SCOPERTA E CONQUISTA DELL'AMERICA

Dall'avventura di Colombo alla nascita del colonialismo


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L'OCCASIONE PERDUTA DI COLOMBO

Cristoforo Colombo ritratto da Pedro Berruguete
Cristoforo Colombo ritratto da Pedro Berruguete

Il 15 febbraio 1493, Cristoforo Colombo, dal Mar delle Azzorre, scrisse una lettera al cancelliere dei Re Cattolici di Spagna, Luis de Santángel, che l’aveva aiutato a trovare i finanziamenti per il suo primo viaggio oltreoceano (una copia di questa lettera venne spedita a Gabriel Sanchez, tesoriere della corte aragonese, anch’egli sostenitore del viaggio).

Luis de Santángel, il cui casato da generazioni era legato ai sovrani d’Aragona, era un converso d’origine ebraica, salvatosi dall’Inquisizione solo perché protetto da re Ferdinando. Fu proprio lui che suggerì a Isabella di Castiglia, già moglie di Ferdinando, di vincolare il compenso, dovuto a Colombo, al successo dell’impresa. Isabella accettò in prestito la somma raccolta dal banchiere Santángel, impegnando ai rischi per quel primo viaggio solo il suo regno di Castiglia, senza coinvolgere il marito e la sua Aragona, più interessati alla politica mediterranea (sebbene siano stati entrambi i sovrani a rilasciare a Colombo l’autorizzazione scritta a partire per le Indie, senza la quale Colombo e il suo equipaggio sarebbero stati facilmente sopraffatti dai portoghesi).

I finanziamenti - come sappiamo - non provennero solo dalle casse reali (in misura peraltro assai modesta), ma anche da mercanti e banchieri genovesi e fiorentini, dagli abitanti di Palos, che, condannati per un fatto di pirateria o di contrabbando, furono costretti a fornire due delle tre navi, e infine dallo stesso Colombo, che dovette provvedere per circa 1/3 delle spese al noleggio della terza nave, ai salari dell’equipaggio, al costo delle vettovaglie e ad altre cose ancora.

La lettera servì appunto per rassicurare il suo «sponsor» più influente, con dovizia di particolari e di buone promesse, che il viaggio aveva avuto un felice esito e che i prossimi sarebbero stati migliori.

Colombo la scrisse con la falsa dicitura: «All’altezza delle isole Canarie», per non rivelare ai portoghesi (padroni delle Azzorre, mentre gli spagnoli avevano occupato le Canarie nel 1402) la sua rotta di ritorno dal Nuovo Mondo, che poi per quattro secoli resterà immutata. Non dobbiamo infatti dimenticare che poche settimane prima d’essere accolto a Barcellona, con grandi onori, dai re spagnoli, quello portoghese, Giovanni II, aveva avuto intenzione di rivendicare come proprie le terre scoperte da Colombo, e solo il timore della forza del nuovo regno spagnolo lo persuase a desistere.

Spedita da Lisbona il 4 marzo 1493, ove Colombo era riparato in seguito a numerose tempeste, la lettera servì per annunciare ai sovrani spagnoli il suo ritorno vittorioso. È un documento molto interessante, poiché racchiude, in modo sintetico, le principali concezioni di vita del suo autore, le linee fondamentali della mentalità euroccidentale del suo tempo, i presupposti basilari di quelli che sarebbero stati i rapporti coloniali dell’emergente eurocapitalismo col cosiddetto «Nuovo Mondo». Se vogliamo, vi sono anche i primissimi elementi di quelle scienze, come l’antropologia e l’etnologia, che si costituiranno, abbandonando l’etnocentrismo europeo, verso la fine dell’800.

L’importanza di tale lettera venne capita subito: stampata alla fine dell’aprile 1493 a Barcellona, sarà tradotta in latino, italiano e tedesco, conoscendo una vasta diffusione in tutta Europa.

Lo scopo del primo viaggio

Fra gli scopi della missione non appare nella lettera quello d’incontrare il Gran Khan: Colombo lo dà semplicemente per scontato e ne parlerà in altri documenti. Ad es. nel Giornale di bordo scriverà: a partire dal Milione di Marco Polo «è da lungo tempo che l’imperatore del Cataio [Cina] ha chiesto di poter avere dei sapienti che lo istruiscano nella fede di Cristo». Colombo dunque nei confronti del Gran Khan era mosso da due forti esigenze: quella del «gran commercio», per usare un’espressione della lettera in oggetto, e quella della predicazione del cristianesimo.

Colombo, in effetti, non era solo un abile mercante di origine genovese, ma anche un uomo di fede; anzi egli si considerava un «eletto di Dio» incaricato di una «missione speciale»: quella di aprire un fronte comune mongolo-cristiano contro l’Islam, che avrebbe preparato il terreno per una nuova crociata a Gerusalemme, al fine di liberare il Santo Sepolcro e ricostituire la cristianità mondiale. Consapevole di vivere in un periodo storico in cui l’ideale della fede, di per sé, non avrebbe potuto muovere nessuno verso la Terra Santa, egli era altresì persuaso che, acquisendo importanti giacimenti auriferi nelle colonie, si sarebbe potuto costituire un potente esercito crociato.1

È difficile credere che Colombo fosse davvero convinto di un’idea del genere: forse voleva soltanto «stuzzicare l’appetito» al papato e soprattutto ai sovrani spagnoli, che avevano appena concluso una vittoriosa «guerra santa» al proprio interno e che quindi erano attrezzati per proseguirla in politica estera. Certo è che una cristianità mondiale sotto l’egida del papato, già abbondantemente rifiutata dai bizantini di religione ortodossa, difficilmente avrebbe potuto essere tollerata dalle forze laico-nazionaliste e assolutiste d’Europa (in Italia «rinascimentali») e tanto meno verrà accettata, di lì a poco, dal mondo protestante.

Nondimeno Colombo credette nella possibilità di una «megacrociata» sino alla fine dei suoi giorni; anzi, col passare degli anni, quanto più i moventi economici del viaggio e della conquista verranno frustrati da circostanze avverse, tanto più aumenteranno in lui, in un crescendo parossistico, le preoccupazioni di carattere mistico-allegorico, riscontrabili nell’esegesi biblica del Libro delle profezie, ma anche nelle deliranti profezie della suddetta Lettera rarissima.

Un altro motivo del viaggio era, come si è detto, quello di commerciare con le Indie2 e addirittura di occupare quanti più territori possibili, esattamente come da diversi decenni facevano i portoghesi a danno di arabi, asiatici e africani.

Infine non vanno sottaciuti i grandi vantaggi personali che Colombo avrebbe ottenuto se l’impresa fosse riuscita. Nei Capitolati di Santa Fe, firmati da entrambi i sovrani, Colombo chiedeva come compenso cose che mai nessun navigatore di quei tempi era riuscito a ottenere: il titolo di ammiraglio per tutti i territori conquistati (equivalente al titolo di grande ammiraglio di Castiglia); i titoli di vicerè e di governatore, con relativi stipendi, per tutte le terre colonizzate; la decima parte di ogni transazione commerciale che avvenisse entro i confini del suo vicereame; il titolo di giudice esclusivo di tutte le controversie commerciali tra Spagna e nuovi territori; il diritto di trasmettere questi privilegi al figlio primogenito.

Scoprire o conquistare?

Le armi messe a disposizione dai Re Cattolici per le tre caravelle erano scarse e di tipo convenzionale: bombarde, falconetti, balestre e armi da taglio, che dovevano servire per difendersi in caso di attacco, certo non per occupare uno Stato. Al massimo, seguendo l’esempio dei portoghesi nell’Africa sud-equatoriale, si potevano occupare territori privi di una forte organizzazione. In ogni caso la corona spagnola avrebbe saputo servirsi di eventuali «incidenti» come pretesto per inviare in un secondo momento forze ben più imponenti. Come poi, in effetti, farà. Dunque l’intenzione di questi naviganti e dei loro finanziatori, se non era quella di dichiarare guerra a qualche potenza straniera, era però necessariamente bellicosa, oltre che commerciale, non foss’altro perché solo così essi avrebbero potuto contrastare i grandi successi dei portoghesi.

Infatti, Colombo fa subito notare, nella lettera, che i finanziamenti ricevuti dalla corona avevano sortito l’effetto sperato: «moltissime isole popolate da gente innumerevole» sono state occupate, «con bando e bandiera reale spiegata», cioè con tutti i crismi e secondo il diritto vigente (in Europa), servendosi del notaio di tutta la flotta, Rodrigo d’Escovedo. E questo - sottolinea Colombo - «senza trovare resistenza»: il che sta a significare che la facilità della conquista doveva rassicurare i sovrani sul buon esito dei futuri finanziamenti per imprese analoghe.

Già si è detto che Colombo, in quanto cattolico, era un uomo medievale, con preoccupazioni anacronistiche per il suo tempo, comprensibili solo nell’arretrata Spagna; in quanto mercante invece egli era sicuramente più vicino agli ambienti liguri da cui proveniva o a quelli portoghesi che per molto tempo aveva frequentato. Di qui l’estrema contraddittorietà delle sue posizioni.

Il primo impatto

Il suo atteggiamento «imperialistico», che è di derivazione tardo-feudale (vedasi la «Riconquista» spagnola) e che verrà ereditato e anzi approfondito dal capitalismo emergente, a partire appunto dalla sua «scoperta», è ben visibile anche laddove egli, pur sapendo che le isole posseggono il nome attribuito loro dagli «indiani» (popolazioni che non avevano mai avuto alcun contenzioso con gli europei), decide ugualmente di ribattezzarle coi nomi della tradizione ispanico-cristiana: San Salvatore, Fernandina, Giovanna, Isabella ecc.

Colombo giustifica il proprio atteggiamento col precisare che la gente incontrata non si lasciava «incontrare», in quanto «fuggiva dalla paura». Non c’è qui la pedagogia di chi, per poter incontrare una popolazione, lontana dagli usi e costumi euroccidentali, si mette al suo livello e cerca di avvicinarla lentamente, progressivamente, al fine di capirla. C’è invece l’astuzia di chi sfrutta la paura altrui come una buona occasione per imporsi. Colombo, abituato a ragionare in termini di rapporti di forza, timoroso che la «tierra» tanto agognata possa essergli sottratta dal rivale Portogallo, ha scoperto l’America - ha scritto Todorov - non gli americani.

Il popolo che per primo Colombo incontrò erano i Lucayo, un sottogruppo Arawak di circa 30.000 persone che abitava le Bahamas e viveva di pesca e di un’agricoltura primitiva, in piccoli villaggi indipendenti di non più di 15 capanne (la divisione in classi era inesistente). Commerciavano coi loro vicini cotone, pappagalli e foglie di tabacco. Gli Arawak erano una popolazione di lingua e di origine amazzonica. Colombo, in una lettera del 25 dicembre 1492 ne parla così: «È un popolo affettuoso, privo di avidità e duttile, e assicuro le Vostre Altezze che al mondo non c’è gente o terra migliore di queste. Amano il prossimo come se stessi e hanno le voci più dolci e delicate del mondo, e sono sempre sorridenti... nei contatti con gli altri hanno ottimi costumi».

Per poter avvicinare gli «indiani», egli è costretto a «catturarne» alcuni, obbligandoli a imparare lo spagnolo o comunque a comunicare e a fare da interpreti per tutti gli altri indios. Colombo si sente autorizzato a comportarsi così anche perché non scorgeva fra quelle popolazioni «nessun indizio di ordinamento politico». L’assenza di istituzioni lo giudica come un segno sicuro di arretratezza.

Colombo cerca nel «Nuovo Mondo» ciò che assomiglia all’Europa. Non trovando alcun «ordinamento politico», egli ritiene legittimo conquistare ciò che gli appare non difendibile da alcun proprietario in particolare, perché appunto non rivendicato giuridicamente come «proprio». L’assenza di istituzioni gli pare un motivo sufficiente per impadronirsi legalmente della terra e delle risorse altrui. Qui Colombo ha in mente i principî feudali e borghesi della proprietà privata, la cui tutela dipende dalle istituzioni civili, oltre che naturalmente dai proprietari «legali» o «ufficiali»: non può neanche immaginare che «assenza di istituzioni» e «proprietà comune» si identificano. La proprietà collettiva è, per lui, senza proprietario, ed essendo non protetta dalle istituzioni, può essere soggetta in qualunque momento a esproprio, secondo la legge del più forte.

Colombo è così condizionato dalla mentalità dominante (feudale in Spagna, sempre più borghese nel resto d’Europa), che persino quando descrive l’ambiente naturale di Haiti (che per lui era il Catai), parla di «usignoli» là dove non sono mai esistiti; e identifica il mondo degli indios con la mitica età dell’oro (Eldorado), secondo i sogni arcadici del Sannazaro e dello spagnolo Juan de la Encina. Per lui «quasi tutti i fiumi trascinano oro» e vi sono «spezie in abbondanza e grandi miniere d’oro e di altri metalli».

Michele da Cuneo, che fece con Colombo il secondo viaggio, racconta nel suo reportage, che le sabbie piene d’oro dei fiumi erano solo nella fantasia di Colombo e dei suoi uomini. Di fatto, egli ne troverà pochissimo, peraltro già lavorato dagli indigeni (delle foglioline, una maschera...). Lo stesso capitano della Pinta, Martin A. Pinzòn, si staccò dal convoglio per scoprire nuove terre e impossessarsi dell’oro, senza però riuscirvi.

Tuttavia Colombo cercava di vendere fumo anche per garantirsi ulteriori finanziamenti per le future missioni, e forse anche perché, psicologicamente parlando, gli sembrava impossibile che in territori così ricchi di vegetazione non vi fossero importanti materie prime come l’oro e l’argento, la cui scoperta gli pareva imminente. Ancora non gli era balenata l’idea di schiavizzare quelle popolazioni per sfruttarne le risorse, o a titolo per così dire di «risarcimento» per non aver trovato ciò che cercava. Durante il primo viaggio, dopo aver costatato la sobrietà e la semplicità di costumi degli indios, l’unica sua preoccupazione era quella di come dimostrare che occorrevano i finanziamenti per organizzare un secondo viaggio: sia per la ricerca dei giacimenti, che per l’estrazione dei minerali e il loro trasporto in Spagna.

Innocenza e paura

Il tipo di rapporto che Colombo riesce a stabilire con gli indios è alquanto superficiale, basato sulle mere impressioni. Non c’è una vera spiegazione del fenomeno osservato, sulla base delle testimonianze e dei racconti degli stessi Lucayo e di altri gruppi indigeni, ma solo una sua descrizione sommaria, determinata dall’interesse contingente, che però pretende d’essere obiettiva, perché fatta da un osservatore che si sente infinitamente superiore al soggetto incontrato.

E così, la nudità fisica di uomini e donne è la prima cosa ch’egli nota, e gli pare del tutto anomala, segno di povertà, di semplicità e primitivismo (non però di lussuria); l’assenza delle armi viene attribuita alla «paura»; l’estrema generosità con cui offrono quello che hanno alla sprovvedutezza.

In particolare, Colombo scoprì il contrario di quanto s’andava predicando nella Spagna del suo tempo, e cioè che il corpo fosse fonte di peccato. È vero che nell’Italia rinascimentale si era verificata una riscoperta del nudo greco-romano, ma solo nel campo artistico, come tentativo di recuperare a livello intellettuale ciò che sul piano della società civile non era più possibile vivere in maniera naturale. Lo dimostra il fatto che proprio nel Cinquecento vi sono delle descrizioni colme di pregiudizi riguardanti la nudità e la sessualità degli indigeni.

Relativamente all’assenza di armi presso i Lucayo, Colombo afferma che ciò dipende dalla paura. Questo però gli appare in contraddizione con la loro robustezza fisica e alta statura (superiori, in questo, agli spagnoli. Da notare che i Lucayo non mangiavano carne di animale, a parte quella dei pesci). Colombo non riesce a comprendere che la paura dell’indio è paragonabile a quella di un bambino disarmato nei confronti di un adulto minaccioso e armato fino ai denti. Egli stesso dirà, più avanti nella lettera, che appena giunse a Guanahanì «catturò con la forza» alcuni indigeni, «perché imparassero la nostra lingua e mi dessero notizia di quanto v’era da quelle parti».

Ancora Colombo scriverà nel Giornale di bordo ch’essi gli fecero capire - quasi a volersi scusare del loro atteggiamento guardingo e sospettoso - «come in quella terra venissero genti da altre isole vicine con l’intenzione di catturarli, per ridurli in schiavitù» (è da presumere fossero gli aztechi). In ogni caso è difficile pensare a un pregiudizio quando furono gli stessi indios a ritenere gli spagnoli «venuti dal cielo». La paura, di fronte a un «dio», non è pusillanimità ma solo timore, non è vigliaccheria ma solo prudenza.

Colombo invece la considerava come un elemento di debolezza che poteva essere facilmente sfruttato da parte di chi è più forte. Così come potrà essere sfruttata, su un altro versante, l’innocenza della nudità per compiere ogni sorta di abuso sessuale (lo stesso Michele da Cuneo ne fu attivo protagonista). Colombo cioè non si rende conto che se gli indios non hanno armi non è per paura di possederle o di usarle, ma perché sono pacifici, per cui non hanno motivo di costruirsele (se non per la pesca). Se l’avesse capito, non si sarebbe meravigliato ch’essi non si servivano delle loro «canne con un bastoncino aguzzo in cima» contro l’equipaggio, neppure contro i due o tre dei suoi uomini mandati «in qualche villaggio per trarre informazioni».

Qui è ben visibile la grande differenza tra la paura «fisica» degli indios e la paura «metafisica» degli spagnoli, cioè tra la paura istintiva, immediata, precauzionale, circoscritta a fatti particolari, e la paura profonda, inconscia, radicata in millenni di storia della proprietà privata. Gli indios hanno paura di nemici esterni senza essere abituati ad averla nei loro rapporti interni; gli spagnoli invece vi sono così abituati, nei loro rapporti interni ed esterni, che solo con le armi credono di poterla vincere. La loro grande paura è quella d’aver fatto un viaggio a vuoto: domani sarà quella di poter perdere ciò per cui si erano tanto sacrificati.

Lo scambio ineguale

Colombo, che si rende conto quanto sia difficile convincere qualcuno dell’occidente europeo a credere che gli indios fuggivano dalla paura senza che gli spagnoli avessero fatto loro alcun torto o minaccia, precisa che, nel tentativo di accattivarsi la loro fiducia, offrì «tutto quanto aveva, come stoffa [per coprirsi?] e molti altri oggetti», cioè a dire: «cocci di scodelle, frammenti di vetri rotti e pezzetti di nastro». Nel Giornale di bordo dirà di aver regalato loro «alcuni berretti rossi e coroncine di vetro che si mettevano al collo e altre cosette diverse, di poco valore», ed anche «perline di vetro e sonagli», ricevendo in cambio «pappagalli, filo di cotone in gomitoli, zagaglie e tante altre cose».

Egli quindi non diede loro «tutto quanto aveva» - questo semmai lo fecero gli indios -, ma soltanto ciò di cui poteva fare tranquillamente a meno: in particolare offrì ciò di cui gli indios non avevano alcun bisogno, al di là delle mere esigenze ornamentali. Da scaltro mercante qual è, Colombo vincola la propria generosità all’interesse e giustifica quella degli indios, di molto superiore, ribadendo la loro povertà! Che poi in altri passi egli affermi d’aver donato loro «mille oggetti graziosi e utili», ciò può essere inteso in due modi: o era aumentato l’interesse, per avere incontrato popolazioni più esigenti, oppure Colombo voleva mostrare le sue buone intenzioni agli occhi dei sovrani spagnoli, che sicuramente avrebbero pubblicizzato la lettera.

Colombo conserva ancora qualche scrupolo medievale quando si rende conto che la generosità del suo equipaggio era più scarsa rispetto a quella incontrata. Obtorto collo è costretto ad ammettere che gli indios, «dopo che si sono rassicurati e hanno deposto questi timori, sono tanto privi di malizia e tanto liberali di quanto posseggono, che non lo può credere chi non l’ha visto». Colombo avrebbe quasi preferito che la paura fosse stata associata all’avarizia, alla cupidigia: l’avrebbe capita meglio, si sarebbe sentito più giustificato nello scambio ineguale. Invece quella inconsueta generosità lo disarma, lo sconcerta: qui ha ragione Todorov quando afferma che Colombo era un uomo del Medioevo. A patto però di considerare i suoi scrupoli di coscienza come tipici di un businessman di religione cattolica, che mentre predica l’unità politica dei cattolici e il valore universale della fede cristiana, sul piano pratico si trova a difendere i principî laici del Rinascimento e del capitalismo mercantile.

Egli infatti ha chiarissima l’idea che il valore di una cosa non sta solo nell’uso o nella bellezza estetica, ma anche e soprattutto nel suo valore monetario, di scambio contro l’oro. Ecco perché quegli indios «tanto amorevoli», ad un certo punto gli appaiono anche come «bestie senza discernimento». In Colombo si consuma la transizione dal basso Medioevo al proto-capitalismo.

La differenza tra lui e la sua ciurma è solo soggettiva, poiché dal punto di vista oggettivo del rapporto coloniale è del tutto irrilevante. Egli infatti si preoccupa di sottolineare che cercò di proibire l’iniquo scambio quando s’avvide che il suo equipaggio voleva giovarsi della semplicità degli indios per rifilare loro una paccottiglia occasionale. I suoi regali invece erano - come lui stesso scrive - «graziosi e utili».

La differenza, come si può notare, stava semplicemente nel fatto che mentre l’incolto marinaio si limitava ad approfittare dell’innocenza-ignorante per realizzare subito un guadagno, il mercante intellettuale invece vuole guardare in prospettiva, in lontananza, e i suoi regali, in questo senso, non possono essere brutti e insignificanti.

In effetti, anche se, quanto a valore, può rimetterci (il che poi non è), il mercante intellettuale deve pensare a cos’altro potrà guadagnare in futuro, in virtù di quel baratto. Lo scopo dei suoi regali è più tattico rispetto a quello della ciurma rozza e incolta, e si pone a quattro livelli: 1) acquistare la fiducia degli indios (aspetto psicologico); 2) pretendere ch’essi diventino «cristiani» (aspetto etico-religioso); 3) pretendere che diventino «sudditi» della corona (aspetto politico-istituzionale); 4) esigere che lavorino come i «servi della gleba» già presenti in Spagna (aspetto socio-economico). Gli indios - afferma testualmente Colombo - dovranno «raccogliere e consegnarci i prodotti di cui abbondano e che ci sono necessari».

Cioè d’ora in avanti gli indios non commerceranno spontaneamente il surplus, ma saranno costretti a fornire quanto occorre agli spagnoli. Colombo, preoccupandosi di non apparire un colonialista (un «portoghese»), precisa, da un lato, che gli indios forniranno i prodotti di cui «abbondano», ma poi, dall’altro, senza accorgersene, fa coincidere il surplus con ciò di cui gli spagnoli necessitano. Il colonialismo, sul piano economico, è già tutto qui sostanziato: specializzazione delle colture indigene sulla base dei prodotti naturali prevalenti, selezionati dalla domanda della madrepatria.

L'ateismo naturalistico

L'altra cosa che colpì l’attenzione di Colombo era l’ateismo naturalistico, spontaneo, di quegli indigeni, in quanto «non professavano credenza né idolatria di sorta». Al massimo essi «stimano che la potenza e il bene stiano nel cielo». Nella loro ingenuità - rileva Colombo - credevano «che io, con queste navi e questa gente, fossi venuto dal cielo».

Perché questa superstizione? Non perché non avessero la scienza, ché, anzi - scrive Colombo -, «sono di ingegno molto sottile, e navigatori esperti di tutti quei mari», tanto che «un nostro battello non tiene loro dietro alla voga» (e questa affermazione la dice lunga sul concetto di progresso e di quello tecnico in particolare); quanto piuttosto perché «non avevano mai visto gente vestita [è da sottintendere: come gli spagnoli], né navigli simili ai nostri».

Col che Colombo ha, senza volerlo, lasciato capire che se nell’ateismo naturalistico di quelle popolazioni vi erano elementi di superstizione che potevano far venire in mente una forma di religiosità primitiva, questa comunque non aveva alcun carattere alienante, poiché da nessuno veniva usata come strumento di potere. Gli indios, alle prese con un fenomeno per loro assolutamente eccezionale, avevano cercato di decodificarlo con le categorie del loro tempo, così come oggi - ma con molte meno giustificazioni - si cerca di spiegare l’origine di certi fenomeni naturali o scientifici, o di certi oggetti cosiddetti «non identificati», appellandosi alla presenza o alla forza degli extraterrestri.

Colombo tuttavia non ha alcuna intenzione di misurarsi alla pari con l’ateismo naturalistico degli indios: anzi, ritiene ch’esso sia il terreno favorevole per indurli a credere nella dottrina cristiana, della quale egli si sente banditore privilegiato. Non solo, ma Colombo cercò persino di servirsi delle loro ingenue superstizioni per affermare un proprio potere. Egli infatti scrive che dopo aver sradicato dai villaggi alcuni indios portandoli con sé in Spagna per apprendere lo spagnolo e diventare interpreti nelle colonie, si accorse che costoro continuavano a credere ch’egli fosse giunto dal cielo. Il motivo di ciò appare poco chiaro. Colombo lascia intendere che la causa stava nella loro ignoranza, ma non sarebbe strano vedere in questo atteggiamento compiacente un modo di sopravvivere al cospetto di un nemico ritenuto più forte.

In ogni caso egli non cerca di dissuadere questi indios, che esaltano la sua vanità, dal mutare atteggiamento, anzi li esorta a propagandare la loro fede magica in tutti i villaggi che incontrano. La tentazione di crearsi, in quelle zone «primitive», un proprio «culto della personalità», era troppo forte per non cedervi volentieri. Nel Giornale di bordo dirà chiaramente che durante i primi tre mesi egli conquistò le isole nel nome del re di Spagna e della fede cattolica e, piantando centinaia di croci, s’impadronì delle terre degli Arawak e dei Carib, aprendo il fuoco dei moschetti e dei cannoni per spaventare quei popoli e far credere d’essere venuto dal cielo.

Con una disinvoltura davvero notevole (ma non dobbiamo dimenticare che nelle colonie «tutto era possibile»), egli stava già saggiando quali enormi vantaggi poteva ottenere tenendo strettamente uniti il profitto borghese e la fede cristiana. Per lui cristianesimo e guadagno non erano in contrasto, né, tanto meno, cristianesimo e schiavizzazione del non-credente. La conversione degli indigeni la dava per scontata in un futuro immediato. Egli era convinto non solo di aver potuto conquistare quei territori per volontà divina, ma anche che di ciò avrebbero tratto vantaggio sia la corona spagnola e la chiesa cattolica (coll’ampliare entrambe i propri imperi), che «tutti i cristiani» desiderosi di emanciparsi economicamente.

Da notare che sotto questo aspetto Colombo appare meno cattolico dei suoi stessi sovrani, nonostante sia convinto d’essere un profeta della parusia del Cristo: egli infatti credeva che il mondo sarebbe finito circa 150 anni dopo la sua impresa nelle Indie, per la realizzazione della quale - egli scrive in una lettera del 1501 indirizzata ai sovrani spagnoli - non gli giovarono «né ragione, né matematica, né mappamondi: si compì semplicemente ciò che aveva detto Isaia». Eppure furono proprio i suoi sovrani a rifiutargli il diritto di vendere gli indiani come schiavi, e la stessa Isabella, nel suo Testamento, che non nomina neanche Colombo, difenderà gli indios.

Ciò naturalmente non ci può impedire di pensare che gli ideali d’uguaglianza del cattolicesimo siano stati usati dai sovrani, in questo frangente, come pretesto per rescindere il contratto firmato coi Capitolati di Santa Fe. È vero infatti che la corona spagnola s’opporrà a più riprese, sul piano giuridico, alla schiavizzazione degli indios, ma è anche vero che sul piano pratico assumerà sempre un atteggiamento condiscendente. Se così non fosse stato, Colombo non avrebbe avuto l’ardire di scrivere che i profitti della sua impresa sarebbero dipesi dallo sfruttamento non solo delle risorse naturali di maggior valore (oro, argento, spezie, cotone, mastice, legno d’aloe, rabarbaro, cannella...), ma anche delle risorse umane, cioè degli schiavi, naturalmente «scelti fra gli idolatri».

Da ultimo va sottolineato il fatto che Colombo, sbarcando in quell’arcipelago nel primo viaggio, era convinto di trovare anche «uomini mostruosi, come molti pensavano» (nel Medioevo e anche nell’Antichità); accettò di credere che in una provincia dell’isola di Giovanna esistessero persone «con la coda», e che nell’isola di Matinino (o Guadalupe) vigesse da sempre un totale matriarcato, e che nell’isola di Quaris tutti fossero cannibali dalla nascita e cinocefali, e che in un’altra isola ancora ogni abitante fosse rigorosamente calvo. Colombo arriverà persino a credere che gli indigeni più «buoni» non erano che i superstiti delle dieci tribù d’Israele e che nella regione dell’Orinoco doveva esserci il Paradiso Terrestre!

In effetti, le «amazzoni» di Matinino si accoppiavano solo in una certa stagione dell’anno e solo con uomini della loro razza (carib). Se nasceva un maschio lo cedevano agli uomini, se femmina la tenevano, addestrandola all’arte della guerra. Ma Colombo non riuscì a comprendere che questo atteggiamento non era affatto dettato da particolari leggi «naturali» delle tribù caribiche: anch’esso, al pari dell’antropofagia, era un modo estremo di sopravvivere in una società che si stava disgregando.

La questione del cannibalismo

A proposito del cannibalismo, va detto che i Lucayo incontrati da Colombo non lo praticavano, né i Taino dell’Hispaniola o Haiti (altro sottogruppo Arawak). Era invece una prerogativa dei Carib, una tribù bellicosa di Haiti, armata di «archi e frecce». Probabilmente - come affermano molti studiosi - il cannibalismo era, in quelle popolazioni, un modo di difendersi per non cadere vittime dei tentativi di schiavizzazione altrui. Era un modo disperato di spaventare un nemico ritenuto più forte, o di vendicarsi su di lui: un nemico che aveva bisogno di schiavi per salvaguardare un sistema diviso in classi o basato sulla proprietà privata, già in fase decadente. Si trattava insomma di un rituale a sfondo guerriero e non anzitutto di una risorsa alimentare, né quindi andava considerato come un fenomeno legato a uno stadio ancora primitivo di un’umanità selvaggia. L’altro modo di farsi valere era - dice Colombo - quello di «compiere scorrerie in tutte le isole dell’India, rubando e depredando».

Anche gli aztechi erano antropofagi, ma per motivi religiosi. I sacrifici umani servivano a un sistema ormai privo di legittimità per tenere ideologicamente sottomessa la popolazione. Di fronte all’insofferenza degli schiavi, i capi politico-religiosi esigevano sangue umano da sacrificare agli dèi, al fine di placarne l’ira. Si voleva cioè far credere che essere vittima sacrificale era un onore, poiché così si garantiva la sopravvivenza a chi restava sulla terra.

Quando Colombo afferma, nel Memoriale, che «tra tutte le isole, quelle dei cannibali sono numerose, grandi e assai popolate», non dobbiamo solo pensare ch’egli lo faccia per ventilare l’ipotesi, ai sovrani spagnoli, di un intervento militare nei prossimi viaggi, ma, indirettamente, dobbiamo anche capire che la proprietà comune delle prime società egualitarie incontrate da Colombo era ormai diventata un’eccezione alla regola, in quanto le civiltà schiaviste mesoamericane stavano allargandosi a macchia d’olio.

La capacità d’intendersi

Colombo non riesce neppure a capacitarsi del fatto che sulla base di un’esperienza comune si possano comprendere così facilmente, nei «costumi» e nella «lingua», popolazioni che vivono praticamente divise le une dalle altre, in quel grande arcipelago che poi si chiamerà delle Bahamas. Nel Memoriale del 30 gennaio 1494, sul suo secondo viaggio, egli scriverà che «siccome le genti di un’isola parlavano poco con quelle di un’altra, vi sono alcune differenze nelle lingue, a seconda che vivano più vicino o più lontano». Ciò tuttavia non farà scattare in lui l’esigenza di conoscere le loro lingue, ma, al contrario, quella di costringere alcuni di loro ad imparare lo spagnolo nella madrepatria.

In ogni caso l’intesa di quelle popolazioni lo stupisce. Egli infatti non può aver dimenticato che nella Spagna da cui proviene lotte ferocissime avevano diviso per secoli gli spagnoli di religione cattolica da quelli di religione islamica. Era difficile comprendersi persino tra persone aventi interessi comuni, come dimostrerà la rivolta haitiana di Francisco Roldàn all’autorità di Colombo.

Questo può spiegare il motivo per cui nella seconda spedizione Colombo permetterà che sei indios vengano arsi vivi semplicemente perché avevano sepolto alcune immagini di Cristo e della Vergine, convinti di poter ottenere un miglior raccolto di mais. Sarà proprio a partire dal secondo viaggio ch’egli comincerà a sterminare alcune tribù che non volevano lavorare il cotone per gli spagnoli. Nel 1495 egli trasferirà a Cadice ben 500 indigeni.

La capacità di difendersi

Non tutte le popolazioni autoctone erano così pacifiche come le descrive Colombo. Il contingente militare di 38 coloni, lasciato a Navedad, cittadina fondata sulla costa di Hispaniola, per difendere le proprietà conquistate col primo sbarco, venne decimato dai «camballi» (cannibali) dell’isola, a causa delle continue razzie d’oro e di donne da parte degli spagnoli. Questo perché già tra la ciurma del primo viaggio vi erano stati molti avventurieri desiderosi d’arricchirsi facilmente.

Colombo aveva capito subito quanto fossero necessari questi avamposti commerciali-militari, ai fini della «resa» colonialistica, ed era convinto che la guarnigione fosse in grado, da sola, di «spopolare tutta quella terra». «Erano tanto vili - scriverà - che in mille non saprebbero attendere tre dei miei uomini a piè fermo».

Quale alternativa?

Altri elementi conoscitivi Colombo non ne possiede con certezza in questo primo viaggio, e d’altronde non aumenteranno di molto nei successivi, dove anzi i rapporti con gli indios si faranno più conflittuali. Qui egli aggiunge che gli sembra che «tutti gli uomini [i Taino?] si accontentino di una sola donna, ma che al loro capo o re ne concedano fino a venti»; gli pare che «le donne lavorino più degli uomini» e che tra loro abbiano «ogni cosa in comune, specialmente in fatto di cibarie». Colombo non era un antropologo o un etnologo, ma un ammiraglio e mercante: le notizie che ci ha dato sono, per quanto approssimate, ugualmente interessanti.

È proprio in virtù di quello che ha scritto che è possibile ipotizzare in quale altro modo egli avrebbe potuto incontrarsi con quegli indigeni «pieni di crudeltà e nemici nostri», così come li definisce nella Lettera rarissima, spedita da quella Giamaica ove sentiva d’essere stato abbandonato.

Tuttavia, l’ipotesi di un’alternativa può essere solo puramente teorica, benché, per essere credibile, debba essere verosimile. Di fatto Colombo e il suo equipaggio ebbero la fortuna d’imbattersi in una popolazione che aveva un’antichissima civiltà comunitaria. Al contatto con quella straordinaria diversità di costumi, di vita, di valori, non sarebbe stato innaturale che, da parte degli europei, si cominciasse a ripensare i propri criteri d’esistenza, superando i condizionamenti delle proprie tradizioni antagonistiche. Non lo faranno forse grandi intellettuali come T. More (Utopia), Erasmo da Rotterdam (Elogio della follia), T. Campanella (Città del sole) e F. Bacon (Nuova Atlantide)?

Ciò naturalmente sarebbe potuto avvenire solo in virtù di un rapporto pacifico e durevole con quelle popolazioni, in un confronto capace di promuovere i valori umani universali. Il che, quando accadrà, sarà patrimonio, purtroppo, solo di alcuni singoli esponenti del mondo ispano-portoghese, giunti in America come colonialisti (si pensi p. es. ai gesuiti presso i Guaranì). Gli europei più consapevoli, come ad es. Gonzalo Guerrero, arrivarono persino a muovere guerra contro i conquistadores. Altri invece s’immedesimarono nello stile di vita di quelle popolazioni (ad es. presso i Tupinambas) più che altro per giustificare il proprio libertinaggio.

In ogni caso, grazie a Colombo, indirettamente, noi abbiamo capito che nella storia del genere umano è stato possibile da parte di molte popolazioni realizzare rapporti pacifici ed egualitari tra uomo e uomo e tra uomo e natura, rapporti basati sulla proprietà comune, sul senso del collettivo, sul rispetto integrale della persona.

Distruggendo le culture pre-colombiane (soprattutto quelle pre-schiavistiche), l’uomo ha distrutto una parte di se stesso, e quindi ha perduto l’occasione di uno sviluppo tecnologico più equilibrato, meno devastante dell’ambiente naturale, ma anche l’occasione di un equilibrio sociale e spirituale che non conduce all’isolamento, all’emarginazione, all’individualismo... È vero, la conquista dell’America ha favorito - come vuole l’ultimo Todorov - la mutua conoscenza del genere umano, l’integrazione di milioni di europei, americani, africani e asiatici in una razza cosmica, universale, anche se a prezzo di uno spaventoso genocidio. Ma è anche vero che un’integrazione senza reciprocità, senza giustizia per tutti i protagonisti, non è che un altro modo di continuare la logica del dominio.


1) Cfr la Lettera rarissima del 7 luglio 1503.

2) Solo nel terzo viaggio Colombo cominciò a ipotizzare l’esistenza di un «otro mundo».


Web Homolaicus

Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Storia - Moderna
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Scoperta e conquista dell'America

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