L'ANTISEMITISMO AD ANCONA

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L'ANTISEMITISMO AD ANCONA

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Antico cimitero ebraico di Ancona, detto campo degli ebrei

Ad Ancona giunsero nuclei di ebrei dalla penisola iberica e dalla Sicilia sin dal 1492. Ad essi si unirono nel 1497 quelli provenienti dal Portogallo, e nel 1510 quelli dal Regno di Napoli, poiché qui gli aragonesi s'erano dati da fare a imitare i sovrani spagnoli. Si unirono a circa 500 ebrei preesistenti, pari al 5% della popolazione.

Papa Paolo III Farnese (1534-49) aveva favorito il loro ingresso nel porto marchigiano dopo l'annessione di questo allo Stato della chiesa nel 1532: sperava, in un certo senso, che gli ebrei favorissero i traffici col Levante, dove gli ebrei sefarditi monopolizzavano l'intero commercio ottomano.

E così, inizialmente, si concessero loro notevoli privilegi: dalla franchigia del porto alla protezione dall'Inquisizione, dalla piena libertà di movimento degli ebrei anconetani (senza l'obbligo di alcun segno di riconoscimento) alla totale libertà di commercio, la cui tassazione era minima. D'altronde buona parte dei commerci dell'intero Stato pontificio passava per le mani degli ebrei.

Non ci volle molto perché il sultano Solimano I decidesse di convogliare l'intero commercio del suo impero verso il porto di Ancona: nel 1554 era cosa fatta. Nella sola città il numero degli ebrei e dei marrani portoghesi era salito ad almeno tremila unità. Era il maggior agglomerato ebraico dell'Italia centrale dopo Roma.

Qualche anno prima, precisamente nel 1549, il Comune aveva permesso loro di aprire un banco per il prestito di denaro a un tasso fisso del 15%, per contrastare gli usurai che pretendevano ben altri interessi e dopo il fallimento del Monte di pietà gestito dai frati Minori dell’Osservanza, un ordine sorto nel 1386, che, distaccandosi da quello principale francescano, s'era specializzato in prediche antiebraiche. Il loro Monte dei pegni al massimo concedeva, previa restituzione del prestito precedente, quanto bastava per una pagnotta di pane o per un panno pesante.

Le cose stavano andando a gonfie vele, non solo per gli ebrei, ma per l'intera cittadinanza: dimenticati erano i tempi in cui nel 1427 il francescano Giacomo della Marca, discepolo fanatico di Bernardino da Siena, aveva cercato di costringerli a portare sugli abiti il simbolo ebraico e di restringere il luogo dove farli vivere a una sola strada. Dimenticate anche le falsissime accuse di "omicidio rituale" (di bambini cristiani) formulate negli anni 1456 e 1488.

Ben presto però cominciarono a farsi sentire i primi venti controriformistici. Papa Giulio III (1550-55) impose improvvisamente il rogo del Talmud, nonché una tassa annua di mille scudi da parte delle quaranta famiglie di ebrei portoghesi della città.

Quando poi salì al soglio pontificio Paolo IV Carafa (1555-59), capo del partito reazionario cattolico, fu la catastrofe. Con la bolla Cum nimis absurdum (1555) revocò tutti i privilegi concessi dai papi precedenti e istituì il ghetto vero e proprio l'anno dopo, con il divieto di possedere beni immobili e limitandoli al mestiere di rigattieri.

Inviò addirittura un commissario con l'ordine di arrestare i marrani ivi residenti, cioè coloro che, per sfuggire a morte sicura, avevano abiurato la fede ebraica perché costretti dalle autorità spagnole o portoghesi e che poi, una volta espatriati, s'erano pentiti d'averlo fatto. Costoro venivano giudicati rei di apostasia, per cui si pretendeva, sotto la minaccia della tortura o della pena di morte, la definitiva abiura dall'ebraismo.

In quella situazione assurda metà degli ebrei decisero di chiedere asilo alla corte di Ferrara, altri invece si rifugiarono a Pesaro. Per fortuna il commissario, dopo essersi preso molti beni dei marrani, non andò oltre le minacce, anzi decise di trasferirsi a Genova.

Furibondo, il pontefice inviò un secondo commissario, che, con fare risoluto e sbrigativo, obbligò 60 marrani ad abiurare, mentre altri 24 (tra cui una donna), che non ne vollero sapere, li fece mettere vivi sui roghi. Era il 1556. Altri ancora furono condannati a vita a remare nelle galee, ma riusciranno a riparare a Ferrara e in Turchia dopo aver ucciso i gendarmi. La chiesa s'era comunque appropriata di tutti i loro beni.

Dura fu la reazione del sultano di Istanbul, che per due anni boicottò completamente il porto di Ancona, sperando, invano, che Pesaro fosse in grado di sostituirlo. Anche il duca di Urbino aveva sperato in questa alternativa, ma, vedendone l'impossibilità, s'era deciso a espellere dal suo territorio tutti i marrani (1558).

Conclusione? All’inizio del Seicento la comunità ebraica di Ancona fu ridotta a un tale stato di debolezza che si protrarrà per due secoli. Alla fine del secolo il porto venne completamente surclassato dai porti di Genova, Livorno e Napoli. Restavano in piedi solo le attività bancarie. Nel 1659 papa Alessandro VII ordinò persino la chiusura dei loro negozi fuori dal ghetto, e dovette revocare il decreto dopo le proteste del Senato della città.

Gli ebrei si ripresero con l'arrivo di Napoleone, ma gli indigenti a carico della loro comunità, nel 1801, erano 718 su 1493 unità. In realtà solo dopo l'annessione delle Marche al nuovo Regno d'Italia, nel 1860, si arriverà alla definitiva emancipazione civile e religiosa degli ebrei anconetani. Naturalmente fino alle leggi razziali del 1938, che ridurranno la loro popolazione a meno di 200 unità, che è quella attuale.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018