STORIA ROMANA


Roma, l'apogeo della forma statale schiavile

I - II - III - IV
Le due vie della nascita dello Stato nelle società antiche
4. Roma, l’apogeo della forma statale schiavile

A Roma toccò in sorte di perfezionare e portare alle sue estreme conseguenze il sistema schiavista del Mediterraneo, sviluppando compiutamente i contrasti sociali insiti in esso.

Cesare

Le gentes originali della zona, la cui assemblea si chiamava senato, divennero poco a poco una minoranza della popolazione (i patrizi), divenendo una corporazione chiusa separata dai nuovi venuti, la plebe. La proprietà fondiaria comune della gens (cioè del patriziato) divenne un privilegio di classe: ci lavoravano i clientes del senatore (il senato era composto dai capi delle 300 gentes originali, alcune migliaia di persone). Ma le strutture gentilizie sopravvivevano ancora: l’assemblea del popolo (i comitia curiata) si svolgeva col popolo raccolto per curie (cioè fratrie) e approvava o respingeva le proposte a maggioranza assoluta; essa era retta dal rex, ufficio non ereditario, secondo i classici schemi della democrazia militare gentilizia. Quando Roma cominciò ad espandersi, le curie non poterono tenere testa allo sviluppo. Servio Tullio, ispirandosi a Solone, creò una costituzione censuaria, decretando la fine della democrazia gentilizia. Si formò così l’assemblea delle centurie, dove la prima classe, assieme ai cavalieri, aveva la maggioranza assoluta.

La società romana arcaica

Pur nella difficoltà d’interpretare informazioni più mitologiche che reali, di sicuro possiamo dire che Roma nacque fondendo la struttura sociale tipica di ogni città etrusca (Ruma è il nome di una famiglia etrusca) alle ancora forti strutture gentilizie, superando così da subito la formazione asiatica. La Roma dei re è dunque una città Stato con deboli caratteristiche asiatiche come si vede dal ruolo dell’ager publicus. I senatori si appropriano dei frutti delle terre pubbliche di cui però non hanno assolutamente la proprietà individuale (e per certi versi, nemmeno ancora quella collettiva). Inoltre, essi sono l’unica classe armata in permanenza (cavalieri con relativa fanteria di clientes), mentre alla plebe è vietato armarsi; infine, gestiscono lo Stato tramite il senato e le altre cariche pubbliche.

Si può dire che fino all’Impero questa struttura rimase intatta, con la differenza che i vecchi senatori dovettero fare spazio ai nuovi ricchi e spesso addivenire a un accordo con la plebe, costituita fondamentalmente dai lavoranti dell’ager publicus; si trattava di contadini poveri i quali erano esclusi dal potere politico e fornivano la base dell’esercito di Roma, e dunque della sua espansione territoriale. Questa espansione avvantaggiava quasi esclusivamente i senatori, ma nella misura in cui forniva schiavi e terreni, consentiva un certo bottino a tutti gli altri. Al tempo, la schiavitù non era il rapporto di produzione dominante. Gli schiavi erano quasi tutti romani ed erano parte della famiglia (famiglia deriva dal termine famulus, schiavo domestico), e seppur senza diritti personali, non avevano però una vita particolarmente dura. La forma principale di reclutamento dello strato schiavile era ancora la schiavitù per debiti e per necessità familiare o la semplice riproduzione degli schiavi. La principale lotta sociale del tempo era dunque quella tra due ordini liberi e riguardava il fulcro del processo produttivo: la produzione agricola. Il pluslavoro estratto da plebei e schiavi veniva ancora principalmente utilizzato per accrescere i valori d’uso dei senatori anche se non era sconosciuta l’accumulazione sotto forma di denaro. Peraltro, la circolazione della moneta è strettamente connessa al commercio di schiavi. Nel 269 a.C. nacque il conio delle monete. All’epoca la popolazione contava circa 3 milioni di cittadini liberi e 2 milioni di schiavi.

Come detto, l’accordo tra patrizi e plebei fu la carta vincente dell’espansionismo romano. La pace sociale permise di armare la plebe e dunque superare i piccoli eserciti di clientes tipici delle città Stato etrusche, andando verso le formazioni oplitiche della Grecia classica. Naturalmente, in cambio di un esercito incomparabilmente più ampio ed efficiente dei vicini, il senato dovette fare numerose concessioni (il tribunato della plebe, ecc.). L’esercito della Roma che si affaccia al rango di potenza aveva (secondo quanto si ricava dalle famose 12 tavole): 18 centurie di aristocrazia equestre, 80 centurie della prima classe, ovvero la fanteria pesante (plebei ricchi, la spina dorsale dell’esercito), 20 centurie ciascuna della seconda, terza e quarta classe in ordine decrescente di armamento, 30 centurie della quinta classe, fanteria leggera. Vi erano poi due centurie di artigiani (una sorta di genio) mentre il proletariato era disarmato e agiva come portaordini, esploratore ecc.

Questa organizzazione (che implica un esercito di circa 20.000 uomini) era anche la struttura politica della città. Per quell’epoca un esercito forte di 20.000 effettivi era inaudito per l’Italia.

La forza dell’esercito riflette la struttura politica che lo crea e che difende. Mentre gli etruschi e i popoli con strutture sociali analoghe erano ancora organizzati in famiglie che ricordavano i clan gentilizi, nella repubblica romana i funzionari e gli ufficiali erano eletti da tutti i cittadini (patrizi). E' un’idea che funzionerà bene: la selezione dei dirigenti non è affidata al caso (il figlio del re), ma a una scelta politica. Nel tempo il ruolo e il peso relativo dei diversi tipi di funzionari statali cambia, riflettendo plasticamente il conflitto di classe che riuscirà a incanalare egregiamente. Così sorsero i tribuni della plebe, rappresentanti della parte più ricca della plebe, già allora in lotta per la terra. Nel tempo, la plebe assume un peso crescente, come si vede nell’obbligatorietà, per uno dei consoli, di essere plebeo, la possibilità di accedere a sempre più cariche ecc. Con lo sviluppo della produzione schiavile, la lotta tra plebei e patrizi si presenta sempre più come lotta tra due frazioni della classe dominante non più come lotta tra classe oppressa e classe dominante.

Come detto, ai patres, i vecchi senatori collettivamente proprietari fondiari, si aggiunse una nuova classe mercantile (soprattutto, per il commercio di schiavi), che spingeva per una politica espansionistica.

La necessità dell’espansione territoriale mutò i caratteri politici e sociali di Roma. Innanzitutto, creò un esercito e una casta di ufficiali permanenti. Ad una struttura ancora fortemente democratica, dove ogni carica pubblica era elettiva, temporanea e collegiale (ad esempio, il centurione veniva scelto dagli stessi soldati per meriti di guerra) si sostituì una casta di militari di professione, laddove nella Grecia classica ciò non era avvenuto se non con l’invasione macedone. Le esigenze della guerra avevano dimostrato che la durata annuale delle cariche era inadeguata e spesso si ricorse alle proroghe. Non solo, ma si accrebbe enormemente il peso de comandanti militari. In secondo luogo, l’aristocrazia terriera si alleò per necessità ai propri omologhi dei territori conquistati, concedendogli i diritti giuridici romani. In questo modo, i nobili di ogni città divenivano la quinta colonna romana e Roma assimilava di fatto la classe dominante locale.

Questo processo, inevitabile, fu enormemente accelerato dalle guerre puniche. La sconfitta di Cartagine segnò una svolta irreversibile. L’urbe conquistò immense ricchezze, metà del Mediterraneo, con un esercito che era ormai divenuto permanente. La lotta tra Roma e Cartagine fu una lotta tra due sistemi inconciliabili. Ma per quanto i due sistemi fossero incompatibili, rimanevano due sistemi basati sullo sfruttamento. Così quando nel 241-238 a.C. a Cartagine si sviluppò una lotta rivoluzionaria di contadini e schiavi (Polibio la definì: "la guerra più crudele e più selvaggia di tutte le guerre della storia che conosciamo"), Roma e Siracusa, pur nemiche di Cartagine, consegnarono i prigionieri alla città e si rifiutarono di aiutare i ribelli, manifestando una chiara solidarietà di classe che aiutò la spietata repressione.

Ad ogni modo, la sconfitta di Annibale, pose fine alla Roma delle origini.

Espansione e guerre puniche

Ancora nel IV secolo, Roma era una città stato di secondo piano. La terra conquistata fino al momento era andata ai senatori e la plebe viveva malissimo. L’invasione dei Galli (387 a.C.) fu decisiva. Come spesso accade, infatti, la guerra aggrava e rende evidenti le contraddizioni sociali. Ne seguirono rivolte e sommosse che portarono a una totale revisione dei rapporti tra patrizi e plebei (le leggi Licinie, del tutto analoghe alla riforma di Solone). Fra le altre cose, fu vietato a chiunque di avere oltre 500 iugeri di terra pubblica e fu dato molto più peso all’assemblea politica (quella che ad Atene era la bulè). A quest’epoca i contatti tra Roma ed Atene erano trascurabili, dunque abbiamo un classico esempio di come le stesse condizioni oggettive conducano a uno sviluppo delle strutture sociali pressoché identico. Come si è visto, la riforma diede i suoi frutti: legando a sé buona parte della plebe, lo Stato romano ebbe una base sufficiente per aggredire i vicini. In circa un secolo Roma si espanse distruggendo i Sanniti, gli Etruschi, resistendo a Taranto e Pirro, ai Galli. L’enorme espansione del territorio fornì le risorse materiali per mantenere l’accordo tra plebe e senato. Dopo Cartagine, l’aristocrazia romana divenne definitivamente aggressiva. La pace non pagava più. L’economia schiavista era in fase di piena ascesa e i tributi dei popoli vinti necessari. Roma si espanse con la tattica già vista: interveniva nei dissidi interni di un popolo prendendo le parti della fazione nobiliare in crisi e stroncando ogni ribellione.

I territori vinti in battaglia andavano ai nobili (proconsolati) e non all’ager publicus. L’espansione territoriale scavò dunque un fossato tra senatori e plebe. I primi avevano accumulato enormi patrimoni con cui acquistavano terre e schiavi, spesso cacciando i contadini con la violenza. La necessità di giustificare queste brutalità fece sorgere una vera e propria ideologia del profitto, che si riduceva poi al trattare gli schiavi in modo bestiale. Dal canto loro, i contadini italici erano stati uccisi a migliaia durante le guerre (ne erano morti forse addirittura mezzo milione). I terreni lasciati liberi venivano accorpati ai latifondi (a volte, come detto, anche con la violenza). Alla fine, tra una guerra e l’altra, a questo strato non rimaneva che riversarsi in città esercitando una forte pressione politica, ma spesso anche vendendosi al miglior offerente. Senza più nessun rapporto con il processo produttivo, la plebe viveva di sussidi statali e acquisì un interesse diretto all’espansionismo. Così si formò un nuovo contratto sociale tra senato e plebe, che non si incentrava più sui rapporti di produzione ma su un’alleanza politica basata sull’estrazione del pluslavoro dagli schiavi.

Che ormai gli schiavi fossero la base della produzione lo dimostra, ad esempio, il fatto che nel II secolo a.C., a Delo si vendevano circa 10.000 schiavi al giorno, per lo più destinati all’Italia. In un semestre arrivavano in Italia l’equivalente della popolazione totale di schiavi che vi vivevano solo un secolo prima. Peraltro, gli schiavi erano una classe molto disomogenea. I più sfruttati erano quelli delle miniere (in Spagna c’erano miniere con 40.000 schiavi) e dei campi. Per il padrone erano parte dei propri beni mobili e Varrone coniò la famosa definizione di instrumenti genus vocale. Catone, nel suo famoso "manuale", consigliava ogni brutalità possibile (come far lavorare gli schiavi legati uno all’altro; uccidere i vecchi e i malati, frustare crocifiggere i ribelli).

Nel complesso, questa epoca diede le basi per il lungo dominio romano sul Mediterraneo e, si può dire, sul mondo conosciuto. Ci si potrebbe chiedere: c’erano al tempo le risorse per una società capitalista? Non si può negare che alcune precondizioni fossero presenti, in particolare c’era stata un’accumulazione originaria che prendeva una forma "idonea", cioè monetaria, al suo uso propulsivo. Ma mancava l’ingrediente fondamentale. Il lavoro schiavile è intrinsecamente poco produttivo e il profitto che il padrone ne trae si basa per lo più sull’uso di una massa crescente di fattori (nuovi schiavi e nuove terre) e non sull’aumento della produttività del lavoro. Come si è già notato, la società antica non ha un fattore endogeno di sviluppo ma deve ricorrere all’espansione allargata e per questo si può formulare per essa una teoria del crollo. Finché i nobili trovavano nuove terre e nuovi schiavi la società si sviluppava. Non appena il costo della conquista superò i vantaggi, subentrò una crisi, peraltro assai protratta.

E' interessante notare come, al solito, l’ideologia rimanga indietro rispetto allo sviluppo della società. Il paternalismo senatoriale funzionava in un villaggio di contadini ma non serviva a molto in un impero. In realtà, la Roma potenza di prim’ordine non era tenuta assieme da un’ideologia o da una religione (che invece assorbiva dall’esterno). Solo la disorganizzazione degli schiavi e la potenza delle armate romane hanno tenuto assieme per alcuni secoli la vastità delle colonie.

Ad ogni modo, in circa un secolo e mezzo la potenza romana aveva preso il Mediterraneo. Nello stesso periodo la ricchezza fondiaria si era enormemente concentrata nelle mani dei senatori, mentre all’altro estremo sociale si era creata una classe di sottoproletari mantenuti dallo Stato, ingrossata dai coltivatori rovinati dalle importazioni. Gli schiavi crescevano e si moltiplicavano con le guerre e i debiti. Per questo, i due secoli finali della repubblica furono anche un periodo di tumultuosa crescita della lotta di classe. Gli schiavi concentrati in Italia erano ormai una quantità enorme, soprattutto in Sicilia. Così le rivolte degli schiavi vi fiorirono. Ma sebbene a volte gli schiavi avessero la meglio sotto il profilo militare (a un certo punto in Sicilia i rivoltosi contavano su 200.000 uomini), dopo aver "liberato" una zona non avevano nulla con cui sostituire lo schiavismo. Così, si davano al brigantaggio, cercavano di tornarsene a casa o costituivano piccole città Stato simili alla Roma delle origini. In alcuni di questi movimenti vi fu anche la partecipazione, di solito sporadica, di strati di popolazione libera. Tuttavia, in generale gli enormi problemi etnici e sociali rendevano difficile la saldatura delle forze tra piccoli contadini e schiavi, oggettivamente su due fronti diversi.

Anche se la classe dominante era d’accordo sulla necessità di schiacciare i ribelli, molti circoli della capitale capivano che ci voleva una riforma. Il movimento dei Gracchi fu proprio questo. La famiglia dei Gracchi, di antica e nobile origine, si mise alla testa del movimento riformatore che ben presto si spinse ben più lontano di quanto avrebbero voluto. La lotta contro la fazione dominante del senato da parlamentare si fece ben presto illegale e rivoluzionaria. Per circa cinque anni (125-120 a.c.) il senato venne esautorato e Caio Gracco, come tribuno della plebe, esercitò il potere democratico con cui portò avanti delle riforme che anche nel periodo della reazione non vennero seriamente intaccate. Ma si trattò del canto del cigno della vecchia repubblica. La Roma dei contadini indipendenti era finita. La conseguenza più importante del conflitto tra i Gracchi e il senato fu il crescere del peso dell’esercito. La società romana era sempre più chiusa in una serie di equilibri precari che nessuno poteva risolvere in un senso o nell’altro. I Gracchi provarono a tornare alla Roma antica e ovviamente fallirono. Ormai Roma era una potenza schiavista. I condottieri, a partire da Mario, cominciarono a reclutare le truppe su base volontaria. Da braccio armato dei piccoli agricoltori l’esercito diveniva la guardia personale del condottiero, da cui si aspettava il bottino, ma a cui garantiva lealtà anche contro la stessa Roma. Anche per questo le cariche erano ormai quasi vitalizie. D’altronde, le diverse fazioni non potevano ormai più comporre pacificamente i loro dissidi, come dimostravano le selvagge scene di violenza durante le elezioni. Così le lotte tra i capi militari sostituirono i ‘partiti’ dei tempi dei Gracchi e il senato. In questa lunga guerra civile, più ancora delle opinioni politiche contarono gli strumenti di cui i dirigenti si servirono. Mario, Silla, Pompeo, Cesare, pur su posizioni diverse si servirono dell’esercito per conquistare e mantenere il potere. L’esito era inevitabile. Il "cesarismo", ovvero il bonapartismo schiavile, era ormai solo questione di tempo.

Cominciò Silla, che arrivò addirittura a marciare sulla città, penetrandovi come un nemico, per restaurare il potere del senato eliminando l’iniziativa legislativa dei tribuni. Silla fece un deserto sia delle zone ribelli, come il Sannio, sia di Roma, con le liste di proscrizione. Egli fu di fatto il primo imperatore, solo non a vita: si ritirò volontariamente nel ‘79. Ma nonostante la spaventosa repressione, Silla non riuscì a consolidare la struttura del regime. Si assistette alla ribellione di Sertorio in Spagna, che unendo gli schiavi alle tribù locali e al movimento democratico romano liberò la Spagna e la resse con giustizia ed equità. Ma il culmine della crisi venne con la rivolta di Spartaco, che riuscì a sconfiggere l’esercito romano. A un certo punto, intere regioni italiane erano fuori dal controllo romano e innumerevoli schiavi si unirono alla rivolta. Ma anche qui si vide che il dramma delle rivolte schiavili antiche: la mancanza di un’alternativa sociale. Alla fine, come sempre, la rivolta venne annegata nel sangue. I romani perdettero decine di migliaia di schiavi e molte zone dell’Italia erano state devastate. Questo diede un ulteriore impulso all’espansionismo.

Lo si vide con la campagna in Gallia. In dieci anni Cesare conquistò l’attuale Francia uccidendo un milione di uomini e facendone prigionieri altrettanti.

La storia di Cesare è esemplare di come le tendenze soggettive contino assai meno degli sviluppi storici obiettivi. Cesare era un democratico e usò il suo potere per indebolire i privilegi del senato, concedendo riforme popolari. Ma con che cosa poteva essere sostituito il potere del senato? Con i vecchi comizi curiati gentilizi? Si trattava di strutture buone per un paesino tribale, non per un impero. Alla fine, al senato si sostituì una burocrazia permanente e soprattutto l’esercito dei condottieri. Sebbene Cesare fosse un democratico e godesse di forti simpatie tra la plebe, il suo potere si basava sull’esercito, non sulla popolazione romana. La sua azione politica accelerò nei fatti la fine della vecchia Roma. La repubblica schiavista aveva fatto il suo tempo, le classi che ne formavano il nerbo erano scomparse.

La crisi della repubblica

Lo scoppio di conflitti aperti era ora solo questione di tempo. Questi conflitti avevano diversi piani. Da una parte c’erano rivolte schiavili; dall’altro sommosse cittadine; infine lotte tra frazioni della nobiltà che, appoggiandosi a questo o quello strato, cercavano di avvantaggiarsi della crisi. A tutto ciò si aggiunse la lotta delle colonie contro il dominio romano e l’intrecciarsi di tutto questo. Iniziamo con gli schiavi.

Le rivolte degli schiavi giunsero inattese per la società romana. Le prime ebbero luogo in Italia (in Sicilia nel 135-132). Poi si svilupparono nelle colonie con connotati anche di liberazione nazionale (rivolta di Aristonico in Asia Minore, ecc.); infine in Italia si ebbero le più vaste con la seconda guerra civile siciliana e Spartaco.

Per le ragioni spiegate, per quanto eroiche fossero queste rivolte, il loro destino era segnato. L’enorme pericolo rappresentato da queste rivolte spinsero a concedere talune riforme (gli schiavi furono trattati più umanamente, la cittadinanza romana fu estesa a tutti gli italici) accompagnate comunque da una spietata repressione (che fu la base per la nascita delle religioni di tipo cristiano).

Questi aspri conflitti posero lo Stato romano in una crisi perenne. La situazione fu presa in mano, come era inevitabile, dai dirigenti militari. Qualunque fosse la loro fede politica, i capi militari furono un veicolo obiettivo di bonapartismo. Per secoli, la repubblica era riuscita a far fronte ai propri problemi esportandoli e dunque insieme, rinviandoli ed approfondendoli. A un tratto ciò non fu più possibile.

Nasce così l’impero, ideologicamente innestato nel corpus dei costumi repubblicani. Augusto attuò un programma di rafforzamento dello schiavismo: sottomise i liberti e rese molto più difficile liberare gli schiavi, epurò il senato e l’apparato statale per renderlo consono al nuovo potere. Questo nuovo potere si reggeva su un esercito che aveva ormai 300.000 effettivi permanenti.

L’impero, quando Vespasiano ampliò gli strati dominanti con elementi extraitalici, divenne l’organo del dominio di classe di tutti gli schiavisti del Mediterraneo. Il suo compito era sottomettere schiavi e colonie assicurando un afflusso continuo di risorse al centro. Per questo la politica imperiale era spietata verso chi si ribellava. Nelle guerre contro gli ebrei, i romani uccisero quasi 600.000 uomini, disperdendo gli altri.

Ma la ferocia delle legioni non poteva supplire al fatto che il lavoro degli schiavi rendeva sempre meno. Per questo nei meandri della società schiavile, nei latifondi ormai rovinati, cominciarono a sorgere nuove forme di produzione (l’economia coloniale frazionata). Ad ogni modo, il costo irrisorio del lavoro, che per giunta non ricadeva sul singolo aristocratico ma sullo Stato stesso, impediva ogni avanzamento tecnologico. Di fatto, le tecniche della coltivazione della terra rimasero immutate per secoli. Gli aristocratici potevano rimediare alla scarsa produttività semplicemente ampliando le proprie terre. Addirittura ci fu uno sforzo cosciente in questo senso; Vespasiano e altri vietarono la diffusione di innovazioni perché avrebbero distrutto occupazione quando, ancora circa il 90% della popolazione viveva in campagna. Così, non potendosi aumentare la produttività (il plusprodotto relativo), l’unico modo per accrescere la ricchezza era accrescere l’estensione dei propri terreni. Questo apriva la strada a continue lotte tra nobili. Per esempio, Nerone fece condannare sei proprietari terrieri così da incamerare le loro terre che comprendevano circa metà dell’Africa romana. La cultura e l’ideologia del tempo riflettevano la lenta decadenza. Cinismo, disillusione, mancanza di ogni ferma convinzione sostituivano le scuole filosofiche del passato.

Nel tardo impero gli schiavi costituivano circa due terzi della popolazione, ma poiché venivano liberati in massa, occorreva un loro approvvigionamento altrettanto massiccio. Quando la prospettiva di essere liberati si ridusse, si svilupparono rivolte. Queste, assieme alla bassa produttività della formazione schiavile fece sì che questa fosse sostituita in modo crescente dal colonato. Giuridicamente era una forma ibrida perché si trattava di non schiavi che però avevano obblighi verso il padrone. Il latifondo non veniva frazionato perennemente ma solo affittato, come era una volta per l’ager publicus. Ad ogni modo gli schiavi, sconfitti militarmente e con un effettivo miglioramento delle proprie condizioni, non si ribellarono più su larga scala. Dovettero ripiegare sulla liberazione celeste, avendo perso la battaglia per la liberazione reale. Le rivolte di massa dei provinciali costituivano invece un grave pericolo.

La crisi dell’impero

Si può dire che l’impero romano sviluppò nei modi visti la società schiavile più classica mai vista al mondo. Uno stato enormemente complesso risucchiava risorse a interi continenti. Ma anche se durò secoli, l’impero fu comunque una forma transitoria di società. In questo senso ha una certa somiglianza con lo stalinismo. La vittoria nella seconda guerra mondiale nascose il suo carattere di degenerazione storica per alcuni decenni. Ma alla fine arrivò il redde rationem. Il peso dell’impero era intollerabile per una società che non aveva modo di aumentare le forze produttive.

D’altra parte questa stagnazione non consentiva nemmeno l’aumento puramente estensivo delle risorse perché l’esercito doveva difendere un confine lungo decine di migliaia di chilometri. Alla fine, come sempre succede, la crisi scoppiò improvvisa con l’arrivo dei barbari, ma i segni del declino erano evidenti, a partire da un totale vuoto morale e ideologico in cui si inserirono facilmente le diverse forme di culti orfici, soprattutto il cristianesimo. Seppure questa fu all’inizio una ideologia rivoluzionaria, non essendoci le condizioni sociali per una rivoluzione, divenne presto il sostegno principale dello Stato schiavile (un po’ come successe nel capitalismo con il socialismo riformista). Si avevano crisi e spaccature al vertice della società, il declino delle classi "medie", l’aumento dell’uniformità nello sfruttamento della classe oppressa. Mancava però una teoria che spiegasse cosa fare, e questo a sua volta dipendeva dall’impossibilità oggettiva di creare una società senza classi in questo mondo. Non a caso si diffondevano dottrine che predicavano società senza classi in un mondo fantastico. L’impossibilità di vincere ovviamente non impedì comunque le rivolte. Basti pensare agli ebrei (non solo gli Esseni) e alle rivolte sotto Comodo per la mancanza di grano.

La società tardoromana

Se il modo di produzione non riesce a sviluppare la produttività del lavoro, per sopravvivere deve ricorrere a risorse esterne. Questo implica la sua espansione territoriale e l’incontro con altre civiltà. Il modo di produzione schiavile era talmente improduttivo che nella sua forma più sviluppata, Roma, si combinava con un mondo in gran parte ancora dominato da rapporti asiatici o gentilizi. Esso non aveva un motore di sviluppo propriamente endogeno. Sopravviveva "luxemburghianamente" con l’espansione territoriale. Non appena finirono le terre da conquistare, iniziò il suo lungo declino.

La parabola della società romana era già in fase discendente alla nascita dell’impero. Le province si allontanavano, il trucco di integrare i barbari nell’esercito non funzionava più. Per tutti, l’impero era un orribile peso senza nessun senso se non permettere alla cricca imperiale di vivere nel lusso più sfrenato. Ogni città si rifugiava nei suoi campi accelerando le spinte centrifughe. In ultima analisi l’impero si reggeva sull’esercito. Fu solo questione di tempo perché l’esercito subisse sconfitte decisive contro gli Unni e i Goti. Che la burocrazia imperiale fosse del tutto dominata dall’esercito lo si vedeva nella nomina dell’imperatore che era semplicemente un generale, spesso profondamente ignorante di materie amministrative, a volte analfabeta, ma con un certo seguito nella truppa. Lo sbandamento sociale si rifletteva nello sbandamento ideologico: la classe dominante non aveva assolutamente una visione omogenea delle cose, c’erano così pagani, cristiani divisi in cento sette, agnostici.

Ma questo frazionamento aveva una base oggettiva: non c’era nessuna possibilità di salvare l’impero d’occidente dalla rovina. L’impero soffocava a tal punto la società che parti crescenti delle province preferivano vivere sotto i barbari. Le zone di confine dell’impero erano di fatto una fusione tra diverse popolazioni barbare, ormai stanziali, con altre nomadi. Per questo, quando si sviluppò la crisi, alle tribù di Goti, di Vandali, che puntavano verso Roma non fu difficile passare, poiché la popolazione li considerava dei liberatori. E così il cerchio si chiuse e i barbari spazzarono via le rovine della società schiavile senza però portare nulla in cambio. Ne nacque l’economia basata sui contadini coloni, la diffusione dei monasteri autosufficienti ecc., in definitiva, nella splendida definizione di Marx, il declino delle parti in lotta. Così si concluse la parabola della società antica.


Bibliografia

AA VV, L’epopea di Gilgamesh, (1986)
Alfoldy G., Storia sociale dell’antica Roma, (1986)
Brizzi G., Il guerriero, l’oplita, il legionario, (2002)
Brooks M., Historical Materialism, (1989)
Carandini A., L’anatomia della scimmia, (1979)
Codino F. (a cura di), L’origine dello stato nella Grecia classica, (1986)
Diamond J, Armi, acciaio e malattie, (1997)
Duverger C., Il fiore letale. Il sacrificio nella civiltà azteca, (1979)
Engels F., L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, (1882)
Elif Çagli, In the light of Marxism, (2001)
Hindess B., Hirst P., Precapitalist Modes of Production, (1975)
Luxemburg R., L’accumulazione del capitale, (1912)
Kovaliov , Storia di Roma, (1948)
Krader L., The Asiatic Mode of Production, (1975)
Mandel E., La formazione del pensiero economico di Marx, (1967)
Marx K., Forme che precedono la produzione capitalistica, (1857)
Marx K., Per la critica dell’economia politica, (1859)
Marx K., Lettere a Kugelmann, (1880)
Marx K., Engels F., Carteggio, (1845-1883)
O’Leary B., The Asiatic Mode of Production, (1989)
Sawer M., Marxism and the Question of the Asiatic Mode of Production, (1977)
Sofri G., Il modo di produzione asiatico, (1969)
Terray, Il marxismo e le società primitive, (1971)
Tokei F., Essays on the Asiatic Mode of Production, (1979)
Torelli M., Storia degli Etruschi, (2000)
Woods A., Civilization, Barbarism and the Marxist View of History, (2002)

Per ulteriori informazioni sui contenuti di questo testo potete contattare csepel
Il suo sito è qui: xepel
Introduzione
1. L’umanità prima del modo di produzione asiatico
2. Il modo di produzione asiatico. Storia e caratteristiche essenziali
3. L’origine dello stato nella Grecia classica
Interpretazioni storiche

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia
 - Stampa pagina
Aggiornamento: 11/09/2014