PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO

IDEE PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO
L'autogestione di una democrazia diretta


PER UN SOCIALISMO DEMOCRATICO

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Quando l'Urss di Gorbaciov diede una svolta radicale al vecchio statalismo sovietico, la sinistra più ideologica vide in questo una sorta di “involuzione” verso forme borghesi di sistema sociale, come poi effettivamente è accaduto.

Si diceva che l'involuzione era dovuta a una scarsa “coscienza di classe”. E in nessun modo si voleva vedere la perestrojka come un positivo processo in direzione della “democrazia”, ovvero in direzione di un socialismo più “democratico”.

Si dava per scontato l'imborghesimento dell'Unione Sovietica e si era persino arrivati a dire che per non rischiare questa involuzione sarebbe stato meglio conservare il tradizionale statalismo burocratico, l'accentramento amministrativo, il ruolo egemonico del partito.

Oggi invece si è arrivati alla conclusione che l'imborghesimento non è stato un fenomeno inevitabile a quella riforma, ma una reazione spontanea, istintiva degli elementi meno coscienti, che hanno creduto di poter superare la frustrazione di mezzo secolo di dittatura puntando tutto sulla “libertà personale” e non anche sulla “giustizia sociale”, quella per tutti, da cui in fondo era partita la stessa rivoluzione bolscevica.

Molti di questi elementi, in verità, si sono già accorti, pagando di persona, che il principio di “libertà” affermato in occidente ha valore solo per alcune categorie sociali. D'altra parte la propaganda borghese è maestra nel far sembrare falso il vero e vero il falso. In questo senso non fa meraviglia chi abbia deciso di buttare via l'acqua sporca col bambino per abbracciare in toto il capitalismo, affrettandosi a parlare di “postcomunismo”, a partire da Eltsin per proseguire con Putin.

Di fatto gli ideali della giustizia sociale restano ancora lì in attesa di realizzarsi, e l'attesa durerà certamente fino a quando le società resteranno divise in classi antagonistiche.

Non ha quindi senso sostenere che il crollo dei socialismo reale porterà, come logica conseguenza, al trionfo dei capitalismo. Nei paesi est-europei non è fallita l'idea del socialismo, quanto piuttosto l'idea che si possa realizzare il socialismo attraverso lo Stato. Ciò in quanto socialismo e Stato sono, alla lunga, incompatibili.

Il socialismo che doveva, in teoria, porre le basi per l'estinzione graduale dello Stato, ha fatto, in pratica, esattamente il contrario. La cosa naturalmente, finché c'era la guerra (calda o fredda), poteva anche trovare una qualche giustificazione: in fondo si può benissimo tollerare un socialismo “autoritario” o fortemente centralizzato nel momento in cui si deve difendere la patria (per quanto proprio un socialismo del genere - a testimonianza che non ogni autoritarismo è lecito - abbia rischiato, ai tempi di Stalin, di far perdere la guerra all'URSS).

Ma in tempo di pace la pretesa autoritaria non regge. Tanto è vero che, dopo Stalin, i dirigenti del Pcus si accorsero che bisognava modificare il termine “dittatura del proletariato” (o Stato della classe operaia) con “Stato di tutto il popolo”, lasciando così credere che la società civile avesse superato un'intera fase storica.

Paradossalmente tuttavia, nel giustificare il passaggio, era stata usata la tanto deprecata (e giustamente) formula bernsteiniana di “Stato popolare”, cioè quell'idea assurda secondo cui uno Stato diventa “popolare” se garantisce a tutti il suffragio universale.

La differenza stava nel fatto (un fatto senza precedenti) che il socialismo reale aveva aggiunto al suffragio universale la proprietà “universale” dello Stato: cioè in pratica, ad una concezione illusoria (quella di Bernstein), espressa sul terreno giuridico-politico, si era risposto con un'altra concezione che, essendo di natura socio-economica, doveva rivelarsi ancora più illusoria.

Lo Stato di “tutti” infatti era diventato lo Stato di “nessuno”, la “proprietà pubblica” era diventata la zona franca dell'abbandono generale di ogni forma di responsabilità.

I fatti hanno dimostrato, per la prima volta (e di questo bisogna tener conto se si vogliono evitare giudizi troppo severi), che dal dominio del capitale non si può essere liberati attraverso il potere statale. Se ciò avviene è solo perché il potere del capitale è stato sostituito con un altro potere, più sofisticato, più coinvolgente, appunto perché strettamente legato a un “ideale”: il potere del partito politico, che a sua volta si serve del potere amministrativo della burocrazia.

In questo senso “socialismo di stato” è una contraddizione in termini, e la definizione di “Stato di tutto il popolo” è non meno mistificante, non fosse che per una elementare ragione, e cioè che il giorno in cui si potrà finalmente dire che lo Stato è “di tutto il popolo”, quel giorno lo Stato non esisterà più.

In realtà con tale definizione si è potuto costatare (i comunisti dell'est l'hanno anche sperimentato) che Stato e popolo coincidevano non dal punto di vista del popolo ma da quello dello Stato, per cui era il popolo che, essendo tutto assorbito nelle organizzazioni statali, sembrava non esistere più, come se avesse perso la propria identità.

Sotto questo aspetto la successiva definizione di “Stato di diritto” ha più realismo e meno demagogia, per quanto anch'essa sia insufficiente a garantire la transizione dallo Stato “autoritario” a quello “democratico”. Lo è per la semplice ragione (che però tanto “semplice” non è) che nessuno Stato “autoritario” può trasformarsi di per sé in uno Stato “democratico”. La mutazione infatti implica di necessità la fine dello Stato. Se così non fosse si creerebbe un altro mito, quello appunto di uno “Stato socialista democratico”, la cui prerogativa fondamentale sarebbe quella di applicare equamente il diritto.

In realtà possiamo pensare che il diritto debba essere una prerogativa dello Stato solo se rifiutiamo l'idea che lo Stato debba estinguersi. Se accettiamo l'idea (engelsiana e leniniana) dell'estinzione progressiva dello Stato, dobbiamo anche accettare l'idea del superamento del diritto, in quanto l'uguaglianza formale davanti alla legge diventa sempre, anche nel socialismo, un criterio schematico e persino antidemocratico, se non si tiene conto di tutte le differenze che si manifestano a livello sociale.

Marx diceva che il diritto, per essere democratico, dovrebbe essere “disuguale”, come sono “disuguali” le condizioni sociali, le motivazioni dell'agire, gli interessi. Ma un diritto “disuguale” sarebbe la fine del diritto, poiché il diritto non può sopportare l'idea che leggi analoghe, in situazioni diverse, producano effetti diversi, se non addirittura opposti. Se il diritto sopporta questo è perché sa di non essere “diritto” ma “forza”, ovvero espressione giuridico-formale della “forza” sociale di una classe o di un governo. Il diritto quindi va sostituito non meno dello Stato.

Il fallimento del socialismo di stato ha dimostrato anche l'erroneità della tesi di Kautsky (e se vogliamo della maggioranza della Il Internazionale), secondo cui lo Stato non è necessariamente strumento delle classi sfruttatrici. Non solo Kautsky aveva torto allora, nei riguardi di Engels e soprattutto di Lenin, per i quali lo Stato nasce e si sviluppa come strumento d'oppressione di una classe sull'altra (passando dalle mani di una classe sfruttatrice a quelle di un'altra), ma ha torto pure oggi, nei riguardi di quanti, a partire dalla svolta di Gorbaciov, cominciano a sostenere che persino lo Stato socialista può essere strumento di oppressione di una classe (quella burocratica) e di un partito (quello comunista) sull'intera società. Anzi, esso lo diventa necessariamente se la rivoluzione invece di “estinguerlo” lo “rafforza”.

Dal fallimento di questo “esperimento” si esce non soltanto restituendo ai lavoratori la proprietà, ma invitandoli anche a organizzarsi collettivamente, su basi volontarie, per gestire nel migliore dei modi la proprietà ricevuta: beninteso, non in direzione dell'idea del “privato sociale” (che è l'uso capitalistico della proprietà dietro la giustificazione della sua rilevanza sociale), ma in direzione della proposta di un “collettivismo libero”, lontano sia dallo statalismo che dall'individualismo e dal corporativismo.

Se i lavoratori hanno fatto crollare lo Stato socialista, significa che essi avevano delle esigenze sociali di giustizia e di libertà fortemente sentite e represse; ora però devono saper dimostrare d'essere sufficientemente maturi per organizzare l'autogoverno socialista.

Infatti un'economia pianificata non presuppone necessariamente che il suo soggetto attivo debba essere lo Stato, cioè un'amministrazione centralizzata, che si serve del decentramento solo per essere più efficiente.

Piano e mercato possono convivere se i soggetti che li muovono e li organizzano sono gli stessi. Tutti i ritardi inerenti alla odierna ristrutturazione dell'economia socialista sono dovuti al fatto che è più facile distruggere le istituzioni che creare nuovi rapporti sociali. Ciò che soprattutto pesa è il condizionamento che abitua gli uomini ad aspettarsi dall'alto la soluzione dei loro problemi.

E' comunque altamente improbabile che uno Stato socialista sia in grado di favorire, autonomamente, il passaggio ad una gestione decentrata della “cosa pubblica”. Esso infatti, con i suoi ministeri e dicasteri, non solo non ha stimoli per realizzare un obiettivo del genere, ma anche se li avesse (in quanto non tutti i burocrati hanno la mente “burocratica”) sarebbe del tutto incapace a realizzarlo. Il limite è oggettivo. Ecco perché i lavoratori e i cittadini non possono delegare a un ente che li aliena un compito che devono assumersi in proprio, imparando ad autogovernarsi e autogestirsi.

Solo di fronte alla loro maturità organizzata in modo collettivo, lo Stato si rivelerà per quello che è, un ente inutile e anzi nocivo. Finché le masse popolari più coscienti non svilupperanno questa responsabilità, ci sarà sempre qualcuno intenzionato a servirsi degli organi statali per imporre un proprio dominio. Il che, beninteso, non significa che nel socialismo autogestito non potranno verificarsi casi di speculazione o di abuso di potere: significa soltanto che di fronte a tali casi i cittadini autogestiti non potranno più delegare allo Stato il compito di risolverli.

Lenin insomma torna di nuovo ad avere ragione: la liberazione di una classe oppressa - diceva in Stato e rivoluzione - è impossibile senza la distruzione dell'apparato statale sottratto alla borghesia. Egli disse che i due principali “parassiti” dello Stato borghese sono la burocrazia e l'esercito permanente. Per quale ragione non dovrebbero esserlo anche nello Stato socialista?

Nel Rapporto che fece all'VIII congresso del Pcus, Lenin disse: “Combattere sino in fondo il burocratismo si può unicamente se tutta la popolazione partecipa alla gestione”. Che fine hanno fatto, in questo senso, i Soviet operai?

Cosa ha impedito che nell'URSS la rivoluzione vincesse la burocrazia? Lenin, ai suoi tempi, ne addebitava le cause allo scarso livello culturale del suo paese, “che non si può sottomettere - diceva, con ironia - a nessuna legge”. Il che, in sostanza, aveva comportato due cose: 1) il passaggio dei burocrati zaristi nelle istituzioni sovietiche, con la tessera del partito in tasca ma con la mente rivolta ai loro propri interessi; 2) il fatto che “gli organi del governo esercitato dai lavoratori, sono in realtà gli organi del governo per i lavoratori, esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici”. E se a questo si aggiunge che allora - a detta dello stesso Lenin - “lo strato degli operai che governa è eccessivamente, incredibilmente sottile”, è facile rendersi conto di quanto difficile sia stato per i bolscevichi affrontare questo compito “educativo” e “autoeducativo”.

Lo stalinismo, che è durato almeno mezzo secolo, è stato anche il frutto di tale immaturità: esso ha interrotto un lavoro che oggi va ripreso appunto là dove era appena cominciato.

Se dunque socialismo democratico significa togliere allo Stato i poteri per trasferirli direttamente, completamente (in modo progressivo ma reale) nelle mani dei cittadini, organizzati nella forma dell'autogoverno locale (cioè non solo in cooperative e centri sociali), allora devono radicalmente cambiare le funzioni tradizionali dello Stato socialista, le cui competenze dovranno limitarsi a quelle d'indirizzo generale, di promozione, di riequilibrio, di coordinamento degli interessi locali, regionali e nazionali, nonché di rappresentanza, a livello internazionale, degli interessi del paese, ma che non potranno riguardare tutte quelle funzioni gestionali (o manageriali) che i cittadini devono sentirsi di assumere in proprio.

In particolare, compito dello Stato dev'essere quello di raccordare l'uso delle risorse a livello nazionale, poiché “autogoverno locale” non può assolutamente significare “autarchia” o “economia chiusa”. L'interdipendenza delle nazioni, all'estero, e l'interconnessione, all'interno, di strutture/fenomeni/problemi escludono a priori una soluzione del genere. L'autogoverno economico-politico deve realizzarsi nella consapevolezza di appartenere sia a un mondo integrato sia a una società integrata, in cui cioè la dipendenza dagli interessi e dalle esigenze di una parte rispetto a un'altra deve essere avvertita come reciproca.

Ad esempio, non tener conto in questo momento che l'indebitamento colossale del Terzo mondo, se continua così, trascinerà alla rovina totale non solo il Terzo , ma anche una buona parte del Secondo e soprattutto del Primo, che su quello sfruttamento basa il proprio benessere, significa ragionare ancora coi termini imperialistici del secolo scorso e non certo secondo la logica dell'integrazione (che prevede non solo rapporti paritetici e vantaggi reciproci, ma anche riequilibrio, risarcimento dei danni coloniali e scelte preferenziali per lo sviluppo del Sud).

Per concludere, il principio dell'autogoverno locale - se applicato - sarà fonte di trasformazioni sociali enormi, tanto all'est quanto all'ovest. Si pensi al fatto che sul piano militare ancora oggi deleghiamo allo Stato la difesa del nostro territorio, rinunciando all'autodifesa. E sul piano fiscale, com'è possibile sperare che un cittadino si convinca della necessità di pagare le tasse se poi non viene a sapere, nel dettaglio, dove andranno a finire? E il diritto non va forse sostituito con la giustizia diretta, immediata, dei cittadini, in modo che essi siano in grado di esercitarla con cognizione di causa, verificandone personalmente l'applicazione.

La stessa attività politico-parlamentare dovrà subire sostanziali modifiche. Un deputato deve rendere conto periodicamente del proprio operato ai suoi elettori. Per non parlare del fatto che una mera attività parlamentare rende il partito parte integrante del sistema (anche se sta all'opposizione), facendogli perdere qualunque vera capacità contestativa.

Tutte queste esigenze sono molto sentite nei paesi est-europei e in altri che si sono ispirati alle idee del socialismo, ma ognuno si rende facilmente conto che l'Occidente non è meno interessato nel trovare ad esse una soluzione.

Quanti credono che il comunismo sia fallito per mere “cause interne” s'illudono, in quanto le istanze della perestrojka hanno valenza mondiale. Se in questo momento la crisi ha coinvolto maggiormente il socialismo reale, ciò probabilmente è dipeso dal fatto che l'assenza di una partecipazione socialista allo sfruttamento imperialistico del Terzo mondo ha portato i problemi socio-economici, connessi al sistema burocratico-amministrativo, a farsi sentire in anticipo; e forse anche dal fatto che la maturità politica del socialismo reale, nonostante lo stalinismo, non ha nulla da invidiare a quella dell'Occidente.

IL PUNTO SULLA "NUOVA MENTALITA'"

Come noto, il principio teorico fondamentale della concezione della "nuova mentalità", elaborata dalla filosofia politica più progressista dell'attuale partito comunista sovietico, riguarda la presa di coscienza che l'umanità è non solo caratterizzata da discontinuità e diversità (si pensi p.es. alle formazioni sociali del capitalismo e del socialismo), ma anche da integrità e unicità (nel senso ad es. che le contraddizioni tra le due suddette formazioni devono svilupparsi all'interno dell'unità globale e strutturale della società umana). Dobbiamo, in sostanza, stare uniti (e lottare per questa unità) nella consapevolezza delle diversità che ci caratterizzano (e che possono anche dividerci). Il rifiuto di questa necessità, oggi, coi mezzi bellici che abbiamo a disposizione, può portare la civiltà alla barbarie.

La formula dialettica dell'unità e della lotta dei contrari è familiare al marxismo. In questo momento la nuova mentalità sta cercando di ridimensionare la valorizzazione unilaterale del momento della "lotta" a vantaggio di quello dell'"unità". La globalità del mondo è consolidata dall'interdipendenza dei suoi elementi, che va aumentando di continuo.

QUALE ALTERNATIVA AL "SOCIALISMO REALE"?

Dall'esperienza del fallimento del cosiddetto "socialismo reale" si è capito in maniera incontrovertibile che uno Stato socialista non può mai sovrapporsi alla società. Lo Stato infatti deve progressivamente estinguersi.

Ora, il fatto che ciò in Russia non sia avvenuto doveva necessariamente essere sfruttato per sostenere che il dominio dello Stato andava sostituito con quello del mercato? Invece di elaborare un concetto di "società civile" che andasse al di là non solo dello Stato "padre e padrone", ma anche del mercato capitalistico (dove il valore di scambio domina su quello d'uso), s'è finito con l'equiparare la società civile, autonoma dall'egemonia statalista, al mercato tout-court.

L'alternativa al socialismo autoritario è ridiventata quella del vecchio capitalismo, che ha già mostrato i suoi grandissimi limiti con l'esperienza coloniale e neocoloniale e soprattutto con le due guerre mondiali. Si è cercato di giustificare la superiorità del capitalismo considerandolo come un sistema in sé e non nei suoi rapporti organici, di sfruttamento economico, coi paesi del Terzo Mondo.

Lo Stato "sovietico" non ha voluto rischiare che, concedendo più ampia autonomia alla società, si finisse col negare i principi stessi del socialismo; ha cioè preferito continuare a imporre questi principi, rinunciando definitivamente all'idea di doversi progressivamente estinguere.

Il risultato è stato una forte dicotomia tra poteri costituiti e istanze popolari, le quali, alla fine, hanno buttato via l'acqua sporca col bambino.

In realtà l'alternativa a uno Stato socialista autoritario è una società socialista democratica, non un ritorno al capitalismo. Non si può negare il grande contributo che il bolscevismo ha dato al marxismo.

Bisogna piuttosto sviluppare il leninismo, che esprime il primato della politica sull'economia, in senso umanistico e democratico, facendo in modo che la politica divenga effettivamente un'azione consapevole delle masse, e non tanto un'attività diretta da intellettuali "consapevoli", "determinati", a favore delle masse "spontaneistiche".

Il primato della politica, se non compenetrato in maniera adeguata dalle esigenze dell'umanesimo, può in effetti comportare il rischio di una gestione verticistica della società civile, specie là dove questa ha scarsa consapevolezza di sé, in quanto abituata più a obbedire che ad autogovernarsi, più a subire che a reagire.

Non si può comunque mettere in discussione il fatto che l'unica esperienza positiva del marxismo, capace di metterne in pratica le idee, sia stata quella leninista. Mettere in discussione questo sviluppo significa negare valore allo stesso marxismo e quindi al suo fondamentale contributo alla critica dell'economia politica borghese.

Noi non dobbiamo dimenticare che la diffusione più ampia del socialismo è avvenuta nel corso di due guerre mondiali, cioè in condizioni estremamente difficili per l'umanità, ivi incluse le popolazioni dei paesi capitalisti avanzati.

La necessità del superamento del capitalismo s'è fatta maggiormente sentire, nella storia, nel momento in cui le contraddizioni antagonistiche avevano raggiunto un punto di particolare sofferenza per milioni di persone.

Negare questo stretto nesso di causa ed effetto, tra crisi del capitalismo ed esigenza di socialismo, significa non capire nulla della teoria delle formazioni socio-economiche, in virtù della quale è possibile comprendere il concetto di civiltà e l'evoluzione dell'intero genere umano.

Che nelle fasi cosiddette "pacifiche", per lo sviluppo del capitalismo, molti abbiano l'impressione che questo sistema sia in grado di risolvere i propri problemi e che quindi diventi inutile un'organizzazione proletaria avente come fine l'insurrezione, non significa affatto che non sia indispensabile continuare a lottare per la realizzazione del socialismo, ovvero che non siano inevitabili nuove crisi mondiali del capitale e nuovi rischi di conflitti internazionali.

Già oggi appare sotto gli occhi di tutti che un ulteriore sviluppo del capitalismo porterà a degli scompensi ambientali irreversibili o comunque di difficilissima soluzione nell'arco della generazione che li ha prodotti. Vi sono inoltre tendenze sempre più marcate da parte dei paesi terzomondiali a dichiarare bancarotta, come extrema ratio per non pagare l'ingente debito che strangola le loro economie. L'emergere infine di nuovi competitori mondiali, come la Cina e l'India, il cui sviluppo cresce molto più in fretta di quello delle economie capitaliste avanzate, sta preoccupando quest'ultime molto seriamente.


Le immagini sono prese dal sito "Foto Mulazzani"

Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Politica - Socialismo democratico
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Aggiornamento: 11/12/2018