ANSELMO D'AOSTA TRA KANT ED HEGEL

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ANSELMO D'AOSTA TRA KANT ED HEGEL

I - II - III

Per quale motivo la prova ontologica di Sant'Anselmo per Kant non stava assolutamente in piedi, mentre per Hegel in parte sì?

Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo premettere due cose:

  1. nel Proslogion il monaco benedettino e arcivescovo di Canterbury arrivò a formulare la sua prova ontologica proprio perché non riteneva sufficiente quella di tipo cosmologico formulata nel Monologion;
  2. egli era seriamente preoccupato di voler dimostrare l'esistenza di dio, che per mille anni il cristianesimo aveva data per scontata, lasciando che fossero i fatti a parlare da soli, in quanto s'andava sviluppando a livello teologico-accademico, grazie alla riscoperta dell'aristotelismo e allo sviluppo della borghesia comunale, un certo ateismo, e in tal senso le due opere vennero scritte proprio per confutare le idee di quelli che nutrivano dubbi sul valore della fede.

Il suo ragionamento si può sintetizzare nelle seguenti affermazioni: se uno nega l'esistenza di dio, vuol dire che sa che cosa o chi è dio, dunque sa che dio è l'ente di cui non si può pensare nulla di maggiore; di nessuna cosa terrena noi possiamo pensare che non possa esistere qualcosa che la superi; dunque dio esiste non solo perché lo pensiamo (negandolo o affermandolo), ma anche come realtà.

Prima di commentare questa tesi, vediamo perché quanto già scritto nel Monologion non l'aveva soddisfatto. Il testo era indirizzato ai monaci dell'abbazia normanna di Bec, entrati evidentemente in crisi di fede.

Anselmo sostiene che l'esistenza di dio è inconfutabile in quanto l'essere umano, soggetto limitato per antonomasia che tende alla perfezione, non può tendervi all'infinito, altrimenti saremmo costretti ad ammettere che dio, rendendo infelici le proprie creature, non è giusto né buono.

Dunque la fede dei monaci in crisi poteva ritrovare il vigore perduto se cercava delle conferme intellettuali. E, come si può facilmente notare, la dimostrazione vera e propria dell'esistenza di dio veniva rimandata all'aldilà, dando per scontato che sulla terra l'uomo è destinato a vivere un'esistenza da peccatore.

Fu probabilmente questa magra consolazione a indurlo a scrivere il Proslogion, dove in effetti le tesi sono più sofisticate, più psicologiche (se vogliamo più platoniche che aristoteliche). E la maggiore è stata citata sopra: dio è ciò di cui non possiamo pensare che esista qualcosa di superiore, né nell'intelletto e neppure nella realtà.

Era una forma di consolazione indubbiamente superiore all'altra. Tuttavia Anselmo non s'era accorto che la sua tesi avrebbe potuto conservare tutto il proprio valore sostituendo semplicemente alla parola "dio" la parola "natura" o "universo". Anzi, così facendo, non vi sarebbe neppure stata la necessità di dimostrarne l'esistenza: la natura o l'universo sono per gli esseri umani un qualcosa di "dato", che non ha senso "dimostrare". La natura si mostra da sé.

Il fatto è che in entrambi i testi Anselmo partiva dal presupposto che l'essere umano fosse un ente irrimediabilmente peccatore (contraddittorio, diremmo oggi), sicché quanto più egli cercava di dimostrare l'esistenza di dio, tanto più finiva col negare all'uomo un'esistenza degna della propria natura.

Ma ora vediamo i due massimi filosofi tedeschi.

Riprendendo le tesi di Tommaso d'Aquino e, prima ancora, di Gaunilone (altro monaco benedettino coevo di Anselmo), Kant, nella Critica della ragion pura, nega qualunque valore alla prova ontologica anselmiana (sarebbe meglio usare la parola "ontoteologica"), in quanto "il concetto di un essere assolutamente necessario - spiega Kant - è... una semplice idea, la cui realtà oggettiva è ben lungi dall'essere provata dal fatto che la ragione ne ha bisogno".

Come si può notare Kant esaminava la prova più sul piano logico che psicologico. Ma sul piano logico non c'era neppure bisogno di confutarla, in quanto troppo ingenua per poter pretendere una qualche fondatezza. Sul piano psicologico invece ci si poteva fare sopra un ragionamento diverso, chiedendosi p.es. il motivo per cui il soggetto avverte il bisogno di pensare a un ente del genere e se il fatto di credervi possa costituire un impedimento allo sviluppo della ragione.

Kant, in tal senso, qualcosina si chiede ma per dare sempre una risposta di tipo logico: quella prova serviva più "a limitar l'intelletto che ad estenderlo a nuovi oggetti"; questo perché Anselmo non era riuscito a spiegare quali fossero "le condizioni che rendono impossibile considerare come assolutamente impensabile il non essere di una cosa".

La condizione principale ovviamente Kant la sapeva e sapeva anche che Anselmo non avrebbe mai potuto porla parlando di dio, e cioè che una cosa, per potersi dimostrare esistente, non ha bisogno d'essere dimostrata. Una cosa si auto-dimostra mostrandosi: il che non poteva certo riguardare il concetto di dio. Kant avrebbe però fatto una migliore figura dicendo ai teologi che sostenevano Anselmo di andarsi a rileggere il versetto 18 del Prologo del quarto vangelo, dove è scritto a chiare lettere che "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato". Entrambi si sarebbero risparmiate inutili fatiche dimostrative e contestative.

Affrontare la prova anselmiana sul piano logico non ha davvero senso, poiché anche un bambino capirebbe che un soggetto condizionato come l'uomo non può dimostrare l'esistenza di un ente incondizionato, e se anche supponesse di poterlo fare, si dovrebbe affidare più al desiderio che alla ragione. Questo poi senza considerare che è tutto da dimostrare che l'essere umano sia davvero un soggetto "condizionato"; se la dimostrazione della propria incondizionatezza è solo questione di tempo, all'uomo non resta che attendere una propria autorivelazione.

Affermare l'ateismo sul piano logico è stato per Kant un esercizio di erudizione dialettica abbastanza minimalista, riassumibile, nonostante le sue varie pagine, in pochissime righe: se esiste un dio, non può essere dimostrato; ovvero se si pensa che dalla possibilità ch'esso sia, sia veramente, si fa soltanto della tautologia, facendo coincidere arbitrariamente possibilità in senso lato con esistenza in senso concreto (cioè confondendo desiderio con realtà).

Uno potrebbe chiedersi: tutto qui? Non sarebbe stato meglio svolgere un'analisi o psicologica (nell'ambito di una fenomenologia della religione) o storica (in riferimento alla crisi di identità della società e della teologia cattolica medievale, sempre più sospinta verso le istanze ateistiche della classe borghese emergente)?

Anche Hegel, nell'Enciclopedia, ha affrontato l'argomento anselmiano prendendo le mosse da Kant, e subito ha dovuto convenire che non si può dimostrare l'esistenza di un ente assolutamente necessario ponendo come presupposto l'esigenza dell'assoluta perfezione.

Tuttavia Hegel ha voluto osservare la prova anche dal punto di vista psicologico ed è arrivato a dire, rifacendosi in qualche maniera a tesi già espresse da Bonaventura, Duns Scoto e Leibniz, che dio può anche esistere se la coscienza lo sente, lo intuisce. "Con la rappresentazione di Dio è inseparabilmente congiunta la determinazione del suo essere nella nostra coscienza". Cioè se al desiderio di assoluto l'uomo vuol dare il nome di "dio", che male c'è? Dove sta la contraddizione? Non è forse questa una forma di idealismo soggettivo, analoga a quella di Kant o di Fichte?

A livello di coscienza l'intuizione può anche percepire come coincidenti l'essere divino e la sua esistenza. Kant, che tanto peso ha dato all'intuizione sensibile parlando di spazio e tempo, perché ha usato solo la logica analizzando l'ontologismo anselmiano, dandosi peraltro tutte quelle "arie di superiorità" (le parole virgolettate sono proprio nel testo, anche se non viene espressamente citato il nome di Kant)?

Hegel insomma scusa "l'ingenuo buon senso" del benedettino, ammettendo volentieri che la sua idea è presente in ogni filosofia idealistica, come nella "fede immediata" (del popolo).

E' facile notare come qui Hegel abbia voluto fare un discorso "politicamente corretto". Semmai il monaco andava criticato - scrive alla fine - sul fatto d'aver voluto dimostrare vera un'astrazione, senza riuscire a farlo concretamente, nell'esperienza della fede, per poi arrivare a dire che la verità della fede, nell'esperienza, non può essere data una volta per tutte, essendo anch'essa soggetta alla legge della negazione.

Hegel insomma è stato più diplomatico di Kant e forse anche più sensibile, in quanto si ha l'impressione che parlando di Anselmo egli in realtà volesse parlare di se stesso, volesse cioè dire che il superamento del cristianesimo medievale sarebbe potuto avvenire con più successo dimostrando che l'esperienza concreta della ragione è storicamente superiore a quella della fede.

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Enrico Galavotti - Homolaicus - Sezione Teorici
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Aggiornamento: 26-04-2015