo. Ma le rivolte contadine non sono mai arrivate a ripristinare la situazione del comunismo primitivo, né vi sono riusciti i movimenti ereticali pauperistici.

E' anche vero che siccome il moderno laicismo è di natura borghese (e quindi non popolare ma di classe), la sua coerenza è molto relativa, avendo la borghesia ancora bisogno dell'appoggio delle chiese contro la resistenza dei lavoratori allo sfruttamento.

Il vero laicismo è soltanto quello connesso all'abolizione della proprietà privata e all'uso sociale dei mezzi produttivi, senza artificiosi intermediari, il primo dei quali è appunto lo Stato. Quando l'uomo è padrone dei mezzi produttivi non ha bisogno di cercare in una realtà a lui esterna il surrogato alle proprie frustrazioni. Ecco perché il comunismo primitivo era naturalmente ateo; ecco perché la religione nasce col sorgere dello schiavismo.

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Bisogna fare attenzione a distinguere non solo l'economico dall'ecologico, non solo il sociale dall'economico, ma anche il sociale dallo statale. Quando il "socialismo reale" parlava di "Stato di tutto il popolo" non si rendeva conto di affermare una contraddizione in termini: un popolo padrone dei propri mezzi produttivi non ha bisogno di alcuno Stato, essendo in grado di autogestirsi.

Bisogna fare attenzione a questa differenza, proprio perché mentre si parla di "socialismo statale" si può negare completamente la democrazia. Anzi, bisogna addirittura stare attenti che la democrazia che si vive al proprio interno sia effettivamente un prodotto autoctono e non il frutto di un rapporto di sfruttamento con l'esterno.

Sarebbe davvero curioso vedere una comunità dividere equamente i redditi al proprio interno, mentre al proprio esterno compie un'opera di saccheggio o di sfruttamento di comunità più deboli. Sotto il capitalismo vi sono p.es. alcuni paesi in cui il pil pro-capite è molto elevato e la disoccupazione praticamente nulla, soltanto perché essi costituiscono dei "paradisi fiscali" per altri paesi molto più forti sotto vari indici.

Insomma, basta poco per capire che non è possibile testare il livello di democraticità di una comunità senza considerare i suoi rapporti con realtà ad essa esterne. Eppure uno dei limiti del Capitale di Marx è stato proprio quello di non aver messo subito in relazione la nascita del capitalismo in Europa occidentale con la nascita del colonialismo nei continenti extra-europei.

E' vero il capitalismo non nacque nei primi due moderni paesi colonialisti: Spagna e Portogallo, in quanto senza riforma protestante esso avrebbe fatto fatica a svilupparsi, checché ne pensasse Marx, che tutta la vita si chiese il motivo per cui a parità di condizioni materiali favorevoli al valore di scambio, il capitalismo finì coll'imporsi solo in Europa occidentale. Egli in realtà aveva intuito che doveva esserci un legame con la riforma protestante, ma si astenne dall'approfondirlo.

Tuttavia il limite di fondo del Capitale non sta solo in questo mancato approfondimento culturale, ma anche nel fatto che non si mise sufficientemente in luce che senza il colonialismo, il capitalismo non avrebbe potuto avere l'impeto che ebbe. Nel suo Imperialismo Lenin si guardò bene dal tenere separati capitalismo e colonialismo.

Con la riforma protestantica il capitalismo poté affermarsi a livello nazionale, ma senza colonialismo sarebbe presto collassato a causa delle proprie interne contraddizioni. Sono state infatti le colonie ad assorbire le maggiori contraddizioni europee, con la differenza che mentre le cattolicissime Spagna e Portogallo, col loro background feudale, non seppero approfittarne per compiere una rivoluzione borghese, viceversa Olanda, Francia e Inghilterra poterono iniziare da qui, grazie anche alla riforma protestante, il loro dominio mondiale, e l'avrebbe fatto anche la Germania, se invece di reprimere le rivolte contadine le avesse favorite contro i feudatari.

Quando lo sviluppo capitalistico degli ultimi paesi europei che avevano raggiunto l'unificazione nazionale: Italia e Germania soprattutto, rese indispensabile rivedere la ripartizione delle colonie, operata da Francia e Inghilterra (seguita da Stati Uniti e Giappone), inevitabilmente scoppiarono ben due guerre mondiali.

Questo per dire che un qualunque sviluppo capitalistico interno a una nazione ha necessariamente un riflesso nei rapporti che questa nazione ha con l'esterno, ed è un riflesso particolarmente negativo per le esigenze della pace. Un paese capitalistico è necessariamente un paese sfruttatore di risorse che non gli appartengono o comunque di risorse che, se anche gli appartengono per motivi storici, non dovrebbe sfruttare senza alcun rispetto per l'ambiente.

Non a caso quando un paese s'accorge che lo sfruttamento indiscriminato delle risorse interne non è più sufficiente per garantire un certo sviluppo del capitale, scatta necessariamente l'esigenza di conquistare territori altrui. Russia Cina India Brasile... si stanno in questo momento candidando per far scoppiare una nuova guerra mondiale: l'intenso sfruttamento delle loro risorse interne, per quanto grande sia l'estensione dei loro territori, non potrà certo essere illimitato.

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Che un cambiamento di mentalità, che allora voleva dire compiere una riforma protestante, fosse necessario per passare dal feudalesimo al capitalismo, lo dimostra non solo il fallimento dell'operazione colonialista di Spagna e Portogallo, ma anche il collasso del proto-capitalismo nell'Italia comunale e signorile.

L'Italia era partita per prima proprio perché il livello istituzionale della chiesa romana era così corrotto da non poter legittimamente impedire l'affermarsi del profitto sulla rendita feudale. Ma quando questo profitto pretese una contropartita politica, la chiesa, appoggiata dall'impero reazionario di Carlo V, fece presto a fare dietrofront. Anche Marx s'era accorto di un ritorno italiano all'orticoltura (cioè all'autoconsumo), dopo la parentesi comunale e rinascimentale, ma invece di metterla in rapporto alla controriforma, si limitò a parlare di mancata unificazione nazionale e di spostamento dei traffici commerciali dal Mediterraneo all'Atlantico, senza rendersi conto che la Spagna già unita trafficava tranquillamente sull'Atlantico e non per questo divenne capitalistica.

Anche quando esaminava l'economia imperiale romana, Marx si chiedeva il motivo per cui non nacque in questo periodo uno sviluppo di tipo capitalistico, visto che quello commerciale era molto fiorente, e citava l'episodio di quell'imperatore che puniva chi proponeva migliorie a livello tecnico-produttivo, sulla base del fatto che ciò, diminuendo la necessità di avere degli schiavi, avrebbe portato ad aumentare le file dei vagabondi da mantenere con la pubblica assistenza.

Marx s'era reso conto che non era solo questione di basso livello produttivo, ma anche di mentalità. Nel mondo romano dominavano i mercati, i commerci, ma questo non fu sufficiente a far scattare dei processi di tipo capitalistico. Capì che il paganesimo non era in grado, culturalmente, di opporsi allo schiavismo e intuì persino che, col proprio culto astratto dell'uomo, il cristianesimo avrebbe potuto in qualche modo favorire la nascita di un modo di produzione i cui contraenti, sul mercato, fossero formalmente liberi. Ma non arrivò mai ad approfondire questa cosa.

Cioè non arrivò a capire che il passaggio dallo schiavismo al servaggio sarebbe avvenuto anche senza l'apporto delle tribù germaniche e slave, che pur non avevano mai conosciuto lo schiavismo come sistema sociale di vita. Era la stessa ideologia cristiana che, facendo diventare cristiani sia lo schiavo che il suo schiavista, portava inevitabilmente a una trasformazione dei rapporti produttivi, a una attenuazione dei precedenti rapporti di forza.

Ma prima di parlare del ruolo del cristianesimo nella società romana, bisogna precisare alcune cose sullo schiavismo.

Il fatto che ad un certo punto cominciassero a venir meno gli schiavi a causa delle limitate guerre di conquista (già agli inizi dell'impero si pensava soprattutto a difendere i confini acquisiti), non può essere considerato un motivo sufficiente per indurre i romani a trasformare la schiavitù in colonato. In teoria l'effetto avrebbe anche potuto essere opposto (quando vi sono delle dittature, la ferocia aumenta all'aumentare della percezione del crollo): sarebbe stato del tutto naturale, visto che gli schiavi a disposizione erano gli ultimi acquistabili sui mercati, peggiorare le loro condizioni di lavoro (già molto tempo prima che i barbari penetrassero nell'impero erano gli stessi cittadini romani liberi, residenti nelle zone di confine, a chiedere la loro protezione).

Lo Stato romano incrementò le persecuzioni anticristiane (le più dure furono sotto Diocleziano) anche per continuare ad avere una manodopera schiavile a bassissimo costo. Anche la legislazione contro i debitori insolventi era drasticamente peggiorata.

Basta questo dunque per capire che non sono sufficienti dei semplici fatti, nudi e crudi, a modificare dei comportamenti consolidatisi nel tempo (qui in relazione ai rapporti produttivi). Occorre qualcos'altro, di tipo immateriale, non facilmente reperibile nelle fonti scritte, che di regola venivano prodotte dagli stessi schiavisti di quel tempo, e dai loro lacché.

Uno schiavista non avrebbe mai potuto parlar bene del cristianesimo e, nel contempo, chiedere che l'istituto della schiavitù subisse ulteriori restrizioni, a causa della penuria di schiavi sui mercati delle conquiste militari.

Il rapporto struttura/sovrastruttura consiste in due pesi che sui piatti della bilancia hanno uno strano rapporto: quello che dovrebbe essere più pesante, la struttura, che si vede a occhio nudo, in ultima istanza pesa meno di quello che nell'altro piatto neanche si vede e che può essere soltanto immaginato.

La necessità, di per sé, non determina atteggiamenti univoci, proprio perché gli esseri umani sono caratterizzati anche dalla libertà, la quale, entro certi limiti di circostanza, trasforma la necessità in possibilità. L'uomo si trova, ad un certo punto, a dover scegliere tra possibilità opposte e finisce col propendere per l'una o per l'altra, a seconda del credito che dà a questa o quella cultura o ideologia. Naturalmente per "cultura" si devono intendere quelle idee che cominciano ad affacciarsi alla pubblica considerazione, che cioè cominciano a interessare vasti strati sociali.

Detto questo, bisogna dire che non ha senso affermare che il cristianesimo non ha influito minimamente sulla trasformazione dello schiavismo in servaggio, in quanto non aveva nulla di politicamente rivoluzionario (a favore degli schiavi). Il fatto che un'ideologia religiosa fosse politicamente conservatrice non significa che socialmente e culturalmente fosse indifferente alla condizione schiavile. Basti pensare a due cose:

  1. Gesù Cristo veniva sì considerato di origine divina, ma veniva anche considerato simile a uno "schiavo" che si auto-immola per redimere gli uomini dai loro peccati, il primo dei quali era stato quelle edenico, che aveva per sempre impedito la riconciliazione degli uomini col loro dio (un dio che, con linguaggio più laico, va inteso il comunismo primitivo);
  2. il lavoro veniva considerato in maniera altamente significativa, al punto che Paolo arriverà a scrivere, nelle sue lettere, che chi non lavora non ha diritto a mangiare. Lui stesso aveva sempre cercato di non essere di peso a nessuno.

E' evidente che fino a quando il cristianesimo non divenne la religione più importante dell'impero, le fonti ufficiali non potevano ammettere che questa religione, dopo tre secoli di permanenza nei grandi centri urbani, era riuscita a influenzare, in qualche modo, i rapporti tra padroni e schiavi. Quando un'ideologia è politicamente minoritaria ma socialmente rilevante, è naturale ch'essa possa esercitare una certa influenza sulla mentalità dominante. Si tratta di un'influenza che non può essere ammessa in maniera pubblica, ma che non per questo risulta insignificante.

Per poter interpretare adeguatamente i fatti storici, sarebbe sciocco basarsi esclusivamente sulle fonti che ce li hanno tramandati. E' dunque inevitabile ipotizzare delle linee di tendenza che nelle fonti non possono risultare chiare e distinte. Prendiamo p.es. il passaggio epocale dal principato di Costantino a quello di Teodosio. Com'è stato possibile che in meno di 70 anni si sia passati ad una trasformazione del cristianesimo da religione "tollerata" a religione "privilegiata"?

E' evidente che il passaggio è potuto avvenire solo perché il cristianesimo aveva già acquisito a livello sociale e culturale un'enorme credibilità. Ma se andiamo a esaminare le fonti pagane coeve, dove risulta questa credibilità? Le persecuzioni erano durate apertamente fino a Diocleziano (305).

Se il cristianesimo fosse stato semplicemente una "religione" e non anche una "cultura" e un'"esperienza sociale", non solo non ci sarebbe stato l'Editto di Teodosio (380), ma neppure quello di Costantino (313). L'Editto di Milano infatti era stato fatto proprio perché il cristianesimo non era una religione come le altre, ma qualcosa che lo Stato romano guardava con sospetto e diffidenza. Qualunque religione pagana era già tollerata: perché emanare un editto specifico per dire che anche il cristianesimo lo era? Evidentemente perché non si poneva come una semplice religione.

E il fatto che Teodosio, nel 380, arrivasse a considerarla come l'unica religione lecita, rovesciando completamente la situazione precedente, sta appunto a dimostrare che gli imperatori non avevano mai considerato il cristianesimo come una semplice "religione". Nessuna religione era mai stata perseguitata per tre secoli. In ogni caso nessuna avrebbe mai potuto resistere a una persecuzione così prolungata.

Le persecuzioni avvenivano per motivi squisitamente politici, pur sapendo che il cristianesimo non voleva affatto porsi come movimento rivoluzionario anti-schiavista. Dunque gli aspetti pre-politici (il sociale e il culturale) davano non meno fastidio di quelli politici.

Soltanto quando si resero conto che le persecuzioni non solo non servivano a nulla ma anzi facevano incrementare le fila degli adepti a questa confessione, gli imperatori intrapresero la strada opposta: prima, con Costantino, cercando di dimostrare che lo Stato pagano non temeva alcuna religione, neppure quella cristiana; poi, con Teodosio, facendo vedere che lo Stato era persino disposto a fare del cristianesimo l'unica religione lecita. Cosa che sarebbe stata letteralmente impossibile se il cristianesimo non fosse già stato un'ideologia dominante nel tessuto sociale.

Il grandissimo torto del cristianesimo non fu ovviamente quello di aver accettato l'Editto di Milano, ma quello di aver accettato l'Editto di Tessalonica. E' appunto a partire dal 380 che inizia la corruzione politica di questa confessione.

Oggi col socialismo ci troviamo in una situazione per certi versi analoga e per altri opposta. Esso non è ancora entrato nella cultura dominante borghese (anche se l'esperienza che più gli si avvicina è quella dello "Stato sociale"), proprio perché nei suoi confronti persiste la diffidenza.

D'altro canto bisogna indurre gli Stati borghesi ad accettare nelle loro Costituzioni la fine della religione di stato, la fine della religione maggioritaria, un vero pluralismo confessionale, in cui nessuna religione possa fruire di particolari privilegi, e soprattutto l'inserimento del diritto a non avere alcuna religione, ovvero il diritto all'ateismo.

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Chiusa la parentesi sul cristianesimo in epoca romana, qui si può concludere il discorso sullo schiavismo dicendo che le popolazioni cosiddette "barbariche", quando entrarono nell'impero, non fecero altro che mettere in pratica un disegno di umanizzazione risalente alle loro origini clanico-tribali. Un disegno che per realizzarsi, senza l'apporto del cristianesimo, avrebbe sicuramente richiesto tempi molto più lunghi.

"In nome di Cristo morto e risorto - diceva Paolo - non c'è più né schiavo né libero". Tutti i cristiani sono moralmente liberi di fronte a dio, anche se nella vita reale permangono le differenze di classe. Un discorso del genere, una volta che il cristianesimo avesse dimostrato socialmente la propria superiorità sulle religioni pagane, non avrebbe potuto non influenzare i rapporti produttivi.

L'incontro coi barbari fu, da questo punto di vista, una vera fortuna per il cristianesimo, poiché gli avrebbe permesso di trovare più facilmente un appoggio non solo di tipo politico-istituzionale (che già aveva ottenuto con Teodosio), ma anche sociale, in quanto i barbari non avevano mai usato lo schiavismo come organizzazione produttiva dell'intera società. Il cristianesimo poteva continuare a esistere ancora per molti secoli, pur avendo ingannato gli schiavi con la dottrina della liberazione ultraterrena.

Dal canto loro i barbari, pur essendo di religione pagana, non ebbero alcuna difficoltà ad accettare una religione che assicurava loro la pace sociale. All'inizio fecero solo differenza tra arianesimo (in cui lo Stato sottomette a sé la chiesa) e ortodossia (in cui vige la diarchia dei poteri); successivamente, nella parte occidentale dell'impero, si trovarono costretti a scegliere tra Stato confessionale e teocrazia pontificia.

Insomma, una cosa è sfruttare qualcuno in nome della forza militare (schiavismo); un'altra è sfruttarlo col placet della fede religiosa (servaggio); un'altra ancora è farlo sotto il pretesto del diritto borghese (lavoro salariato); l'ultima che conosciamo, infine, è quella di chi usa un ideale socialista gestito in maniera esclusiva dallo Stato (cosa che trasforma la sudditanza in una questione anche di coscienza).

Quale marxista arriverebbe mai ad ammettere che in Russia il socialismo statale è crollato proprio a motivo delle tradizioni cristiane, le quali hanno potuto dimostrare che il loro ideale religioso era superiore a quello laico dello stalinismo? E chi arriverebbe ad ammettere che la stessa cosa non è potuta accadere in Cina proprio perché qui le suddette tradizioni non hanno mai messo solide radici? Quando tradizioni più che millenarie considerano l'essere umano un mero prodotto di natura, per quale motivo dovrebbero perorare con forza la causa della democrazia per rimediare ai guasti del socialismo di stato? Non è forse sufficiente che la dittatura politica aumenti gli spazi di manovra della libertà meramente economica?

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Sostenere che dal comunismo primitivo allo schiavismo (relativo alla proprietà statale o privata dei mezzi produttivi) si sia passati per mezzo di successive determinazioni quantitative, cioè senza una traumatica rottura di tipo qualitativo, è stata una delle tesi più sbagliate del marxismo, in questo erede della dialettica hegeliana.

Non ha infatti alcun senso dire che la proprietà privata poteva nascere solo in presenza di allevamento e agricoltura, non essendo possibile con la semplice raccolta ottenere un surplus alimentare. Di per sé non c'è nulla che possa favorire una gestione statale o privata o sociale dei mezzi produttivi. Cioè non possono essere stati l'agricoltura o l'allevamento a far nascere il senso della "proprietà privata". Questo passaggio non riveste alcun carattere di necessità.

Le cose infatti potrebbero essere andate in maniera rovesciata: è stato il senso di una proprietà non più comune a far nascere un certo tipo di lavorazione della terra o un certo tipo di allevamento. Determinati campi possono essere stati recintati, oppure la mandria (o una sua porzione) può essere appartenuta non più al collettivo tradizionale, ma a un proprietario particolare, che all'inizio si poneva o, meglio, s'imponeva in forma inedita.

L'idea di appropriarsi di qualcosa in maniera privata o in maniera astratta, cioè attraverso un ente che si vuol far passare come super partes, lo Stato, non può essere venuta in mente a un'intera tribù in un medesimo momento. Inizialmente l'idea dev'essere emersa in una parte di essa e può averla coinvolta interamente solo all'interno di una successione di momenti distinti.

Ovviamente nessuno nega che possano esserci stati dei mutamenti quantitativi nella gestione dei mezzi produttivi, ma è da escludere che tali mutamenti siano avvenuti fino al punto da sconvolgere in maniera naturale e radicale dei metodi tradizionalmente acquisiti. I progressi - se e quando c'erano (si pensi al fuoco o alla ruota) - venivano gestiti dall'intero collettivo. Solo per un motivo molto grave una parte della comunità poteva pensare di usarli per nuocere all'altra parte.

Le caratteristiche del collettivo non venivano compromesse né da un perfezionamento dei mezzi produttivi, né da un aumento della popolazione, né da condizioni climatiche o geografiche particolarmente sfavorevoli alla riproduzione umana. Se si pensa di trovare in queste e altre cose una motivazione plausibile per giustificare la fine del comunismo primordiale, ve ne sono altrettante che, sulla base di quegli stessi progressi, potrebbero portarci a fare considerazioni del tutto opposte.

Per esempio è una forzatura arguire che il concetto di "famiglia monogamica" sia nato proprio in seguito all'affermarsi di un uso diverso (privato) della proprietà. Ha poco senso pensare che dei sentimenti positivi di eticità nascano da un qualcosa di materialmente negativo. Come, d'altra parte, non ha senso sostenere che la nascita dello Stato, nel cosiddetto "modo di produzione asiatico", fu un qualcosa di "progressivo" proprio perché lo Stato, di per sé, non implicava né la divisione in classi contrapposte, né l'appropriazione individuale delle eccedenze o di una parte dei mezzi produttivi di sopravvivenza, e neppure la trasformazione del valore d'uso in valore di scambio.

In realtà non è affatto normale che nasca un organismo impersonale, al di sopra del collettivo, ammantato di idee religiose, avente propri funzionari specializzati, di tipo sia burocratico-fiscale che poliziesco-militare. Un organismo del genere presuppone già uno sconvolgimento di un certo livello nelle abitudini di una data comunità.

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Non può non esserci stato schiavismo quando è finita l'epoca del comunismo primitivo. Venne contrapposto l'individualismo (e quindi il concetto di "forza") al collettivismo, che voleva dire tradizione, senso comune, pariteticità tra i componenti del collettivo. Che poi questo schiavismo si sia imposto in una forma privata o statale, è dipeso soltanto dalla cultura dominante, che ovviamente s'è avvalsa di circostanze contingenti, di specifiche situazioni ambientali.

L'individualismo ha caratterizzato enormemente l'Europa occidentale, forse perché in quest'area geografica, posta ai margini dell'Asia e dell'Africa, come una loro estrema propaggine, avente un clima poco ospitale, poco adatto a vivere di caccia e di raccolta, poteva essere considerata come "ultima spiaggia" per popolazioni in fuga, come lo sarà il continente americano per quelle popolazioni perseguitate in Europa: anche noi incontrammo popolazioni ferme allo stadio del comunismo primitivo, per sbarazzarci delle quali ci bastarono pochi secoli. E comunque non dobbiamo dimenticare che il disgelo della coltre di ghiaccio che attanagliava l'Europa iniziò circa 14-12 mila anni fa.

Chi veniva a vivere in Europa occidentale doveva essere uno sradicato o uno che, nel proprio territorio d'origine, si trovava in una situazione di grave conflittualità coi residenti, come quando sono avvenute le massicce migrazioni indoeuropee e quelle cosiddette "barbariche" che hanno distrutto l'impero romano. L'individualismo infatti s'impone sempre nelle aree geografiche più difficili, più impervie..., non tanto perché è con l'individualismo che si possono meglio affrontare, quanto perché inizialmente esse vengono abitate da chi, per un motivo o per un altro, non ha potuto continuare a vivere nel proprio paese d'origine.

Le migrazioni con cui s'è popolata l'Europa hanno sempre comportato la perdita di qualcosa di vitale del proprio passato e quindi l'acquisizione di un nuovo stile di vita, che, inevitabilmente, rispetto a quello tradizionale, era segnato da elementi di tipo individualistico. In tal senso si può tranquillamente dire che le prime civiltà antagonistiche, presso il Nilo o il Tigri e l'Eufrate, sono nate qui perché attorno a quei fiumi si poteva costruire un'alternativa integrale alla foresta. Lo sfruttamento delle risorse idriche di quei fiumi cominciò ad avvenire in maniera sistematica e non, come si faceva prima, in maniera saltuaria, potendo le civiltà comunistiche avvalersi di ben altre risorse, quelle appunto delle foreste.

Ecco perché in Europa occidentale l'individualismo appare quando le civiltà antagonistiche fluviali cominciano a esercitare un condizionamento insopportabile sulle popolazioni rimaste ancorate al collettivismo, costringendole a emigrare.

La migrazione più antica dall'Asia e dall'Africa verso l'Europa, probabilmente era di popolazioni comunistiche che non riuscivano più a sopportare la presenza di società basate sullo schiavismo. Erano popolazioni in fuga, che, ancora più probabilmente, incontrarono in Europa popolazioni altrettanto comunistiche, ma che dovevano essere a un livello culturale e materiale più basso, in quanto sono state fagocitate dalle altre (basta vedere la superiorità di tipo linguistico). Le migrazioni delle popolazioni asiatiche verso l'Europa devono essere state fatte mentre già praticavano l'allevamento, altrimenti uno spostamento di massa sarebbe stato troppo rischioso.

Popolazioni comunistiche sono esistite in tutte le parti del pianeta. Quello che si fa fatica a comprendere è il motivo delle grandi migrazioni di massa. In origine, infatti, ciò che dava da vivere era la foresta. È impensabile che un'intera tribù si sposti da un luogo che le permette di vivere con relativa sicurezza verso un luogo del tutto sconosciuto. Normalmente le migrazioni tribali, quando vi erano, seguivano gli spostamenti delle mandrie selvatiche, oppure servivano per assicurare il foraggio a quelle in cattività. Se e quando gli uomini si spostano, lo fanno in piccole unità e con l'intenzione di ritornare, presto o tardi, nel luogo d'origine. Spontaneamente non si lascia mai il luogo in cui si è nati e cresciuti: deve esserci una motivazione molto seria.

Questo per dire che quando l'Europa è stata occupata dalle grandi migrazioni provenienti dall'India, queste popolazioni erano state sicuramente costrette a spostarsi, e il motivo può essere stato solo uno: erano venute a contatto con civiltà di tipo schiavistico (quelle appunto della regione mesopotamica). All'interno di queste migrazioni di massa vi potevano essere, ovviamente, popolazioni ancora al livello del comunismo primitivo, ma anche quelle venute a contatto con le stesse civiltà schiavistiche e dalle quali inevitabilmente avevano acquisito alcune abitudini.

La vera tragedia però inizia solo verso il IV millennio a.C., quando si verifica il passaggio dall'età della pietra a quello del metallo, che tutti gli storici vedono però come un grande progresso. È proprio in quel periodo che inizia a separarsi nettamente l'agricoltura dall'allevamento e si formano le grandi città.

Fonti

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  • V. Lanternari, Antropologia e imperialismo, Einaudi, Torino, 1974
  • K. Polanyi, Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018