Libertà di coscienza e autoconsumo

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LIBERTA' DI COSCIENZA E AUTOCONSUMO

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Se rimane qualcosa d'irrisolto nella nostra coscienza, siamo perduti. Se non ci viene data la possibilità di chiarirci, di giustificarci, di pentirci del male che abbiamo provocato, direttamente o indirettamente, personalmente o per interposta persona, noi non avremo mai pace e non potremo fare alcun vero progresso.

I veri progressi possono esserci soltanto quando viene ricostruito il senso di umanità che alberga in noi. Rifatto alle radici. In caso contrario qualunque passo in avanti sarà in una direzione sbagliata. Non farà che peggiorare la situazione, aggiungendo problemi a problemi, il primo dei quali sarà quello d'illudersi d'aver trovato adeguate soluzioni. Come quando i Romani pensarono d'aver trovato negli imperatori la soluzione ai mali della Repubblica.

Infatti, nel cieco fanatismo dell'illusione si è incapaci di ascoltare gli altri, si procede a testa bassa, nella convinzione d'avere tutte le ragioni di questo mondo. Bisogna fare attenzione al sentimento dell'illusione, poiché se la gente ha subìto dei torti in un passato non così lontano da essere scordato, e troverà qualcuno che predicherà il riscatto sociale, vi crederà con tanta più forza quanto più si prometterà il riscatto in tempi brevi. Si finirà col vedere quel che non c'è e quel che c'è si farà finta di non vederlo, come si fece coi blitzkrieg e i lager.

Sfruttando le nefaste conseguenze del Trattato di Versailles sull'indipendenza della Germania, Hitler illuse milioni di tedeschi che sarebbero potuti diventare, accettando sacrifici enormi, i dominatori del mondo nell'arco di una sola generazione.

Tuttavia, se il problema stesse solo a questi livelli morali, forse non sarebbe così gravoso. Non è possibile infatti che uno, in tutta la sua vita, non abbia mai commesso un errore di cui pentirsi, e se si è pentito una volta, può farlo anche una seconda.

Il punto è un altro. Nessuno, da solo, è in grado di sapere fin dove è arrivato il torto compiuto, neppure se lo guardasse a distanza di molti anni. Nessuno, individualmente, può avere una chiara consapevolezza di tutte le conseguenze causate dai suoi errori. Nessuno può sapere fino a che punto è necessario chiedere perdono. Se in una società lo stupro è contro la morale e non contro la persona (come finalmente lo è diventato in Italia a partire dal 1996), il pentimento sarà più o meno profondo? Se in una società è prevista la pena di morte per un omicidio (e in Vaticano è rimasta giuridicamente sino al 1969), a che serve pentirsi?

Noi abbiamo bisogno di un collettivo che ci dia una visione generale delle cose, poiché a volte pensiamo di aver fatto del male e invece le conseguenze sono state positive per chi l'ha subìto (perché ad es. lo ha indotto a reagire, ad assumersi delle responsabilità, ad affrettare il momento di compiere una scelta che aveva già in mente).

Altre volte invece pensiamo di fare del bene, offrendo p.es. aiuti al Terzo mondo, e non ci rendiamo conto che proprio in questa maniera perpetuiamo i meccanismi di sfruttamento neocoloniale che inducono quelle popolazioni a chiederci assistenza.

Noi non siamo dei Robinson che viviamo in un'isola deserta. Qualunque cosa facciamo ha conseguenze che non riusciamo neppure a immaginare. Siamo così reciprocamente legati che anche quando non facciamo niente, facciamo qualcosa. La coscienza è davvero un abisso senza fondo, un buco nero che inghiotte tutte le interpretazioni univoche. Omnis determinatio est negatio. Non ci si perde nell'abisso solo prendendo la via negativa.

Dobbiamo essere addestrati a guardare le cose nella loro globalità. Ogni nostra azione negativa non è che una goccia che, sommata alle altre, alla fine fa traboccare il vaso. Tutti sanno benissimo che il rischio c'è, però siccome non si può stabilire quando il disastro avverrà, si spera che eventi imprevisti, a noi favorevoli, o il buon senso di chi ci governa, scongiurino il peggio. Ci comportiamo come incoscienti e ostentiamo ottimismo sugli effetti finali del nostro comportamento, salvo poi meravigliarci che le cose siano andate diversamente.

Non siamo abituati a guardare le cose nella loro interezza, proprio perché nella nostra civiltà domina l'individualismo, cioè la ragione del più forte. E' lui che detta le regole del gioco, di cui la prima è quella di non avere regole, ovvero quella di darsele solo in maniera formale, sulla carta, per accontentare i moralisti, quelli che dicono di "avere coscienza".

Prendiamo p.es. i vecchi film americani dedicati agli indiani. La morale apparteneva naturalmente solo ai bianchi, anche se fra questi vi erano buoni e cattivi; alla fine vincevano sempre i buoni, che magari si sacrificavano per il bene della loro collettività. Con la vittoria dei buoni, anche la condizione degli indiani migliorava e, se non migliorava, la colpa era degli stessi indiani, che non avevano capito la bontà dei bianchi, per cui questi erano stati costretti a sterminarli. In quei film i registi non riuscivano a distinguere la consapevolezza soggettiva di certi comportamenti (per gli indiani i bianchi "buoni" potevano anche apparire migliori dei bianchi "cattivi") da quella oggettiva (per gli indiani era la stessa cosa avere a che fare con bianchi "buoni" o "cattivi", essendo la civiltà di costoro basata sul business). Oggi hanno smesso di fare quei film non perché abbiano smesso di credere nel dio quattrino, ma perché se continuassero a sostenere che la civiltà fondata sul business è in tutto e per tutto migliore di quella indiana, si coprirebbero di ridicolo. Gli americani hanno placato i loro sensi di colpa semplicemente mostrando in alcuni film che in fondo gli indiani non erano così cattivi come venivano dipinti e che avevano indubbiamente ragione a difendere la loro terra. Detto questo possono continuare a restare nelle loro riserve e nei loro musei. Gli americani sono lontani anni luce dal capire che l'unica vera alternativa al loro devastante stile di vita stava e ancora oggi sta proprio nella civiltà che hanno distrutto.

Quando si dice che l'inferno è lastricato di buone intenzioni, non s'intende forse dire che in una civiltà antagonistica l'innocenza non esiste a nessun livello e che la corruzione è generalizzata? Qualunque azione si compia va sempre esaminata obiettivamente. E l'oggettività in questione è quella che risponde alla domanda se una determinata azione ha contribuito in maniera significativa al superamento della mentalità anti-umanistica della nostra civiltà.

Madre Teresa di Calcutta può aver salvato, nel corso della sua vita, migliaia di persone dalla malattia, dalla fame, dalla disperazione, ma se queste sue iniziative non hanno portato a ripensare concretamente, sostanzialmente, i motivi per cui in India vi siano milioni di malati ed affamati, alla fine quel suo operato farà inevitabilmente gli interessi del sistema, che potrà sempre dire di non stare con le mani in mano di fronte a quelle tragedie.

Questo non vuol dire che, prima di partire, uno dovrebbe sapere in anticipo quali effetti sul sistema avrà il proprio impegno. Vuol semplicemente dire che mentre uno lavora per il bene dell'umanità, non può trascurare le cause oggettive che la rendono schiava di poche forze senza scrupoli. E' stato un gravissimo errore degli scienziati non essersi chiesti a tempo debito quali avrebbero potuto essere le conseguenze della scissione dell'atomo.

La morale è una cosa, la politica un'altra, non nel senso che noi occidentali abbiamo dato a questa distinzione, secondo cui una buona politica difficilmente si basa su una buona morale, ma nel senso che la politica è quella scienza che permette di andare oltre le questioni meramente soggettive (il proprio impegno personale, la propria dedizione all'altrui bisogno ecc.).

Bisogna saper guardare le cose oggettivamente (che non vuol affatto dire "con distacco" o "freddezza" o "cinismo"), per cercare di commettere meno errori possibile, e anche per evitare d'illudersi sull'efficacia delle proprie iniziative personali, ovvero per evitare di accusare le istituzioni quando, secondo noi, mostrano di non capirci. Spesso si recrimina fino al punto in cui, per ripicca, si smette di compiere qualunque opera di bene.

Più che alle istituzioni, che rappresentano il potere che va combattuto, bisogna rivolgersi alle masse, alle classi, agli strati sociali, portandoli, con l'esempio di una pratica differente del bene, a un punto di rottura col sistema. Dal sistema, così com'è, bisogna soltanto cercare di uscire: è illusorio pensare di riformarlo. Questo ovviamente non deve impedirci di non fare distinzioni tra chi, all'interno del sistema, vuole conservare l'esistente così com'è, anche quando dice di volerlo riformare, e chi pratica o almeno sostiene teoricamente una politica più vicina agli ideali dell'umanesimo laico e del socialismo democratico.

Noi dobbiamo porre le basi di un sistema di vita i cui valori fondanti siano totalmente alternativi a quelli che reggono l'attuale sistema. E i due principali valori sono la libertà di coscienza e l'autoconsumo. L'uno viene garantito dall'altro, reciprocamente. Entrambi prevedono la scomparsa dello Stato. Infatti uno Stato che si fa garante della libertà di coscienza, eo ipso la viola, e uno Stato non può garantire l'autoconsumo, visto che la sua nascita è strettamente collegata a quella del mercato. La libertà di coscienza può essere solo autogarantita da un collettivo indipendente sul piano materiale.

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Tutto quanto abbiamo vissuto non possiamo dimenticarlo, è dentro di noi e ogni tanto ci riaffiora alla mente, in maniera casuale o comunque a noi poco chiara. Sappiamo soltanto che per essere davvero tranquilli e sereni dobbiamo riconciliarci col nostro passato.

Solo che non possiamo farlo limitandoci a trovare delle giustificazioni plausibili, ma dobbiamo arrivare in un certo senso a perdonare chi ci ha offeso o a scusarci per averlo fatto noi.

Abbiamo bisogno di mettere a posto la nostra coscienza, di sentirci in pace con tutti. La pace interiore è proprio questo bisogno di non sentirsi in colpa con nessuno.

Se questa cosa non riusciamo a farla nel corso della nostra esistenza terrena, dobbiamo essere messi in grado di farla in un'altra esistenza, come se dovessimo reincarnarci, ma senza quel moralismo induista, per cui, prima di far qualcosa di positivo, devi pagare il fio delle tue colpe.

Se siamo costretti a essere eterni, non ci si può costringere a stare male con noi stessi, a soffrire in eterno o anche solo per un certo periodo di tempo per dei torti subiti o arrecati, come vuole il cristianesimo. Ci si deve dare non una ma mille possibilità o di pentirci o di perdonare o di fare entrambe le cose, poiché nessuno è perfetto, in nessuna forma di vita.

La legge di natura vuole infatti questo, che il perdono fa star bene non solo il pentito ma anche l'offeso. Se non si è capaci di perdono, ci si inaridisce.

Se proprio è necessario trovare delle giustificazioni ai torti arrecati, che non lo si faccia da soli, ma insieme alla parte offesa.

Il futuro sta nella scienza o nella coscienza?

Sul nostro pianeta il genere umano dovrebbe sviluppare anzitutto la coscienza, e solo in secondo luogo la scienza. L'unica scienza che dovrebbe sviluppare è quella contestuale allo spazio-tempo che gli è appunto dato da vivere su questo pianeta: uno spazio-tempo determinato dalle condizioni di sussistenza della natura, basate su precise esigenze riproduttive.

Un qualunque sviluppo scientifico che non tenesse conto di queste esigenze sarebbe inutile o nocivo, anzitutto per la natura, ma poi anche per l'uomo. Infatti una scienza senza coscienza può far solo del male: nel migliore dei casi non serve a nulla. Noi non ci accorgiamo subito dei guasti che procuriamo alla natura né del male che facciamo a noi stessi semplicemente perché nel primo caso la natura ci appare sconfinata e nel secondo perché appunto scarichiamo su di essa tutti i nostri problemi.

Questa falsa percezione delle cose appartiene però solo ai paesi che vogliono "dominare" l'intero pianeta, i quali pensano che lo sfruttamento delle risorse naturali sia illimitato in profondità e in estensione e non si preoccupano affatto di quali conseguenze ciò possa avere sulla natura stessa, sui paesi sottomessi e persino su loro stessi: questo perché chi vive sfruttando le risorse altrui, pensa unicamente al suo interesse immediato.

I prodotti della scienza dipendono esclusivamente dalla ragione, ma se questa ragione è influenzata da interessi economici o politici o, peggio ancora, militari, non ci sarà neanche un suo risultato, grande o piccolo che sia, che servirà davvero a far progredire l'umanità. Ed è fuor di dubbio che la scienza affermatasi a partire dall'epoca moderna è altamente nociva, sotto tutti gli aspetti, sia per gli uomini che per la natura. Non perché sia scienza in sé, ma proprio perché non lo è, in quanto risponde a necessità o motivazioni che non sono naturali e quindi neppure scientifiche.

Infatti, in epoca moderna prevalgono nettamente le necessità di una determinata classe sociale, che si chiama "borghesia", affermatasi in contrapposizione a un'altra classe sociale esistita nel Medioevo: l'aristocrazia. Là dove esistono società divise in classi sociali, un qualunque sviluppo scientifico fa gli interessi della classe dominante, che se ne serve per restare al potere.

Ogniqualvolta si gioisce per un risultato straordinario della scienza, si cade vittima di un'illusione, paragonabile a quelle che si alimentavano quando dominava la religione. Allora erano illusioni basate sulla fede, oggi sono basate sulla ragione. La scienza è la religione dell'uomo moderno: i miracoli si fanno con la matematica, la fisica, la tecnologia ecc. E che questi miracoli producano risultati opposti a quelli voluti o immaginati dipende appunto dal fatto che le motivazioni sottese al progresso scientifico sono viziate in partenza da interessi contrari alle esigenze umane e naturali.

In una situazione del genere andare avanti può soltanto voler dire "tornare indietro". Noi, per poter davvero "progredire", dobbiamo tornare a quel periodo della storia in cui gli esseri umani non avevano bisogno di alcuna illusione per vivere. E questo periodo può essere soltanto quello in cui non esistevano conflitti di ceti o di classi sociali, in cui non esisteva proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui l'individuo si sentiva parte integrante di un collettivo, in cui la vita sociale era compatibile con quella naturale. Questo periodo gli storici lo chiamano, con molta supponenza, in quanto lo ritengono definitivamente superato, col nome di preistoria.

Siamo così prevenuti nei confronti di questo periodo che abbiamo sempre fatto di tutto per dimostrare che da esso bisognava necessariamente uscire, proprio perché per noi non esiste "progresso" e neppure, se vogliamo, la "storia" se anzitutto non si esce dalla preistoria.

Ecco, forse è giunto il momento di squarciare il nuovo velo che abbiamo messo nel nuovo tempio dedicato alla scienza, e dire: "Da quando siamo usciti dalla preistoria è iniziato il regresso dell'umanità". L'unico modo per invertire la rotta è rinunciare a tutto quanto di scientifico e di tecnologico risulti dannoso per la natura, e puntare diritto verso lo sviluppo della coscienza umana.

E' POSSIBILE UN'ETICA SCIENTIFICA?

Se è possibile una "scienza" in campo logico, non si capisce perché non sia possibile anche in campo etico. Se in campo etico non è possibile, poiché qui vi è il libero arbitrio, allora una logica che non lo preveda, non vale nulla. O è possibile una scienza del libero arbitrio, o non è possibile alcuna scienza, ovvero sono possibili tante scienze molto limitate nei loro contenuti, nei loro obiettivi e nelle loro pretese.

Noi piuttosto dovremmo porci una domanda cruciale per decidere la scientificità dell'etica: qual è la condizione che ci permette di dire in modo aprioristico quando una certa scelta etica non è conforme a natura? Noi non possiamo fare scienza solo dopo aver aspettato le conseguenze di determinate forme del libero arbitrio. Potremmo non esserne affatto capaci: sia perché certe scelte potrebbero impedircelo fisicamente, sia perché quelle stesse scelte potrebbero farci perdere, col tempo, i necessari criteri etici per poterlo obiettivamente fare.

Quali sono le condizioni di vivibilità della libertà che ci tolgono dall'ansia di doverci chiedere ogni giorno se quello che facciamo è giusto o sbagliato? Noi non possiamo prendere le cose così come vengono, nella convinzione che siano immodificabili. Cioè l'ansia non viene eliminata, rinunciando a chiedersi cosa sia giusto o sbagliato. L'ansia non viene tolta dando per scontato che nelle nostre società è più facile sopravvivere adeguandosi alla corruzione dominante.

L'essere umano, che voglia restare "umano", non è fatto per vivere così negativamente. L'accettazione naturale della corruzione è innaturale. Le condizioni positive per togliersi la ansia di dosso sono due:

- vivere un'esperienza comunitaria integrale, in cui ogni bisogno sia affrontato in maniera collettiva e dove la libertà di coscienza venga salvaguardata come bene primario;

- fare di questa esperienza un modello per l'intera società che ne è priva.

Dunque un lavoro interno di democrazia sociale e un lavoro esterno di democrazia politica. La politica non è altro che la proposta di un'alternativa sociale nei confronti di una realtà ritenuta umanamente inadeguata. La politica avrà fine quando avrà fine l'inadeguatezza, che è frutto di contraddizioni antagonistiche, quelle irrisolvibili in assenza di "rivoluzioni".

* * *

Un oggetto può svolgere più funzioni, anche tra loro opposte: con un cellulare p. es. posso comunicare con qualcuno, ma posso anche lanciarglielo contro, allo scopo di ferirlo. Come si fa a stabilire la funzione prevalente di un oggetto? Solitamente diciamo dal suo uso: più è frequente e più la funzione è prevalente.

Ma chi decide quale debba essere il suo uso prevalente? Lo decide la natura o la natura delle cose? Può forse deciderlo la collettività umana indipendentemente dalla natura? La domanda cruciale è proprio questa.

Noi viviamo in una società, anzi in una civiltà prevalentemente artificiale, dove la consapevolezza della naturalità delle cose è andata quasi perduta. Come facciamo a recuperarla? E, prima ancora: pensiamo davvero che sia importante farlo, oppure riteniamo che si possa tranquillamente vivere anche senza di essa?

Stante l'attuale trend del nostro sistema di vita, è probabile che noi avvertiremo davvero con intensità il bisogno di recuperare il primato della natura solo dopo che avremo sperimentato gli effetti devastanti della nostra artificiosità. Dobbiamo prima pagare duramente il prezzo delle nostre illusioni. Finché persiste la convinzione che i disastri della scienza possono essere risolti solo con la stessa scienza, non faremo neanche un passo avanti.

L'unica sarebbe - sempre che questa opzione sia possibile - di isolarsi dal sistema, cioè di fuoriuscirne, andando a vivere nei luoghi che il sistema ritiene inutili, improduttivi, svantaggiosi. Questo anzitutto vuol dire uscire dalle città, ovvero tornare a vivere in campagna o nelle colline abbandonate dagli agricoltori, o nelle montagne o nelle foreste (se ancora vi sono).

Le città sono il luogo più artificiale del mondo, un continuo cantiere aperto, dove tutto è soggetto a incessante trasformazione e manutenzione, in quanto, nonostante il cemento, i materiali ferrosi, i materiali sintetici, tutto tende a decomporsi, a distruggersi.

Purtroppo, invece di chiederci se possa esservi un'alternativa a questo spreco incredibile di risorse, noi ricostruiamo tutto come prima, salvo, quando possibile, compiere delle variazioni, nell'illusione che la decomposizione avvenga più lentamente.

In natura è esattamente il contrario: la decomposizione è molto veloce e non richiede alcun particolare dispendio fisico, neppure da parte dell'uomo. Una decomposizione veloce permette una veloce riproduzione dei frutti naturali.

Certo, una vita naturale esclude le "comodità" della tecnologia, ma esclude anche il loro prezzo, la loro ricaduta negativa sulla riproducibilità della natura.

Noi dobbiamo cercare anzitutto una vivibilità sicura, compatibilmente alle esigenze riproduttive della natura. Ciò non può essere dato né dalla scienza né dalla tecnica, almeno per come esse si sono sviluppate da quando esistono le civiltà urbanizzate.

Dateci dunque delle comunità rurali autosufficienti e solleveremo il mondo! Anzi, lo ri-solleveremo, poiché oggi è sprofondato in un abisso senza fondo, che non conosceva nel passato più remoto.

Comunità del genere non dovrebbero neppur pagare le tasse allo Stato, in quanto dello Stato rifiuterebbero qualunque tipo di servizio. Dunque dobbiamo proprio aspettare delle catastrofi artificiali prodotte dall'uomo, prima di capire che parole come autosufficienza, autogestione, autoproduzione, ecc. fanno parte di processi del tutto naturali?


Web Homolaicus

Foto di Paolo Mulazzani


Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teoria
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Aggiornamento: 14/12/2018