STORIA ROMANA


L'AGRICOLTURA ROMANA

Quando i romani iniziarono a sottomettere le popolazioni italiche definirono le terre conquistate col termine di "agro pubblico".

Una parte di questi terreni veniva divisa in centurie, cioè in rettangoli più o meno equivalenti, destinati ad essere assegnati ai coloni-soldati, che di mestiere facevano i contadini e che su questi lotti praticavano sostanzialmente un'agricoltura di sussistenza.

Schiavi che pigiano l'uva

Altri terreni potevano essere affittati a cittadini privati, che quindi li gestivano, anche potendo trasmetterli in via ereditaria, senza averne la proprietà, che restava statale.

La parte del leone toccò sempre ai comandanti militari, membri dell'aristocrazia senatoria, forniti di poteri quasi illimitati, che potevano far lavorare sulle loro terre coloni e schiavi.

I processi di colonizzazione spesso coincidevano con migrazioni interne quasi bibliche, in quanto i romani cacciavano gli esuberi relativi alle popolazioni autoctone: p.es. 40.000 liguri apuani, appena vinti, furono trasferiti nelle campagne attorno a Benevento.

Fu soprattutto dopo le guerre puniche che alcuni ceti (i patrizi) si arricchirono enormemente, trasformando il demanio pubblico in proprietà privata. Gli investimenti erano prevalentemente indirizzati all'acquisto di terre, in quanto i senatori, secondo una legge del 218 a.C. che voleva tenere separati l'attività politica da quella commerciale in senso stretto, non potevano disporre di navi di grossa stazza.

Viceversa, i senatori riuscirono ad aggirare abbastanza facilmente un'altra legge antica (legge Sextia del IV sec. a.C.) che vietava di occupare più di 500 iugeri (100 ettari) di agro pubblico.

Il processo di concentrazione terriera nelle mani di pochi privilegiati non trovò ostacoli neppure con le vicende dei Gracchi e praticamente determinò la crisi irreversibile della piccola proprietà contadina libera.

In questo quadro s'inserisce il primo trattato di agricoltura (De re rustica) di Catone, scritto tra il 164 e il 154 a.C. e indirizzato al ricco proprietario che vive in città e affida la gestione della villa di campagna (l'azienda agricola) a un fattore, di condizione servile, riservandosi di ispezionarla personalmente di tanto in tanto.

Generalmente la villa era divisa in due parti: la parte urbana, destinata ad ospitare il padrone, e quella rustica, destinata agli alloggi degli schiavi, e adibita come attrezzaia.

Catone indubbiamente conosceva l'enciclopedia agricola del cartaginese Magone, che evidenziava i grandi livelli produttivi e scientifici dell'agricoltura punica. Infatti fu proprio Catone che diede all'agricoltura romana, fino a quel momento dominata dalla monocoltura cerealicola, una svolta verso gli impianti di ulivi e di vigne. Al punto che si vietò alle genti transalpine di piantare colture analoghe.

Nella graduatoria stilata da Catone, il vigneto, per importanza, deteneva, nell'azienda agricola, il primo posto, seguito da orto irriguo, saliceto, uliveto, prato, seminativo, bosco ceduo, terreni ed arbusti, bosco a ghiande.

La manodopera schiavile doveva essere rigorosamente schiavile, organizzata in squadre controllate da due villici, maschio e femmina, che, pur essendo schiavi, svolgevano la funzione responsabile di un fattore. Le mansioni di tutti questi lavoratori e il modo di sfruttare al massimo la loro forza-lavoro vengono descritti sin nei minimi particolari.

Tuttavia il calcolo economico era molto rudimentale, praticamente si riduceva al principio: "vendere molto e comprare poco". Anche la tecnologia era piuttosto primitiva. In tutta la storia di Roma l'idea di profitto non è mai stata legata alla terra, ma solo ai commerci e soprattutto all'usura. Alla terra si legava l'idea di rendita.

Il vigneto-tipo doveva essere di circa 100 iugeri (20 ettari), lavorati da 16 schiavi, cioè dai due fattori, dieci braccianti, un aratore o bifolco, un asinaio, un addetto al saliceto (o legatore di viti) e un porcaro.

L'uliveto-tipo doveva invece essere sui 240 iugeri (48 ettari), lavorato da 13 schiavi.

L'azienda doveva essere chiaramente orientata al mercato, per cui si dovevano specializzare le colture (specie il vino e l'olio) ed evitare l'autarchia.

Prima della pubblicazione, un secolo dopo, dei tre importanti libri di agricoltura di Varrone, una legge agraria del 111 a.C. sanciva la trasformazione ad uso privato dell'agro pubblico, mostrando quindi la necessità di ampliare i contratti di locazione coi coloni.

Varrone venne incontro all'esigenza di ricchissimi latifondisti che praticamente avevano come unico scopo di vita quello di campare di rendita, senza preoccuparsi eccessivamente della conduzione agricola di un'azienda, che sempre più si trasformava in una tenuta sfarzosa.

Molti senatori, convinti che il frumento poteva anche essere importato dall'Africa o dalla Sardegna, e il vino dalla Grecia, cominciarono ad acquistare ingenti mandrie o greggi da affidare a schiavi-pastori, che le guidassero nella transumanza verso l'Adriatico o il Tirreno. Ma investivano anche nell'allevamento del pesce in piscine artificiali, o dei volatili nelle voliere, o in conigli e pollame.

Cesare stabilì addirittura che 1/3 dei pastori doveva essere libero. Queste figure di lavoratori favorivano sempre più forme contrattuali molto vantaggiose.

L'agronomo Columella, contemporaneo di Seneca, scrisse un nuovo trattato di agricoltura in cui fa chiaramente capire che la pratica dell'affitto può dare ottimi risultati. Catone infatti non aveva assolutamente prevista la possibilità di affidare a coloni dei lotti adiacenti alla villa, in cambio di un canone in denaro.

I coloni, che sfruttavano alcune strutture presenti nella villa, come il forno e il mulino, si potevano rendere disponibili nei periodi dell'anno in cui era necessario l'impiego di manodopera supplementare, p.es. nella stagione della vendemmia.

Queste forme contrattuali di lavoro si rendevano particolarmente indicate là dove le proprietà erano troppo lontane per poter essere ispezionate frequentemente, oppure per quelle terre che si trovavano in zone insalubri, dove i latifondisti preferivano mettere a repentaglio la vita dei coloni che non quella degli schiavi comprati sui mercati.

Il passaggio dalla schiavitù al servaggio (che in questo momento si chiama "colonato") caratterizzerà la nascita della formazione feudale.


Bibliografia

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
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Aggiornamento: 11/09/2014