STORIA DEL PANE A
RAVENNA
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IL PANE IN ROMAGNA Scrive Libero Ercolani che in Romagna fin dalla prima infanzia il bimbo veniva educato a rispettare il pane. Non bisognava lasciare cadere per terra nemmeno una briciola perché dopo la morte ognuno tornava con un cesto sfondo a raccattarle una per una.
La farina poi si metteva in una apposita madietta, la "matrena", in mezzo a cui si scavava una piccola buca dove si metteva il lievito, "e furment", disciolto bene in in acqua tiepida e sale, poi veniva ricoperto, con la farina fino a farne un piccolo cumulo, sul quale la donna tracciava una croce dicendo: "Cress pan che Dì' ut e cmanda" ("cresci pane che Dio te lo comanda"). Lavoro questo che non poteva essere fatto da una donna con le mestruazioni perché in tal caso la pasta non sarebbe lievitata bene. La mattina dopo, di buon'ora, l'impasto veniva posto sul tagliere per essere ben dimenato e impastato.
Aveva poi cura di trattenere un pezzo di impasto con cui formava una pagnottella rotonda su cui segnava una croce e che doveva servire da fondo per la prossima panificazione. Il pane così fatto doveva lievitare ed in caso di freddo intenso si poneva accanto al focolare, a volte addirittura nel letto tra le lenzuola riscaldate dal "prete". Un tempo il raccolto del grano era assai scarso nelle nostre campagne: 8-15 q. per ettaro, forse per l'uso di sementi non selezionate o per l'aratura non profonda e la mancanza di una buona concimazione. Nei primi anni di questo secolo il pane, specie in campagna, non era mai di farina ben setacciata, ma mista a "e runzol", il cruschello, e spesso si ricorreva perfino a farine di grano misto con quella di granoturco: la "farena d'amstura".
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