GIORDANO BRUNO: filosofia, religione, magia e tecnica

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GIORDANO BRUNO: filosofia, religione, magia e tecnica

Giordano Bruno

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Giuseppe Bailone

All’inizio del quarto dialogo della Cena de le Ceneri, nel difendere il copernicanesimo da coloro che, negli ambienti puritani di Oxford, lo aggrediscono con l’autorità biblica, Bruno sostiene che le Scritture, avendo lo scopo di ordinare la vita morale degli uomini, non sono rivolte ai filosofi, che sanno autogovernarsi e conoscono il bene e il male, ma ai popoli rozzi e ignoranti, che hanno bisogno di essere governati e diretti.

“Nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma, in grazia de la nostra mente ed affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azioni morali. Avendo dunque il divino legislatore questo scopo avanti gli occhi, nel resto non si cura di parlar secondo verità, per la quale non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi, e parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo d’intendere e di parlare, venghi a capire quel ch’è principale”.

Bruno cita al Gazzali, “filosofo, sommo pontefice e teologo mahumetano” che disse “che il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de’ costumi, profitto della civilità, convitto di popoli e prattica per la comodità della umana conversazione, mantenimento di pace e aumento di repubbliche”.

Se l’autore dei passi biblici citati contro Copernico avesse scritto la verità, invece di adeguarsi alla lingua e alla cultura del popolo a cui si rivolgeva, “l’arrebono al fine stimato un pazzo, e sarebbe stato da dovero un pazzo”.

“Parlare con i termini de la verità dove non bisogna, è voler che il volgo e la sciocca moltitudine, dalla quale si richiede la prattica, abbia il particular intendimento; sarrebe come volere che la mano abbia l’occhio, la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e consentire a la vista”.

“Dove dunque gli uomini divini parlano presupponendo nelle cose naturali il senso comunemente ricevuto, non denno servire per autorità”.[1]

La distinzione del campo della verità dal campo della legge e dell’ordine morale è un punto fermo nel pensiero di Bruno. Anche nel De l’infinito, universo e mondi si manifesta a chiare lettere:

“Quel che è vero è pernicioso alla civile conversazione e contrario al fin delle leggi, non per essere vero, ma per essere male inteso, quanto per quelli che malignamente il trattano, quanto per quelli che non son capaci d’intenderlo senza iattura di costumi”.

Bruno sta spiegando il principio cardine della sua filosofia: l’universo è infinito perché è effetto infinito e necessario dell’infinita e necessaria potenza di Dio.

“Il primo efficiente (Dio) se volesse far altro che quel che vuol fare, potrebbe far altro che quel che fa; ma non può voler altro che quel che vuol fare; dumque non può far altro che quel che fa. Dumque chi dice effetto finito, pone l’operazione e la potenza finita. Oltre (che viene al medesimo): il primo efficiente non può far se non quel che vuol fare, non vuol fare se non quel che fa: dumque non vuol fare se non quel che fa. Dumque chi nega l’effetto infinito nega la potenza infinita”.

Questa verità Bruno la ribadisce anche al processo a Venezia e a Roma.

Questa verità fondamentale può, però, essere fraintesa. Quindi, scrive Bruno:

“Tutta volta lodo che alcuni degni teologi non la admetano: per che providamente considerando, sanno che gli rozzi popoli e ignoranti, con questa necessità vegnono a non posser concipere come possa star la elezzione (= la libera scelta) e dignità e meriti di giusticia; onde confidati o desperati sotto certo fato, sono necessariamente scelleratissimi”.[2]

La verità dell’attività infinita di Dio, comunicata senza precauzioni a tutti, può indurre a fatalismi molto pericolosi moralmente e socialmente.

Filosofi e teologi possono sostenersi reciprocamente se i primi non danno ai porci direttamente le loro perle e i secondi lasciano libertà di ricerca ai primi.

Ai filosofi la libera contemplazione della verità, ai buoni teologi la guida dei rozzi e ignoranti popoli: “Da questo principio depende che gli non men dotti che religiosi teologi giamai han pregiudicato alla libertà de filosofi; e gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno faurito le religioni: perché gli uni e gli altri sanno che la fede si richiede per l’istituzione di rozzi popoli, che denno esser governati; e la demostrazione per gli contemplativi, che sanno governar sé et altri”.[3]

La ricerca della verità ha bisogno di piena libertà, mentre l’uso morale e sociale della verità richiede la prudenza divulgativa dei teologi[4] che conoscono la capacità di ricezione delle masse popolari.

La distinzione di campo della verità e campo della fede e della legge non significa, però, la loro totale estraneità: possono penetrare positivamente l’uno nell’altro e rafforzarsi reciprocamente.

La buona filosofia e la buona religione possono incontrarsi con ottimi frutti nella convivenza umana, com’è successo nell’antico Egitto e a Roma prima dell’affermazione del cristianesimo.[5]

“Nella prassi sta, in effetti, il punto fondamentale di convergenza tra filosofia e religione – se è vero che il valore di una specie o di un’altra specie di contemplazione si misura, appunto, dai frutti rispettivi che l’una e l’altra sanno produrre”.[6]

Filosofia e religione hanno funzioni distinte, ma la buona religione ha alle spalle una filosofia vera. Il cristianesimo produce effetti sociali negativi perché è incardinato su un rapporto con la divinità che Bruno giudica sbagliato.

Celebrando “l’eccellenza del culto de l’Egitto”, Bruno scrive:

“Conoscevano quei savii Dio essere nelle cose, e la divinità latente nella natura, oprandosi e scintillando diversamente in diversi suggetti, e per diverse forme fisiche con certi ordini venir a far partecipi di sé, dico de l’essere, della vita et intelletto; e però con gli medesimamente diversi ordini si disponevano alla recepzion de tanti e tai doni, quali e quanti bramavano. Quindi per la vittoria libavano a Giove magnanimo nell’aquila, dove secondo tale attributo è ascosa la divinità; per la prudenza nelle operazioni a Giove sagace libavano nel serpente; contra la prodizione a Giove minace nel crocodillo: cossì per altri innumerabili fini libavano in altre specie innumerabili … Ecco dunque come mai furono adorati crocodilli, galli, cipolle e rape; ma gli Dei e la divinità in crocodilli, galli e altri: la quale in certi tempi e tempi, luoghi e luoghi, successivamente et insieme, si trova e si trovarà in diversi suggetti quantumque siano mortali; avendo riguardo alla divinità secondo che ne è prossima e familiare, non secondo è altissima, absoluta, in se stessa, e senza abitudine alle cose prodotte”.[7]

Ebraismo e cristianesimo hanno, invece, allontanato la divinità dal mondo e dagli uomini, relegandola nella trascendenza. Dal loro errore filosofico discende un ordine sociale e politico corrotto e l’impotenza di fronte alla natura. Di qui la necessità di un messia che ripristini il rapporto con Dio col suo sacrificio e che salvi il mondo con miracoli.

Per Bruno la comunicazione con Dio non passa attraverso il sacrificio di Cristo, ma attraverso la contemplazione dell’universo infinito e del divino presente in ogni elemento naturale che lo costituisce. E i grandi cambiamenti storici non si producono con i miracoli, con l’arrivo del messia, ma con l’umile lavoro dell’uomo, con la sua capacità di servirsi insieme delle mani e dell’intelletto.

Non è un caso che nella grande riforma celeste, che Giove promuove in ricorrenza della sua vittoria sui Titani, la Fatica (personificazione divina della fatica umana) abbia un ruolo fondamentale: il faticoso lavoro è il solo mezzo per promuovere la civiltà e arrivare alla conoscenza.

E’ grazie alla fatica che “Perseo fu Perseo, et Ercole fu Ercole, et ogni forte faticoso è faticoso e forte”. E senza di lei non si raggiunge “il polo sublime della Verità”. A lei Giove affida due compiti:

Dominare la Fortuna: “Scaccia la Disaventura, apprendi la Fortuna pe’ capelli; affretta quando meglio ti pare il corso della sua ruota: e quando ti sembra bene, figigli il chiodo, acciò non scorra”.

Mantenere uniti il corpo e la mente: “Non voglio che possi dividerti: perché se ti smembrerai, parte occupandoti a l’opre de la mente e parte a l’oprazioni del corpo, verrai ad essere defettosa a l’una e l’altra parte; e se più ti addonarai a l’uno, meno prevalerai ne l’altro verso: se tutta inclinarai a cose materiali, nulla vegni ad essere in cose intellettuali, e per l’incontro”.[8]

Celebrata la Fatica, Bruno critica nelle pagine successive il mito dell’età dell’oro e di una natura in origine così generosa da assicurare agli uomini vita oziosa. Lucreziano, convinto che la civiltà sia frutto di lento e faticoso sviluppo, Bruno, con la critica al mito dell’età dell’oro, si muove anche contro l’allora nascente, soprattutto in area francese, mito del buon selvaggio.

“Bruno sa che la scoperta del Nuovo Mondo ha giocato un ruolo importantissimo nella ripresa letteraria del mito dell’età dell’oro. Ma anche in questo caso il filosofo non esita a fare chiarezza”[9] e a smascherare la natura piratesca di quell’impresa.[10]

La conquista del Nuovo Mondo è pirateria e l’età dell’oro non è mai esistita.

La civiltà è frutto del lavoro faticoso cui l’uomo è predisposto dal suo corpo.

E’ la particolare conformazione corporea che fa dell’uomo quel che è.

Se un serpente assumesse il corpo di un uomo “intenderebbe, apparirebbe, spirarebbe, parlerebbe, oprarebbe, camminerebbe non altrimenti che l’uomo; perché non sarebbe altro che uomo”. Alla stessa maniera, se un uomo assumesse il corpo di un serpente “non sarebbe altro che serpente” e quindi “in luogo di parlare sibilarebbe, in luogo di camminare serperebbe, in luogo d’edificarsi palaggio si caverebbe un pertugio, e non gli converrebbe la stanza ma la buca”.[11]

E nel corpo umano decisive sono le mani. Bruno lo scrive nello Spaccio … :

“E (Sofia) soggionse che gli dei aveano donato a l’uomo l’intelletto e le mani, e l’aveano fatto simile a loro donandogli facultà sopra gli altri animali; la qual consiste non solo in poter operar secondo la natura et ordinario, ma et oltre fuor le leggi di quella: acciò (formando o possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno, con quella libertade senza la quale non arrebe detta similitudine) venesse ad serbarsi dio de la terra”.[12]

Nella Cabala del cavallo pegaseo, indica la mano con l’espressione aristotelica “organo de gli organi”, e scrive che, senza le mani, l’uomo mai avrebbe potuto creare “le istituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congregazioni di cittadini, le strutture de gli edificii, et altre cose assai che significano la grandezza ed eccellenza umana”.[13]

Anche il sapere nasce dalle mani. Bruno si rifà a Lucrezio e riprende l’idea di Anassagora: l’uomo è l’animale più intelligente perché ha le mani.

La superiorità umana sugli animali si regge sul rapporto dell’intelletto con le mani. E’ qui la radice della magia, dell’azione umano-divina sulla natura.

Magia significa operare sulla natura comunicando con il divino presente in essa, come sapevano fare gli Egizi; significa intendere i linguaggi infiniti con i quali esso parla dentro la natura. “E disporsi, e attrezzarsi, con «tecniche» adatte”.[14] Perché le tecniche non sono neutre e non tutte sono adatte.

Non lo è stata, per gli Egizi, ad esempio, l’importante invenzione dell’alfabeto:

“Essi avevano a disposizione, per designare le singole cose, immagini determinate, desunte dalle cose della natura o da loro parti; tali scritture e tali voci adoperavano gli Egizi per intrecciare colloqui con gli dei ad esecuzione di effetti mirabili. Ma quando Theuth o qualcun altro inventò le lettere del genere che ora utilizziamo in altro tipo di attività, si verificò una perdita gravissima sia per la memoria sia per la scienza divina e la magia. Perciò, a similitudine degli Egizi, i maghi oggi, costruite immagini e descritti caratteri e cerimonie, che consistono in certi gesti e in certi culti, comunicano i loro desideri quasi per mezzo di cenni definiti, e questa è quella lingua degli dei che, mentre le altre tutte sono mutate mille volte e quotidianamente mutano, rimane sempre la stessa, come resta la stessa la specie della natura”.[15]

L’alfabeto semplifica di molto la scrittura, ma ne cambia la funzione: infatti, gli elementi dell’antica scrittura egizia erano “immagini determinate, desunte dalla natura delle cose o da loro parti”, e servivano “per designare le singole cose”; l’alfabeto, invece, compone una scrittura per designare, non direttamente le cose, ma le parole, diverse da lingua a lingua, con le quali si designano le cose. L’alfabeto rende un buon servizio alle diverse e mutevoli lingue umane, ma si lega ai loro limiti, mentre, per conoscere la natura e agire con essa, ci vuole la scrittura delle cose, non quella delle parole, ci vuole la “lingua degli dei”.

Una critica ancor più radicale di quella di Platone nel Teeteto!

Bisogna riscoprire l’antico linguaggio insieme all’antica sapienza.

Per vincere le tenebre del cristianesimo e i suoi devastanti effetti morali e sociali, occorre tornare ad antiche radici amputate, tornare al sapere e al linguaggio magico degli antichi Egizi. C’è in Bruno “una opposizione radicale tra sapienza egizia e ignoranza cristiana, situata nel cuore di una riflessione complessiva sulla crisi universale della civiltà a tutti i suoi livelli”.[16]

Nel terzo dialogo dello Spaccio, la religione egizia è in più passi contrapposta a quella cristiana. 

“Nella ruota del tempo, gli Egizi rappresentano la luce e la verità, perché attraverso la praxis hanno saputo comunicare con la divinità. All’opposto: ebrei e cristiani rappresentano tenebre e ignoranza … Riscoprire la religio vuol dire «riscoprire» merito e magia … gli Egizi, nello Spaccio, sono l’archetipo della religio bruniana. Senza praxis, senza magia, non c’è comunicazione tra Dio, uomo e natura; non c’è religio. Ma senza religio non c’è riforma dell’umanità … è da questa persuasione che nello Spaccio iniziano a germinare, con grande intensità, i motivi che saranno alla base delle opere magico-religiose del periodo finale della filosofia nolana”.[17]

Con la rivoluzione copernicana si affermano la ragione calcolante e la matematica come codice di lettura della realtà, ma per Bruno la matematica non è la “lingua degli dei”.

Ebraismo e cristianesimo hanno prodotto tenebre e ignoranza, gli strumenti matematici hanno frenato la rivoluzione di Copernico, vincolandola al vecchio mondo della finitezza; culto della trascendenza divina e uso della matematica hanno portato Keplero alla concezione dell’universo come orologio.

Se nell’Egitto della luce e della verità l’invenzione dell’alfabeto è stata disastrosa, nel mondo cristiano delle tenebre e dell’ignoranza quali effetti può produrre la “scoperta” del codice matematico di lettura della realtà?

L’immagine dell’universo orologio, che a Keplero appare capace di rendere a Dio tutto l’onore che merita e di orientare la ricerca umana sulla natura con i soli strumenti matematici, non seduce affatto il filosofo dell’eroico furore.

Torino 9 maggio 2011


[1] Pp. 522-25 in Opere italiane 1, Utet 2002.

[2] Pp. 50-1 di Opere italiane 2, Utet 2002.

[3] Ibidem, pp. 51-2.

[4] I teologi sono per Bruno i mediatori culturali tra il sapere dei filosofi e le masse; sono educatori popolari e dirigenti politici; svolgono le funzioni oggi svolte non solo dai preti ma, anche, dagli educatori, dagli intellettuali dei giornali, della televisione e dai politici.

[5] Anche Machiavelli valuta le religioni in base ai loro frutti sociali e politici. Ecco che cosa scrive sulle cause che rendono i suoi contemporanei meno “amatori della libertà” degli antichi: “La religione antica … non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria … La nostra religione ha glorificato più gli uomini umili e i contemplativi che gli attivi. Ha poi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione e dispregio delle cose umane: quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi … E benché paia che si sia effeminato il mondo e disarmato il cielo, nasce più senza dubbio dalla viltà degli uomini che hanno interpretato la nostra religione secondo l’ozio e non secondo la virtù”. (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Torino 1983, II, 2, pp. 223-5).

[6] Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza 1990, p. 53.

[7] Spaccio … , in Opere italiane 2, Utet 2002, pp. 357-60.

[8] Ibidem, pp.307-9.

[9] Nuccio Ordine, Introduzione a Opere italiane 2, Utet 2002, p. 109.

[10] Su questo vedi la dispensa 4. 23.

[11] Cabala del cavallo Pegaseo, in Opere italiane 2, Utet 2002, p. 453.

[12] Spaccio … , in Opere italiane 2, Utet 2002, pp. 323-4.

[13] Cabala … , in Opere italiane 2, Utet 2002, p. 454.

[14] Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza 1990, p. 150.

[15] De magia De vinculis, citato in Giordano Bruno, di M. Ciliberto, Laterza 1990, a p. 151.

[16] Michele Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza 1990, p. 152.

[17] Ibidem, p. 149.


Fonte

Fonte: ANNO ACCADEMICO 2010-11 - UNIVERSITA’ POPOLARE DI TORINO

Giuseppe Bailone ha pubblicato Il Facchiotami, CRT Pistoia 1999.

Nel 2006 ha pubblicato Viaggio nella filosofia europea, ed. Alpina, Torino.

Nel 2009 ha pubblicato, nei Quaderni della Fondazione Università Popolare di Torino, Viaggio nella filosofia, La Filosofia greca.

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Aggiornamento: 26-04-2015